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I grandi reportages / Sguardi Andini

Sguardi Andini: la regione del Titicaca

Verso il lago degli Inca

Cambiano decisamente i panorami, i colori e le atmosfere del viaggio: dal candore della pietra di Arequipa e dai canyon del condor passiamo al blu intenso del lago con le sue isole di paglia. Arriviamo nella mitica regione del Titicaca, il lago navigabile più alto del mondo (siamo a quota 3800 metri!) sulle cui sponde, secondo la leggenda, nacque la civiltà inca. L’altopiano insieme al cielo si apre sempre di più, le montagne fanno da cornice ovunque, la forte luce inonda il paesaggio.

Titicaca, il lago navigabile più alto del mondo
il blu intenso del lago

Puno, l’indiana

Il centro principale del Titicaca è Puno, una città fredda e indiana, piena di mercati. Per ovvi motivi i ritmi di vita di Puno sono intensi: siamo nel naturale sbocco per i commerci di tutte le popolazioni della regione, infatti si notano subito indios in arrivo coi treni colorati o che scendono dagli altopiani con lama carichi di fagotti e bambini; siamo nel luogo dove arrivano anche i turisti perché da qui partono tutte le escursioni su questo lago grande come un mare (8300 kmq di superficie!), partono anche i treni per Cuzco, mentre a sud Puno fa da porta di ingresso per la Bolivia.

Puno sente ed esprime benissimo il suo orgoglio etnico a suon di musiche, balli e maschere, folklore e processioni religiose. Tutte queste manifestazioni sono le più belle del Perù indigeno.

Al mercato il rito della vendita tocca sempre alle donne, nascoste fra i tessuti o sedute sulle loro gonne monumentali. Ti dicono con tono dolce “Senor, llevese un recuerdo” (“Si porti via un ricordino”) e decise ti rispondono “No sale” (“Non basta, non esce”) se il tuo prezzo non rende giustizia al prodotto e non gli fa guadagnare la giornata. Ma se compri qualcosa, che può essere un maglione di lana colorata come un flauto de pan, si fanno il segno della croce e ti salutano con un sorriso che fa vedere i denti dorati, evidentemente uno status, insieme alle rigide bombette nere, da queste parti.

lana colorata

Dopo poche ore io e i miei compagni di viaggio abbiamo deciso che Puno ci piace, ha un’anima. Sarà lo spirito del lago, delle genti del Titicaca e delle loro feste, sarà il colore della lana e delle barche o l’ambiente universitario ma qui il Perù diventa un viaggio molto autentico e molto intenso.

La gente di Puno

Così la scrittrice Maruja Torres in “Amor America”: “Puno non dava ancora la sensazione di trovarsi in Perù, almeno non il Perù che io conoscevo…, la paura che avevo sentito ad Ayacucho, lo sprofondare della città di Lima… E’ una città bianca, con una ridente baia che si affaccia sul lago… e restava al margine della rovina, in un’apparente innocenza”. Il grande lago pulisce anche i pensieri.
Ma a Puno, come in molte altre parti, la vita non deve essere facile: in pochi giorni assistiamo a sit-in di protesta dei venditori ambulanti, vediamo ubriachi e forse un morto per strada, i giornali parlano di contadini che bloccano le strade per la Bolivia per chiedere terra e salari, gli Uros che capitano in città hanno un’aria spesso afflitta. E poi il sole forte e il grande freddo che non sai quasi come difenderti. Spacca la faccia, finisci uno stick di burro di cacao, ti metti la crema protezione 50 che usi al mare e nelle sere cerchi il conforto di un’acquavite locale.

E’ una città bianca, con una ridente baia che si affaccia sul lago

Le isole di paglia

Nella baia di Puno ci sono tante isolette galleggianti e artificiali, costruite spesso in sette giorni di lavoro con radici di giunco, canne di totora, fango e strati di paglia. Le stesse isole sono oggetto di continui restauri per l’impudrimento del suolo. Ma chi ci vive sulle acque a 4000 metri?
Qui abitano gli ultimi Uros, un popolo che si inventò la vita sul lago per fuggire dagli spagnoli ai tempi della conquista. In realtà dentro le povere capanne, in un clima umido e freddo, sulle agili canoe che nei casi più rifiniti ricordano piccole e orgogliose prue vikinghe, attaccati alle bottiglie di alcool, a chiedere una manciata di soles per le foto di rito o per il permesso di sbarco, sono rimasti gli Aymara, che sfruttano il mito degli Uros, ormai estinti o inghiottiti dalle periferie di Lima.

ci sono tante isolette galleggianti e artificiali

La vita sul Titicaca

Diciamolo subito: le isole sono molto pittoresche ma altrettanto finte. Coi turisti che discreti sbarcano qui per un giretto in canoa e mezz’ora di scatti fotografici la comunità ottiene proventi maggiori che dalle sue attività di pesca o vendita di souvenir, quindi la piccola tassa la concediamo volentieri, due, tre volte, per vedere due, tre isole. Veniamo a contatto con gente semplice, il Titicaca gli basta, i loro bambini giocano con gli aquiloni e le barche, la saggezza è tutte nelle nonne che macinano il cereale locale, la quinoa, e consegnano la merendina ai piccoli, uno per uno, in fila. Gli adulti vanno a pesca, allevano galline, maiali, papere, sopportano a fatica i reumatismi, le bronchiti e la malinconia, sono quelli che meglio conoscono la durezza di un esilio nel lago: ma altrimenti, dove vivrebbero?

La vita sul Titicaca
le isole sono molto pittoresche ma altrettanto finte

Rifare il suolo di paglia, accettare una foto in posa, vendere un manufatto, e così a Puno, il sabato sera, potranno comprare carne e coperte o stordirsi per dimenticare il freddo e la miseria.

accettare una foto in posa, vendere un manufatto

La nonna di Sillustani

Sillustani è uno stupendo promontorio sul vicino lago Umayo. Il sito archeologico è poca cosa, ovvero i resti di torri funerarie, le chullpas di una necropoli aymara, ma i colori caldi del tramonto rendono il luogo carico di magia e mistero. Una luce tenue passa sul lago blu e insieme sui campi verdi, sulle montagne ocra, su uomini e lama in cammino, e lascia negli occhi un grande spettacolo della natura.
A Sillustani conosciamo una vecchia signora della Patagonia, un nome che solo a sentirlo mi evoca sempre qualcosa. Lei è piena di energie e porta i nipotini in un viaggio, “de formaciòn latino americana” dice. Sa di tango, Che e desaparecidos, sa del Cerro Torre, dei grandi ghiacciai e della fine del mondo dopo Ushuaia, ci racconta a modo suo di tanti miti dell’Argentina, da Gardel a Peròn a Maradona ovviamente. Ci lascia davvero una bella immagine vedere questa nonna in viaggio, lontana dalla sua trattoria di Bariloche, che inizia i ragazzi ai paesaggi e alle culture della maiuscola America.

i resti di torri funerarie, le chullpas

Belo Horizonte

Siamo ora in viaggio verso Taquile, l’isola più importante del Titicaca peruviano. Viaggio tra colori luminosi, il cielo e l’acqua blu, la paglia gialla, le sponde piene di colline verdi. Viaggio sul ponte- terrazza di una lenta barca, in compagnia di Karen, una bionda bellissima e di Claudia, una moretta simpatica, che in sole tre ore ci fanno innamorare dopo l’Argentina della nonna del loro Brasile, della sua solarità, della sua musica e della sua lingua. Sono ragazze aperte e positive, anche loro innamorate di tutto il continente sudamericano, e quando Karen canta a occhi chiusi, col sole in faccia, le canzoni di Caetano Veloso, mi sembra di stare in un film. Nasce un’intesa, gli sguardi dicono tutto, vicino all’acqua la sensualità è spontanea, ma lei va a sud, in Bolivia, non dormirà neppure a Taquile. Mi rimarrà un rimpianto grosso come il Titicaca e un indirizzo da sogno: Belo Horizonte. E la battuta viene facile: Karen che saliva la scalinata di Taquile davanti a me era un belo, muito belo horizonte…

Viaggio tra colori luminosi, il cielo e l’acqua blu, la paglia gialla

La frontiera di Taquile

L’arrivo sulla cima di Taquile è appunto segnato da una fatica biblica: 500 scalini stretti di pietra (gli inca come i maya delle piramidi messicane avevano e hanno i piedi piccoli!), fra gli orti, le terrazze, le rocce, i panorami sul Titicaca. Una sudata immane per via degli zaini e del sole a picco. Poi c’è un arco, si un arco d’entrata senza mura, sospeso nel cielo, e un responsabile di questa onirica frontiera degli altopiani segna i nostri nomi su un pesante registro e ci invita a seguire una signora che ci ospiterà in una povera ma accogliente capanna di fango secco, al prezzo politico di 10 soles.

un arco d’entrata senza mura, sospeso nel cielo

L’isola della Comunità

A Taquile le cose funzionano più o meno così. Una cooperativa di contadini, tessitori e pescatori (i mestieri devono essere per forza questi tre… qui non ci sono uffici, negozi, supermercati,), di bambini coi costumi bianchi, rossi e blu e di vecchi saggi che ora guardano solo il lago, controlla tutto, invita i turisti nelle sue “case” e taverne, fa conoscere agli stranieri l’anima dell’isola. La gente di Taquile ha costruito scuole da sola, sentieri, forni per il pane, e vive seguendo i principi filosofici inca: non essere pigri, non mentire, non rubare. Siamo venuti qui perché eravamo stati contenti di sapere che gli orgogliosi nativi dell’isola non accettano accordi con le agenzie turistiche di Puno e propongono una breve esperienza di “turismo comunale”, fatto in casa. Nella vicina Amantanì sbarcano tour operators da tutto il Perù!

L’isola della Comunità

Le stelle che si toccano

Le musiche, i cibi, i balli e soprattutto i sorrisi di Taquile non appartengono a nessuno, magari solo al grande Titicaca. La festa di San Santiago celebra con danze e racconti orali la storia, le tradizioni e i personaggi dell’isola. I vecchi guardano mentre tutti gli altri sono immersi nel folklore. Non notiamo una grande bravura artistica ma una incredibile passione. La musica è monotona, i passi di ballo improvvisati, sono però le facce a raccontare l’emozione e lo spirito della festa. I turisti scattano foto ai suonatori, alla chiesetta bianca, alle bancarelle coi prodotti artigianali, ai bambini che sanno dove portarti a vedere lo scorcio più bello del lago. Pochi però restano a dormire qui, a sentire l’eco degli ultimi flauti e tamburi, a fissare il cielo nero con le stelle che quasi si toccano.
Arriva l’alba col suo sapore di umido, con una tazza di latte e quinoa, ed è già il tempo di andare: adiòs a quest’isola senza rumori, paradiso del Titicaca, hasta luego alla sua comunità diversa, isolata, orgogliosa, indipendente, guardiana dei segreti e dei miti del lago.

guardiana dei segreti e dei miti del lago.

Un’altra dimensione

Da Taquile “i colori e gli orizzonti infiniti delle Ande trasportano la fantasia in un’altra dimensione, più vasta, più lucida, soprannaturale”. Questa frase sottolineata sulla magnifica guida Clup del Perù la rileggerò più volte durante il viaggio andino. Con la differenza di averla provata sulla mia pelle e nel mio cuore. Molti dicono – compresa la nonnina argentina – che il ricordo di queste acque sia uno di quelli che segnano di più del Perù. Io ci aggiungo anche Karen, ma non posso non essere d’accordo. Una frase spiritosa dei peruviani “Nosotros tenemos el Titi y los bolivianos la caca” indica chiaramente che ritengono di avere nei loro confini la sponda più bella, più azzurra e più storica del lago. E forse è così.

Un’altra dimensione

Il ricordo del “Che”

Lasciamo il Titicaca e mi rileggo una frase del diario del giovane Ernesto Guevara che con corriere scassate e un bel mucchio di sogni passò anche da queste parti e vide gente stanca, senza ideali: “…è una razza vinta. I loro sguardi sono miti, quasi timorosi e completamente indifferenti al mondo esterno. E’ un Perù che non è uscito dallo stato feudale della colonia, aspetta ancora il sangue di una vera rivoluzione emancipatrice”. Neanche noi vediamo la rabbia degli indios: sui combi, sulle barche, nei mercati, la popolazione del Titicaca ha un’aria rassegnata, sorrisi tristi, resta china sulle scodelle dei comedores e sparisce silenziosa sotto i pesanti maglioni.

La diligenza

Il treno Puno-Cuzco è uno spettacolo, un’altra diligenza, un lento fischio tra gli altopiani. Dai finestrini vediamo villaggi e lama, vette innevate, prati e torrenti, indios in cammino. Mi chiedo sempre da dove vengono e dove vanno, perché non si vede niente, per km, per ore e ore.
Dentro i vagoni c’è tutta quella confusione che cercavamo, che avevamo impressa nella mente dopo la lettura di tanti romanzi sudamericani: quante voci, colori, odori! Salgono di continuo venditori ambulanti di dolciumi e panini, suonatori malinconici, contadini in viaggio fra il grande lago e le grandi montagne. Tra i piedi o sulle spalle ti ritrovi un pollo, un fagotto, un bambino, in testa ogni tanto ti cade una pannocchia. A un certo punto una signora taglia a pezzi una pecora cotta alla brace la stessa mattina, sembra una scena primitiva! Qualcuno gioca, qualcuno si coccola, qualcuno dorme. Finchè…zac! Sorpresa, si rompe la locomotiva e restiamo fermi per ben 6 ore sul gelido altopiano e mentre un’alpaca curioso mi fissa io ripenso a Kit Carson che nelle storie con Tex Willer sbuffa sempre quando i pards devono scegliere un treno rispetto al cavallo…

mentre un’alpaca curioso mi fissa

Le emozioni finora descritte si dilatano, i passeggeri scendono e nel deserto d’alta quota si sente solo il vento. A terra conosco meglio Lily, una latina molto sexy, metà peruviana e metà croata, molto simpatica, una bella chiacchiera, un gran fisico, Durante il viaggio eravamo difronte e ci saremo guardati cento volte. Karen, Lily.. il Sudamerica comincia a esprimere anche questo lato interessante. Il treno riparte, arriva a Cuzco a tarda notte quando il vagone sembra ormai una stalla. L’ombelico del mondo appare come un magico presepe e del ritardo non mi importa niente perché è stato anch’esso viaggio, incontro, conoscenza.

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