La Transamericana sale in alto
La lunga via che collega Riobamba a Quito è l’ultima parte che mi tocca in sorte di vivere in questo indimenticabile viaggio andino. Parliamo ancora della mitica strada che segue le Americhe che stavolta attraversa altopiani, foreste, villaggi con una piazza e una chiesa, tocca quasi il cielo ed incanta con le vette innevate e i crateri spesso attivi dei vulcani Tungurahua, Chimborazo e Cotopaxi.

Il percorso è meglio se casuale, con soste nei mercati, puntate in Amazzonia, giri sulle montagne. Tanti dicono e scrivono che è qui il vero volto dell’Ecuador, in questo senso di infinito, puro e selvaggio, le stesse impressioni che hanno vissuto i fortunati arrivati nelle isole Galapagos in mezzo all’Oceano, anch’esse parte dell’Ecuador.
Un indio vale più di una cattedrale
Riobamba la chiamano con molta generosità “la sultana delle Ande”. Per le nove piazze che fanno da cornice ai variopinti mercati, per le case bianche e barocche e le numerose chiese che svelano il volto di una popolazione particolarmente devota. In verità ci è sembrata una cittadina abbastanza anonima, squadrata come nella miglior tradizione delle città fondate dai conquistadores spagnoli, e la sosta non avrebbe un gran senso se non fosse per l’eccezionale grigliata di carne argentina di cui ancora sento il profumo. Mentre rendevamo giustizia a una costata libidinosa ecco i nostri occhi attirati da uno striscione: “Un indio vale màs de una catedral”. Cosa sarà successo? Quale diritto sarà stato offeso?

Le sere di festa nelle taverne di Riobamba si divorano salsicce e maiali fritti col mais e le immancabili patate e pinte di aguardiente, l’acquavite locale: viene da pensare che lo stordimento delle bevute aiuti il corpo umano a sopportare il vento gelido che scende dai vulcani.


I giganti invisibili
Per ora i panorami sono così così, tanto verde, tanta natura, ma le cime dei vulcani restano coperte da banchi di nuvole e nebbia, che non capisci dove finiscano le nuvole e dove cominci la nebbia. Soprattutto il grande e severo cono del Chimborazo ha deciso di restare invisibile, come un dio scontroso che domina la montagna. Nelle vallate dalla corriera apprezziamo tante macchie di colore diverse tra loro: sono i ponchos rossi e viola degli indios, i manti delle pecore, i frutti sugli alberi, le facciate delle case lungo la strada. Davvero la foschia scende però all’improvviso e in alcuni villaggi senti solo i passi dei contadini. La sierra quassù sprofonda nei suoi silenzi, nella sua austerità, nel suo torpore.

Vinicio che fa la pizza
Il camion che ci porta a Guaranda ha montato sul cruscotto una specie di altare religioso. Gli indios scendono dove ci sono solo campi di pannocchie, monti color del muschio e torrenti. Un bambino beve acqua dal fiume, una donna si piega sotto tre sacchi di patate. Saluti, sorrisi, poche parole, sempre nel segno della timidezza. Ripenso come un controcanto alla solarità e alla vitalità dei campesinos cubani.
Maruja Torres nel suo “Amor America” descrive così insieme i paesaggi e le genti: “Il Chimborazo, innevato e ampio come la sottana di un’india”. Mi piace tanto questa frase!
Scambiamo delle chiacchiere con Vinicio, un ragazzo di grande valore, emigrato a Francoforte per fare il pizzaiolo e che ora ha aperto con la simpatica moglie un localino tutto suo a Guaranda. Vinicio ci parla del sogno italiano, vuole conoscere Napoli perché vuole imparare ancora meglio a fare la pizza. Poi a briglia sciolta ci parla di tante altre cose, del suo mese vissuto tra gli Shuar nelle profonde foreste, della violenza che viene dalla costa e che abbiamo percepito al porto e nei bassifondi di Guayaquil, dei curanderos che vivono sulle pendici dei vulcani, dei miti e delle feste andine.
Ancora la Torres: “…il loro sguardo, ammirato e pauroso, è volto verso i vulcani e le montagne, divinità magnifiche e terribili, forze magiche e telluriche…gli indios sono gesta lente e silenzi, sacerdoti di un culto dell’essenziale, vera morale dell’altitudine”. Vera morale dell’altitudine: quest’altra frase mi riassume in un attimo tutte le montagne finora scalate e vissute.

I fiori di Ambato
Con la coppia di pizzaioli ecuadoriani visitiamo Ambato, un centro moderno, un improvviso squarcio di vitalità, la sede del mercato più grande sulla via dei vulcani. Con la solita prosa delle guide di parte Ambato pare che sia famosa “per le belle donne e i fiori” ed è stata addirittura definita “uno stato d’animo”. Beh, i fiori visti nelle ceste, sui prati, sui banchi del mercato, sui balconi sono davvero belli, ma le ragazze e le vie di Ambato sinceramente sono piuttosto normali e quindi decidiamo che queste definizioni sono un po’ troppo per questa cittadina vivace e gentile.


Lacatunga non sarà poi così differente perciò concludiamo che oltre Cuenca le città dell’Ecuador valgono poco, specie se confrontate con quelle appena viste in Bolivia e in Perù.
Sguardo sul Chimborazo e sul Cotopaxi
I vulcani invece, alla fine si fanno vedere: il giorno del nostro arrivo ad Ambato il cielo limpido mostra la maestosa bellezza del Chimborazo e dietro Lacatunga ecco la vetta sempre bianca del Cotopaxi. Sfiorano i 6.000 metri di altezza e quasi per miracolo ospitano una flora esotica, sono vette gelate, dove osano solo i condor e le vigogne. Li vediamo dal basso, sulla via che fu battezzata in loro onore dall’esploratore tedesco Alexander von Humboldt, compiamo delle deviazioni come quella di tre giorni nell’Amazzonia ecuadoriana (vedi prossima puntata del diario andino) e quella alla bellissima laguna di Quilotoa che abbaglia col suo colore azzurro dal fondo di un immenso cratere.
A malincuore il poco tempo rimasto non ci permette di affrontare altre quote altissime dopo quelle dei deserti di sale, del Titicaca, della Cordillera Blanca, ci accontentiamo di guardarli con un sentimento misto di stupore e reverenza, ci immaginiamo le vite di chi sta lassù, quanti maglioni indossa, quante pecore alleva, quanti km gli servono per arrivare a scuola. Pensieri così, che nascono e che muoiono in un viaggio sulle montagne latinoamericane.

Non ci sono Commenti