L’ora della malinconia
Le ultime ore in Perù non sono tanto allegre, non sono tanto facili. Mi sono appena separato dal mio storico compagno di viaggio, da altre persone incontrate più volte tra Arequipa e Cuzco, da Lily che mi ha fatto girare abbastanza la testa. Prima di incontrare Alessandro che mi seguirà nella seconda parte del mio percorso andino passo un paio di giorni da solo e sul camioncino che mi porta verso la Bolivia dedico i miei pensieri ai visi e alle emozioni di questo mese di Perù. Mi viene in mente una frase di Hermann Hesse che dice, più o meno, che l’amore per le donne e per i luoghi, il concetto d’amore in generale, il viandante lo esplica e lo sublima nel viaggio, nel continuo spostarsi per cogliere la linfa della vita. Forse devo farmi un po’ di coraggio…

Un viaggio che va oltre
Mentre dai finestrini vedo l’azzurro del Titicaca e le rocce rosse delle Ande, campanili di vecchie missioni e paesini addormentati, penso che Massi e gli altri hanno fatto tre, quattro settimane di giri, una vacanza intensa sì, ma domani sono già a casa. Il mio mese in più crea invece qualcosa che va oltre la vacanza: è un viaggio lungo, di spostamenti enormi, un netto cambio di abitudini, di temperature, di panorami, di alimentazione, forse anche di idee e di mentalità. Per voglia, per fortuna, sto passando un pezzo della mia vita sulle Ande, immerso in un’altra cultura, incrociando sguardi di indios e di altri viaggiatori. Finita l’università potevo scegliermi un altro itinerario sabbatico, solo godereccio, solo di riposo: Miami, Rio, un paese dei Caraibi, invece sono voluto venire qua. Oppure ho seguito un istinto e mi sono ritrovato qua, non l’ho ancora capito.
Due mesi sono la sesta parte di un anno, un sacco di tempo, un periodo di prove, di crescita, di cambio, di sogni, di amore. Amo questa provvisorietà che mi riempie l’anima ma soffro anche certi distacchi. La frontiera tra Perù e Bolivia la passo così, con quest’aria malinconica. Le cose sono provvisorie anche fuori di me, finisce la strada in asfalto e comincia quella in polvere, la polizia doganale sonnecchia sotto i ritratti e le bandiere dei due presidentissimi, una musica che stordisce esce da qualche altoparlante, vedo gente umile per strada che si baratta le cose, il bus si dimentica come sempre una signora a terra e dopo qualche ora mi porta a Copacabana.


La crudeltà di Pizarro
La fine del mio viaggio in Perù mi fa pensare alla vera, tragica fine del Perù. Riprendo in mano la fantastica guida Clup per capirla un po’ meglio e mi fisso sul pensiero dell’uomo che distrusse lo splendido impero andino: Francisco Pizarro. Dietro l’alibi della limpieza de sangre la storia di Pizarro racconta soprattutto l’annientamento di una civiltà e una sopraffazione senza ritorno. Gli Incas furono sconfitti in tutti gli ambiti: quello militare, politico, economico ma anche quello psicologico, sociale e immunitario. Gli spagnoli oltre a svuotare templi, tesori e miniere portarono infatti in queste terre malattie sconosciute. Caddero Cuzco e le sue fortezze, il dio della pioggia e del mais, le tradizioni andine, tutto cancellato per sempre dai cannoni e dai rosari, dai feroci conquistadores e dai preti invasati dall’ossessione del pagano.
Dai porci agli ori
Il primo responsabile della distruzione fu il feroce, duro e furbo Pizarro, un uomo rozzo, ignorante, forse di origini bastarde, cresciuto come guardiano di porci in un campo arido dell’Extremadura, la povera regione a sud-ovest di Madrid. Un uomo che vedrà nei viaggi in America – tratto comune a molti conquistadores – la sua unica possibilità di riscatto e di rivincita nei confronti dell’umile vita precedente. Quante fantasie gli giravano in testa: le armi, i tesori, le lani pregiate, l’Eldorado, la gloria… Rispetto al più colto e politico Cortès, che entrò nel Messico atzeco in missione per la Corona spagnola, con la spietata e fanatica azione di Francisco Pizarro scomparve da tali spedizioni ogni barlume di nobiltà e la Conquista raggiunse il suo punto di massimo degrado, fu sempre più armata e crudele.
La fine di Atahualpa
A Pizarro e ai suoi 180 sgherri importava solo arrivare, uccidere, vincere e prendersi tutto. Sfruttarono le divisioni e le vendette già in corso tra gli Incas di Cuzco e quelli di Quito, si presentarono al vincitore Atahualpa come gli ambasciatori di un grande sovrano, col missionario Valverde pronto a portare un nuovo Dio tra le montagne del Perù. L’agguato riesce subito, 30.000 Incas non sanno come reagire davanti ai cavalli e ai cannoni e agli spari degli archibugi. Dopo pochi istanti restano sul terreno il loro sangue, i loro ori e le loro piume colorate. Per la sua liberazione Atahualpa paga ingenuamente “el cuarto de rescate”, una stanza piena d’argento e mai errore fu più grave perché gli spagnoli nel vedere quelle pensarono avidamente a quante altre ricchezze restavano nascoste. Il grande impero Inca finì in quel momento, con lo strangolamento del sovrano, la marcia su Cuzco e le chiese spagnole che si cominciarono a costruire sopra i templi andini.
Seguirono tempi altrettanto feroci, le lotte fra le fazioni stesse dei conquistadores, la morte violenta di Pizarro nel 1541 col taglio simbolico dei muscoli e della faccia da parte dei suoi nemici, la testa di Tupac Amaru conficcata su un palo nel 1572, l’avvento di una gretta politica coloniale, la fuga degli ultimi indios nel buio delle foreste.
Copacabana e la sua Festa
Tra i miei pensieri e quelli su Pizarro come dicevo al termine della giornata arrivo a Copacabana, sulla sponda boliviana del lago Titicaca. Il nome della città è piuttosto evocativo (sole, mulatte in tanga, capoeristas con gli addomi scolpiti, samba, frullati di mango e papaya) ma in questo caso – ahimè – si tratta soltanto di una cittadina sulla gelida riva del Titicaca.

Oggi però è il 6 agosto, un giorno speciale, un giorno di festa: sfila per le strade e in riva al lago la vergine nera della Candelaria, simbolo religioso della Bolivia. E dietro a lei un esercito di poveri fedeli, di bambini in costume, di ladruncoli che secondo me approfittano della confusione e della commozione per sfilare qualche portafoglio dalle tasche dei contadini.
Da tutto il paese e dal vicino Perù arrivano camion, bus e macchine addobbate con nastri colorati, coriandoli e fiori. Al freddo e al sole si assiste e si partecipa a processioni, preghiere, balli e mangiate e Copacabana diventa un luogo di pellegrinaggio per tutte le genti della regione. Anche questo è un concetto che va chiarito meglio: la ragazza che mi affitta la camera in una pensione mi spiega che la gente di qui non si sente né boliviana né peruviana, appartiene piuttosto al Titicaca, quasi un altro paese, un’entità geografica neutrale, un posto mitico e spirituale di suo, che non necessita della sovrastruttura di uno Stato. Siamo nella nazione del Lago.

La collina sacra
Copacabana la visito a caso, seguendo volutamente i passi degli altri. Le famiglie indigene si scaldano i pasti (pannocchie di mais e cotiche di maiale) su fuocherelli improvvisati e poi salgono su una collina, un promontorio affacciato sul lago. Il loro all’inizio mi sembra un cammino di penitenza. A ogni sosta posano dei sassi vicino alle croci, comprano cose ridicole (una metafora dei loro sogni? quello che si augurano presto di possedere?) come modellini di macchine e casette di bambola, crocifissi e caramelle, rosari e petardi, frittelle e santini. Alla fine arrivano in cima e ripongono le loro speranze in qualche santone o curandero improvvisato che legge i tarocchi, recita nenie religiose, cosparge la famiglia di incenso e la innaffia con una bottiglia di pessima birra. Ogni famiglia, secondo questi strani riti sincretisti che mi ricordano quelli della comunità chiapaneca di San Juan de Chamula, riceve sollievo e benedizione, per i sogni, per i doni, per i figli e per l’incerto futuro. Se un futuro da queste parti esiste…
Eh già… questo è un popolo che nella sua povertà non può che aggrapparsi alle feste e alle speranze di un mondo migliore, in qualche altro luogo o in qualche altra vita.

I disegni dei sogni
Molto toccante è il momento della preghiera personale alla Vergine. Ognuno accende una candela e con della cera impastata disegna, ai piedi degli altari, i suoi desideri: e rivedo i palazzi e le auto e i sacchi di soldi finti. Quando fra nuvole d’incenso, milioni di coriandoli e pezzi di vetro scendo dalla sacra collina vedo scene di stordimento collettivo, risa e pianti insieme, poveracci ricoperti di poster della Madonna e le loro mani che agitano mazzi di verdoni finti! Vedo alcune bancarelle di streghe che vendono feti di lama (va seppellito sotto le case come portafortuna), corazze di armadillo e zampe di coniglio (portano felicità e denaro), grasso di mula (serve a curare i reumatismi!) e un campionario infinito di pozioni, unguenti, amuleti, intrugli, filtri d’amore e altre schifezze assortite.

Al posto della rivoluzione
Cosa pensare della festa di Copacabana? Aspetto il tramonto, il mio pesce di lago e la mia grappetta per mettere i pensieri in ordine. Tutto è sospeso tra sacro e profano, credo e magia, religione e superstizione. Io rispetto questa fede così povera e così ingenua ma faccio le mie solite considerazioni laiche e progressiste: al popolo vengono dati in pasto le immagini sante, le leggende, i riti e le feste per tenerlo passivo e tranquillo. Culti sì, rivoluzione no, il flauto dei boliviani non suona note acute e sui loro visi di rame si legge solo tanta atavica rassegnazione. Qua uno si domanda davvero come Che Guevara pensasse di smuovere gli abitanti dell’altopiano dalla loro apatia totale e dalla loro abitudine storica alla sconfitta.

Difronte a Copacabana c’è la Isla del Sol, il luogo sacro degli Incas, la loro terra d’origine. Le rovine non sono niente di speciale ma sono molto belli i colori della natura.

Un paese ingenuo
Nel viaggio verso la capitale vedo ancora lago e monti, vedo tante, troppe bandiere boliviane e poster del presidente, sulle barche, sui camion, all’entrata di paesi insignificanti, in mezzo a feste di strada, alla fine di processioni. Patria, famiglia e dio, un certo culto del Capo, la classe dirigente boliviana mi sembra promulgare soprattutto questi valori per tenere lontano il popolo dalle passioni politiche “pericolose”, quali gli scioperi, le proteste per salari più giusti, per un’istruzione e una sanità migliori, prospettive di vita diverse. Sono in Bolivia da un giorno ma mi sembra già un paese molto ingenuo, molto bambino, piuttosto malinconico e triste, pieno di miseria, che si stordisce con le bande musicali e tira in aria soldi finti. Stanno bene così? Non hanno altro credo… E’ un bel mondo a colori ma sembra in bianco e nero.


L’aria mitica di Tiahuanaco
Sempre vicino al lago e alla frontiera c’è un sito archeologico emozionante il cui nome in lingua quechua significa “il villaggio dei figli del sole” o “il campo silenzioso”: Tiahuanaco. Un’antica città portuale per gli aymara, luogo sacro per gli Incas perché qui secondo il loro culto il dio Viracocha modellò la specie umana con l’argilla del Titicaca.
Tiahuanaco era la capitale di un impero agro-pastorale che coltivava tuberi sui campi terrazzati, allevava pesci nei canali di irrigazione, produceva straordinari tessuti policromi e degli alti bicchieri di ceramica, i Kero, coi disegni tipici dell’iconografia andina (il condor, il felino, il lama). La sua importanza era tale che rappresentava il centro delle culture dell’altopiano e qui transitavano sempre le carovane di lama che permettevano i commerci col Cile del nord.
Oggi sono rimasti il vento e le rovine: una piramide di terra dove una volta splendeva la corte, le mura ciclopiche, un tempio sotterraneo, due severi monoliti che ricordano dei principi, i resti del mercato e soprattutto la Puerta del Sol, simbolo del passaggio dallo spazio mondano a quello sacro. Sulla porta c’è un bassorilievo molto famoso, si tratta della figura di un dio-capo con due scettri nelle mani, circondato da fedeli attendenti dai tratti felini.
Tiahuanaco Pueblo sono poche case nel deserto d’alta quota, una stazioncina persa nel mondo, nel campo sportivo si gioca una partita, come al solito col pallone sgonfio. In porta mi sembra di scorgere una ragazza. I riflessi del Titicaca ormai si vedono da lontano, in paese davanti a tre bambolotti mi divoro uno stufato, faccio amicizia al tavolo accanto con due fratelli che la sera vogliono portarmi “nel bar màs famoso della Bolivia”, quello dove alle ballerine “puedes ver sus rodillas”!! (traduzione: gli si vedono le ginocchia!!)
“Ma davvero?? – gli chiedo, fingendomi molto interessato.
“Si, si, son las chicas de Copacabana, serà una tarde especial esta tarde!!” (traduzione: sono le ragazze di Copacabana, sarà una serata speciale!!)
Mi mancava questa. Ovviamente il bar più famoso della Bolivia è un bar con due lucette fioche, qualche minatore, qualche contadino, bottiglie di dubbia provenienza, però le ragazze meritavano questo atto di coraggio. Là oltre a guardarle ascolto qualche chiacchiera sui segreti e i tesori del lago, la storia più divertente riguarda il miliardo di rane che nelle notti andine secondo i due fratelli boliviani di Tiahuanaco gracidano per invocare un po’ di pioggia.



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