“Nelson, com’è il tuo paese? Com’è l’America Latina?”
Da un incontro nella selva boliviana
“È dolce amico, violentemente dolce”
Le sensazioni del volo: come mi avvicino al Perù

Il lungo viaggio in aereo mi porterà nel cuore dell’America Latina e indigena a scoprire la magia di Machu Picchu, il freddo e il blu del Titicaca, i deserti di sale, la selva e le città coloniali della Bolivia, i vulcani e i mercati dell’Ecuador. L’ho scelto come il viaggio della vita, quello che gli americani dopo l’Università chiamano Year Break: il mio durerà “solo” due mesi ma già mi emoziona. Nello scalo ad Amsterdam vedo dagli oblò una città grigia e umida, tutta ordinata con le sue casette a schiera, i campi di tulipani e i canali dritti nella pianura sorvegliata dai mulini a vento. Per contrappasso mi immagino subito la confusione, la luce e il mondo alto e colorato che mi aspettano tra le Ande. Passato l’Atlantico ecco il Venezuela con l’immensa laguna di Maracaibo, una volta regno dei pirati e oggi del petrolio, quello che chiamiamo “oro nero” ma che per i soliti meccanismi di una insana distribuzione della ricchezza non riesce a aiutare un paese alla fame. Il lungo serpente d’acqua e fango dell’Orinoco penetra la foresta fitta fitta: è la mia prima vista dell’Amazzonia. E poi arrivano le nuvole sopra le Ande che sono uno spettacolo bellissimo, un mare d’ovatta, un fuoripista da sogno. Nel bianco immenso spunta qualche minacciosa vetta nera e poi altre, fino a quando tanti giganti cercano i raggi del sole. Siamo su Huaraz, nella Regione della Cordillera Blanca, dove è nato insieme alla Patagonia il mito dell’andinismo, delle scalate avventurose sulle grandi montagne sudamericane.
Il senso della famiglia per i latinoamericani

Atterro a Lima dopo 15 ore di viaggio, mi godo le scene degli incontri tra parenti. Il senso della famiglia latina è anche questo, i ritorni sono sentimentali, sono feste e abbracci, “quanto sei bella, quanto sei magra, quanto mi manchi…”. La famiglia, tante famiglie, si riuniscono in aeroporto dopo tanto tempo, magari dopo pezzi di vita vissuti in continenti diversi. Si vedono giovani vestiti alla moda occidentale e nonne con le gonne tipiche delle Ande, coppie di genitori con gli occhi lucidi e i fratellini ultimi nati. “Aquì estas!” e il ritorno significa unione, significa la riscoperta delle proprie origini che si proverà a rendere indimenticabile con cene e balli e magari alzando un nuovo piano di casa. Gli addii sono altrettanto intensi, la famiglia latina è una comunità che nessun Oceano separa, “porta con te la foto, il disco, il cibo tipico, chiamami tutte le volte che puoi”. Ora sono in Perù ma ricordo scene simili in Messico, a Cuba, questo è un continente basato sui legami familiari: possono mancare soldi, futuro, speranze ma mai gli affetti, mai quel rifugio caldo che si chiama famiglia.

La strada verso il centro città incrocia tanto traffico e polvere, edifici in rovina, periferie difficili, taverne di “pollo a la brasa”, camion stracarichi di uomini o cose, insegne al neon che si accendono e si spengono, bambini che giocano a pallone contro le serrande abbassate dei negozi, famiglie – eccole qua – schierate a mangiare per strada sotto un patio arrangiato. Nella hall del mio albergo in stile coloniale tanti giovani europei organizzano le tappe della loro vacanza, leggono o scrivono, c’è un’argentina che viaggia sola per il suo continente, c’è un bello spirito, un po’ romantico, un po’ naif. Decido qui di intitolare il mio diario di viaggio “Sguardi Andini”.
A piedi nella Lima cuadrada: la fede e la merce

Tutte le cronache storiche descrivono Lima come la vera capitale delle colonie spagnole: fondata da Pizarro nel 1535 divenne la città più bella e potente del Sudamerica, la sede della prima università, delle prime chiese, dei primi musei, del primo teatro e della prima stamperia del continente. L’itinerario di esordio è nel centro storico, a piedi, nella “Lima cuadrada”, dove piazze, palazzi nobiliari, mercati, chiese barocche si scoprono con estrema facilità per via della classica pianta a scacchiera. Come al solito si comincia dalla Plaza de Armas, il centro del potere politico, commerciale e spirituale di tutte le città latino-americane, una piazza dall’atmosfera spagnola, uno spazio sempre animato che nei secoli ha ospitato feste, processioni e corride, congiure come parate militari. Qui sorgono la cattedrale costruita sulla tomba del feroce Conquistador, il Palazzo Presidenziale onorato raramente dai suoi occupanti, il Municipio con opere di pittori andini e entro pochi isolati si visitano le principali chiese di Lima che sono la Merced con le sue venditrici di candele e santini, fiori e immagini della Madonna; la facciata gialla di San Francisco circondata dalla masse di ambulanti che piovono in centro a sbarcare il lunario; il convento coloniale di Santo Domingo, forse il tesoro più bello. Tutte e tre a testimonianza della religiosità ossessiva della città e probabilmente a parziale consolazione e rifugio dai suoi mille problemi moderni.

Sempre tra queste strade si ammirano le case antiche dai balconi lignei, appartenute a capitani di ventura e a potenti famiglie meticce. E poi i mercati, una miriade di mercati, un trionfo di economia informale, di acquisti al nero e in parecchi casi di baratti! I vestiti o i dolci o le verdure vengono vendute in piazza, gli strilloni li portano in giro su stampelle e vassoi, a ogni angolo si incontra qualcuno che ti offre per una manciata di soles sigarette sciolte o frittelle unte, nastri per capelli o musicassette false, fotocopie fatte con macchinette volanti, pile di pentole o gabbie di canarini, maglioni colorati e tutti quei ciondoli e tappeti e stoffe e borse che anticipano i mercati delle montagne.
Per le strade del centro va in scena anche il mercato del lavoro e osservi che si offrono a giornata, a ore, a pasto, muratori e idraulici, giardinieri e domestiche. In più vagano bande di bambini coperti di stracci e destinati a una vita difficile, di piccoli scippi o nel migliore dei casi da lustrascarpe. Tutte queste facce povere, furbe o tristi che gravitano intorno a Avenida Abancay e Jiròn de la Union, tutti questi odori, colori, rumori, sono l’essenza di Lima, il suo specchio, la sua anima.
Le Ande in divisa

Altri “protagonisti” della Lima storica sono i poliziotti o le guardie private che controllano le vetrine più ricche, le banche e i palazzi del governo. Sono tutti giovani, credo delle periferie o delle province più povere, della costa nord impoverita dal Ninho, delle montagne del Sud. E le divise sono il loro riscatto. Hanno manganelli e pistoloni ma anche un’aria goffa e distratta, non devono essere dei grandi tutori dell’ordine se i furti sono migliaia e se ogni tanto i gruppi terroristici fuoriusciti da Sendero Luminoso invadono ancora le ambasciate o compiono dei sequestri. Però il peruviano li vede e si sente più tranquillo. Per tutto il resto del viaggio andino noterò questo amore e questo culto per la divisa, per ogni divisa: quella ufficiale e pomposa di un poliziotto o di un soldato a Lima come a La Paz, quella allegra di un musicante a Copacabana sulle sponde boliviane del Titicaca, quella umile di un minatore nelle miniere del Potosì, quella colorata di una etnia a Cuzco o nelle belle città di Cuenca e Ambato in Ecuador. Di certo le prime divise, a seconda dei periodi storici e dei governi, sono state quelle che hanno ispirato più rispetto ma anche più paura, le altre divise parlano di identità, di lavoro, di festa.
I tesori del Perù nascosti sotto la garua
Protagonisti reali della città sono invece i suoi musei: in quello di Archeologia e Antropologia c’è una vasta collezione di ceramiche di tutte le civiltà peruviane, ti colpiscono i vasi-ritratto dei Moche, i crani bucati e deformati ritrovati nelle sabbie di Paracas, la raffinata tessitura dei Nazca; al Museo Larco Herrera oltre a un gigantesco deposito di vasi degno del finale de “I predatori dell’arca perduta” il pezzo forte è la collezione di ceramica erotica, naturale e sfacciata, con cui scopri che i Moche se la godevano (e ancora più divertente è osservare i sorrisi timidi degli sposini in visita); fino al trionfo luccicante del Museo de Oro, pieno di gioielli inca e pugnali sacrificali, quel tumi che una volta perforava il cuore dei nemici, apriva le viscere dei lama e brillava nelle mani dell’imperatore. E il capolavoro del corredo funebre del Signore di Sipàn, favolosi diademi, bracciali, orecchini, scettri, tessuti e oggetti quotidiani emersi dalle sabbie del nord, in mostra temporanea nella capitale e lì destinati a tornare, nell’arida cittadina di Lambayeque. Dopo aver fatto il pieno di tesori mi chiedo: ma i peruviani sono coscienti fino in fondo delle loro ricchezze e del loro glorioso passato? Possibile che da tanto oro si sia sprofondati in tanta miseria? Mentre ci penso gustando un picante de mariscos mi accorgo che il cielo di Lima ha un non-colore, la sera in albergo il portiere Carlos mi spiega che almeno per otto mesi l’anno le nuvole che arrivano dal Pacifico sono incapaci di scavalcare le Ande e ristagnano sopra la metropoli creando il cosiddetto fenomeno della garua, una nebbiolina umida, grigia, persistente, che nasconde il sole e procura una certa malinconia. Mi dice che a Lima non piove quasi mai e mi racconta addirittura che parecchie vecchie macchine non hanno neppure i tergicristalli e che molte case sono prive di grondaie e che nei mercati di rado si vendono ombrelli. A Lima forse anche i tesori sono nascosti dalla garua, l’aria tersa me la regalerà la Valle del Cuzco.

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