Panamericana Nord
Con tutte le bellezze del Perù vissute finora assolutamente in testa affrontiamo il viaggio per Trujillo. Panamericana Nord, sette ore tra deserti e oceano, le regioni devastate dall’ultimo uragano Nino, il cielo che raggiunge tutte le tonalità dall’azzurro al grigio, le mani unte di pollo comprato nei chioschi lungo la strada, il solito fenomenale bus, un teatro di vita che comprende nel prezzo del biglietto musica salsa e quadri di madonne.
Entriamo nella regione di Libertad, caratterizzata da una lunga, larga e arida fascia costiera, da spiagge dove i ragazzi locali praticano il surf sognando di essere, almeno i giorni baciati dalle onde più lunghe, in California o alle Hawaii. Visitiamo città coloniali spagnole, città morte d’argilla, in un’alternanza di facciate colorate e porti industriali, misteri, rovine e tesori del tempo prima degli Inca.
Nel Nord vuoto e malinconico chiudiamo anche il cerchio delle culture peruviane.

Basta una tavola
Al tramonto arriviamo a Huanchaco, un paese di pescatori che affrontano il gelido Pacifico sulle loro lance di paglia, chiamate caballitos de totora. Un grande villaggio che è diventato a sorpresa una meta per parecchi surfisti occidentali, un posto che pero l’inverno sudamericano rende piuttosto desolato. Nonostante la garua, la nebbiolina di Lima sembri arrivare fino a qui alcuni intrepidi ragazzi coi bermuda a fiori si affidano alle loro tavole e ai loro codici presi in prestito da “Point Break” e da “Un mercoledì da leoni” per affrontare il mare e per conquistare le amiche che li guardano dai bar schierati lungo la litoranea.


Guardiamo a lungo il mare, anche per dimenticare le ore sulla strada, mangiamo ottimo pesce, il rumore delle onde in una pensioncina apparecchiata sulla spiaggia concilia il sonno.
Alcune ragazze ci parlano la mattina dopo di Playa Chicama che sulle guide è descritta così: “Il nome Chicama semplicemente possiede un tocco magico. Come una forma latina di Nirvana, è il nome di un’onda di illusione, per fare il surf. E’ possibile che Chicama sia l’onda più lunga del mondo”. La curiosità è tanta, vogliamo confrontarla con le maestose onde di Nazarè viste dal vivo in Portogallo o con le famose onde che da sempre si rovesciano sulle coste delle Hawaii o dell’Australia.
L’oceano lo becchiamo in una giornata cupa, le onde più che alte sono appunto lunghe e lente, ma non capitiamo in una giornata da record.
Chan Chan che muore
Scegliamo di proseguire per Chan Chan, una magica e malinconica Pompei del deserto peruviano, una città morta, di sabbia e di fango, la capitale dell’antico impero dei Chimu.
Qua capisci più che altrove la fragilità e la caducità delle cose perché Chan Chan si screpola al solo contatto delle mani, è il simbolo dei tempi finiti che lasciano storie, mura, sospiri e ricordi. Davvero mi viene in mente la splendida “Baci da Pompei” di Francesco De Gregori.

Chan Chan dà l’idea di restare in piedi fino a quando il vento, il sole, l’oceano, o il prossimo uragano lo permetteranno, di sicuro è sorvegliata, accudita e salvata, giorno dopo giorno, da una squadra di pazienti archeologi e restauratori che letteralmente passano molte ore delle giornate a innaffiare i vecchi mattoni d’argilla per compattarla e farla resistere alle intemperie della natura.
Come quando un bambino si impegna tanto per rafforzare un castello di sabbia.

Quello che si vede è incredibile: un piccolo mondo d’argilla, resti dei palazzi Chimu, della corte, dei templi, delle vie, dei bassorilievi con pesci e uccelli oppure adornati di decorazioni geometriche.
Tutto l’eco di un regno perduto.
Tutto fatto in adobes (impasto di argilla, sabbia e paglia utilizzato per costruire mattoni) che a Chan Chan erano usati per tirare su magazzini e tribunali, fortezze, tombe e mercati.
La civiltà Chimu (1000-1470 d.C) finì per la rivalità con gli Incas che diabolicamente ostruirono le sorgenti d’acqua che tenevano in vita quel regno delle sabbie.
Macchie di colore a Trujillo
Mezza giornata dura invece la visita del principale centro di Libertad, tipica eredità dei tempi spagnoli, cuadras (le classiche piante urbanistiche a scacchiera) colorate e animate, e poi quel colore nel colore che di Trujillo è la cosa che ti porti più via. Ovvero il rosso scarlatto , il blu brillante, il giallo acceso delle facciate delle chiese e delle case, abbellite dall’eleganza di certe finestre in ferro battuto e da pesanti portoni in legno e stucco.
L’aspetto evitabile di Trujillo è invece il suo caotico e terribile traffico, rumoroso come quello di Lima.
Poco distanti riusciamo a vedere anche le Huacas del Sole e della Luna, le piramidi di adobes della cultura Moche, la prima centro politico e luogo di sepoltura dei sovrani, la seconda tempio dei sacrifici e delle cerimonie religiose, famosa per le sue pitture murali di mostri, maschere, dèi, animali ed armi.

Le ceramiche che raccontano i Moche
Al lato della Panamericana il Cerro Blanco, insieme ai tesori di Sipàn e al ricco museo di Lambayeque racconta appunto l’età dei Moche (100-800 d.C), grande regno dei deserti andini dove però l’aria fredda della corrente di Humboldt permise di vivere a lungo di agricoltura e di pesca.
Il loro sistema politico era basato su una rigida scala gerarchica e un grande potere spettava ai governatori come il Signore di Sipàn che muovevano guerre di conquista, ergevano templi e avevano a corte dei raffinati artigiani.
I tesori e le rovine dei Moche raccontano di una lunga epoca di splendore, di una civiltà evoluta, fedele a una divinità felinica, caparbia nel costruire notevoli opere idrauliche quali acquedotti e canali di irrigazione, molto abile nell’arte delle ceramiche, che costituì il suo vero racconto visivo. Dei Moche colpisce molto il realismo dei vasi-ritratto, delle scene di caccia, pesca e lavoro nei campi, delle cerimonie, per non parlare delle famose statuine erotiche che a inizio viaggio facevano arrossire gli studenti e gli innamorati nei musei di Lima.
La fine dei Moche fu causata da terremoti, siccità, tempeste di sabbia che ricoprirono tutto. Gli Incas con le loro armi, la loro lingua, i loro culti e le loro leggi fecero il resto.
Visto da lontano il Cerro Blanco presenta degli evidenti buchi nelle sue alte pareti, altro simbolo, stavolta inglorioso, del suo tramonto: sono quelli scavati nottetempo da bande di giovani tombaroli che come a Nazca rivendono i reperti al mercato nero. Il deserto così sta diventando una groviera, per mangiare gli huaqueros “quelli che fanno i buchi” cercano le statuine nella sabbia.


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