Paesaggi estremi
L’altopiano della Bolivia del sud è una regione isolata e arida, fredda e magica, di vento e silenzi, di città coloniali, vecchie miniere e deserti salati. Le strade e le ferrovie sono costrette a seguire i capricci di un’orografia impietosa. Gli uomini sono umili e timidi e a volte gli incontri perfino rari. Prosegue così il mio lungo viaggio spiritual-andino nel Tibet d’America.

Frasi della Torres in “Amor America” che colgono benissimo queste atmosfere: “Se dovessi pensare alle sensazioni, a quel bisogno di risentire odori, suoni, silenzi, è la Bolivia il luogo che mi ha affascinato maggiormente… Quel cielo notturno di cristallo nero, con le stelle che ti cascano in testa, la puna, l’altopiano desertico, e le città coloniali a 4.000 metri. Niente è più estremo della Bolivia, a parte forse la Patagonia” – e ancora – “il paesaggio divenne infinito…, guardai, continuai a guardare, difficilmente sarei ripassata di lì nel caso l’avessi fatto, né il cielo, né la notte, né io saremmo stati gli stessi. Credo di non essere mai stata così vicina a un sentimento reverenziale”. Molto bello.

Pensieri verso Sucre
Di notte una grande luna bianca illumina con la sua luce fredda e pallida un paesaggio che le assomiglia, che è altrettanto lunare. Per chilometri e chilometri in Bolivia non c’è assolutamente nulla, nessuna casa, nessun albero, nessun segno di vita umana. Il paesaggio è infinito e malinconico, sullo scomodo sedile del bus non riesco a dormire, mi perdo in alcuni pensieri sparsi. Eccoli.
Questo in Perù e Bolivia è un viaggio in un mondo alto e puro.
Alto come le montagne, come i sentieri andini dove osano avventurarsi solo indios e lama, come il volo del condor, alto per il limite geografico e fisico a cui noi europei non siamo abituati, alto per il nostro respiro. E puro come l’acqua e il cielo del Titicaca, come le sorgenti del Camino Real, come la musica dei flauta de pan, come l’ingenuo folklore boliviano, come le stelle.
Ho radici senz’altro europee ma non le sento più salde come una volta. Con le letture, le musiche e soprattutto i viaggi e gli incontri di questi ultimi anni mi sento sempre più latinoamericano.
E’ una questione di anima e di sentimenti. Mi sento molto più vicino alla solarità delle ragazze incontrate qui che alla vita classica di un impiegato italiano, mi sento più vicino al vagare del clarinettista nicaraguense che alle regole e alle sicurezze sociali del nostro modello di sviluppo. L’Europa come emozione, cultura, viaggio, per me è soprattutto al sud, intorno al Mediterraneo. Per il resto queste cose si trovano più in Sudamerica, l’America Latina, al netto di tutti i suoi problemi, “es algo màs allà”.
Sucre coloniale e spagnola

L’accesso a Sucre dopo questa notte di pensieri e di luna è da quarto mondo: strade in costruzione, nuvole di polvere, baracche, bambini sporchi. Poi la città più arrivi nel suo cuore più si svela e incontri le sue forme di vita borghese, coloniale, quasi elegante. A Sucre c’è l’impronta di un’antica nobiltà e l’attrazione che emana è dovuta proprio alla sua decadenza, alla nostalgia delle dimore coloniali, dei palazzotti dei signori di una volta, delle chiese spagnole tutte mantenute di colore bianco dal municipio cittadino. Gli abitanti hanno lo stesso obbligo nei confronti delle loro case e così Sucre appare sempre piena di luce, molto bella e molto vanitosa. Con chiostri nascosti, piazzette curate e ombreggiate, mercati colorati, vie in selciato, lampioni romantici.
Un incrocio tra Cuzco e una città andalusa.
Sucre ha ritmi blandi e provinciali ma anche una vivace vita culturale grazie alla storica università frequentata da tanti giovani della classe media, grazie ai suoi teatri, alle mostre, alle sale da concerto. Si presenta insomma come il luogo raffinato della Bolivia, come la sua capitale morale. Un po’ mi ricorda l’Arequipa conosciuta in Perù e anche la portoghese Coimbra, uno di quei posti dove la vita passa tranquilla, dove si studia e si pratica l’arte, dove i problemi sociali sono sopportabili, non ferite. L’itinerario base passa per la Plaza 25 Mayo, il Tempio di Francisco con la campana che per prima annunciò la Rivoluzione, il Museo del Folklore e la collina panoramica della Recoleta.
La cosa bella è comunque perdersi nei chiostri dei conventi, aprire i portoni dei palazzi eleganti, seguire i vicoli bianchi e ciondolare per il centro storico fino a che si può salire su una terrazza di un caffè o di un ristorantino o in cima a un campanile per ammirare la poesia dei tetti e delle piazze.


Nella pancia di Potosì
La prima cosa che guardi a Potosì sono le mani della gente. Perché, possibilmente, ogni vecchio o bambino, almeno una volta nella vita, ha scavato nel cuore della montagna. Con attrezzi, dinamite, a mani nude, per strappare dalle viscere del Cerro Rico, i minerali che possono cambiare un destino altrimenti difficile: l’argento, il rame, lo stagno, il piombo, lo zinco o anche una carrellata di scarti che va bene lo stesso. Sulle mani il popolo di Potosì porta assai visibili i segni di questa fatica: calli, ferite, screpolature, cerotti, lividi. Mani umili, tozze, nere, mani di minatori che ormai chiedono riposo.
Il secondo pensiero a Potosì ti viene appena alzi lo sguardo ed è rivolto alla montagna che con la sua forma conica e liscia incombe severa sulla città, come il vulcano di Stromboli sul suo abitato.
Montagna sacra e maledetta, montagna che si è mangiata tante vite, luogo dei sogni o pozzo dei sogni cattivi, simbolo perenne di sfortuna o ventura, di gloria, speranza, rovina e paura, a seconda di quelli che ha reso ricchi e felici e di quelli che invece si è inghiottita per sempre.
Il Cerro Rico è impressionante, è grande, è l’aureola di una splendida città del 1600, il ricordo di una favola. Ed è anche un Mostro, un passato di tenebre e di sfruttati. Dipende sempre dalla storia, dai punti di vista, da chi ha vinto e da chi ha perso.
La decadenza moderna
Si diceva una volta: “Vale un Potosì” (Cervantes, Don Chisciotte) oppure “Io sono la ricca Potosì, il tesoro del mondo, la regina delle montagne e il desiderio dei re” (Carlo V). E invece l’aria che si respira oggi ai piedi del Cerro Rico è quella della gloria perduta e della decadenza.
Sì, “a Potosì nulla è più triste dell’essere esistiti e non esistere più, dell’avere orgoglio e non poterlo mostrare a nessuno…” (ancora Maruja Torres, in “Amor America”).
Perciò la visita della Casa de la Moneda (la zecca spagnola coi suoi laminatoi, le collezioni d’argento, i tesori di re e di vescovi, le carrozze, i quadri, i minerali preziosi, i bottini della Conquista: una sorta di Escorial madrileno in terra boliviana), del convento di Santa Teresa, delle case coloniali coi balconcini in ferro e coi muri screpolati, delle penas da dove escono musiche malinconiche e effluvi di mate per dimenticare, si svolge sotto il segno del sogno finito e all’ombra della ricca e terribile montagna che sorveglia il paese ormai stanco e svuotato.

Lo splendore del passato
Ma cosa successe a Potosì? Quale fu la sua epopea e il suo declino? Quanti furono i suoi tesori e i suoi morti? Che umanità ha creato la montagna minerale?
Sotto il Cerro Rico si visse appunto l’epopea delle miniere. Eduardo Galeano ricorda nel libro “Le vene aperte dell’America Latina” che gli spagnoli estrassero da queste fredde montagne tanto argento da poterci costruire un ponte fra i due continenti!! E i boliviani lo ricordano sempre, con orgoglio, che il mondo deve sapere che senza il loro argento la storia sarebbe stata diversa e l’Europa non si sarebbe arricchita.
La scoperta delle favolose ricchezze avvenne per caso: un indio che stava cercando i suoi bovini capitò in una caverna, notò un luccichio, decise di scavare con un socio, litigò con lui e la notizia finì nelle pericolose orecchie di un capitano di ventura spagnolo, tale Villarroel. Era il 12 aprile del 1545, fra quelle altitudini deserte e ghiacciate cominciò il mito dell’argento e l’eccitazione e l’avidità degli europei pose fine al sonno millenario della montagna e delle tradizioni indigene.
Si sparse la voce in un battibaleno, tutti partirono verso la Regiòn de la Plata, verso i sogni di cotanta ricchezza: hidalgos e pirati, puttane e missionari, amministratori del re e negri strappati dalle coste africane, commercianti e falsari. In 30 anni Potosì la piccola, la fredda e quasi nascosta cittadella andina, diventò una delle città più popolate del mondo (160.000 abitanti), la Babilonia d’America destinata a scatenare lussi e vizi, appetiti, faide, imbrogli. C’era tanto argento che ci si ferravano i cavalli, venivano gettate le stoviglie alla fine delle feste, ci si lastricavano le strade per le processioni!

Una città piena come un uovo
Ho letto su alcune riviste e su alcuni libri che nella bella Potosì in questa epoca fulgida e vorace arrivava di tutto, i pizzi di seta francesi, gli arazzi, gli specchi e i mobili delle Fiandre, lenzuola di lino olandesi, spade tedesche, quadri religiosi di Roma, eleganti abiti italiani, vetri di Murano, cappelli da Londra, avorio dall’India, diamanti di Ceylon, profumi d’Arabia, tappeti turchi e persiani, porcellane cinesi, stoffe di alpaca delle Ande, perle dei mari del sud. Si poteva comprare ogni cosa: anche l’odio degli uomini e l’amore di dio. Ho letto anche che su quest’altopiano colto da improvvisa fortuna si rischiava tutto, la sorte, la virtù, l’anima, la vita. Per le frivolezze, per i gioielli, per le miniere, per le dame, ogni notte c’erano duelli, incendi, crimini, ci si tagliava la gola e ci si sventrava o colpiva alle spalle!
Potosì come un teatro permanente, coi suoi drammi e le sue passioni, con le sue storie avventurose. Potosì come un romanzo picaresco illuminato d’argento, che andava a rivestire o ad arricchire le case da gioco e le armerie, i bordelli come le missioni, i palazzi dei conquistadores e quelli della borghesia, le tasche dei nobili e dei banditi, delle signore benestanti e dei teatranti. In 200 anni 45.000 tonnellate d’argento furono caricate sui muli e sui lama, attraversarono le impervie Ande, si imbarcarono al Callao (il porto di Lima) per il Messico e da lì poi arrivavano alla splendida corte di Siviglia che ci pagò gli stipendi dell’Invincibile Armata, le regie tipo l’Escorial, le guerre politiche e religiose.
Il sacrificio
Altra cifra impressionante: 8 milioni di indios morirono nelle “gole dell’inferno”! Tutti Figli del Sole appena battezzati e subito martiri per la Corona di Spagna. Questa fu la realtà: le ricchezze di Potosì erano da leggenda ma per tirarle fuori dalle viscere della terra scomparirono intere generazioni. Fino a quando, nel corso dell’800, i filoni si esaurirono e la città morì pian piano, rimase come un villaggio del Far West finita la corsa all’oro. Poi nel ‘900, un’altra scoperta, l’apparente salvezza: il Cerro Rico può rifornire di stagno le fabbriche e gli eserciti europei e allora gli indios vanno di nuovo sotto terra.
Negli ultimi tempi la crisi di prezzi dello stagno ha peggiorato nuovamente le cose ma quando il Tìo, l’idolo-diavolo del sottosuolo, fa brillare un po’ d’argento, schiere di indios dimenticano la fatica, i rischi, la fame, lo sfruttamento di secoli e con macchinari obsoleti, turni massacranti, ore al buio, con le sole mani, con la speranza più forte della disperazione e del ricordo degli antenati morti, cercano ancora di arrivare al cuore caldo di metallo del Cerro.

E’ possibile effettuare una visita alle miniere meno profonde, è possibile varcare la soglia dell’inferno per un paio d’ore. Di sicuro crea imbarazzo compiere una gita turistica in un luogo di durissima fatica, sofferenza ed oscurità; tant’è, visitiamo il Cerro Rico con la consolazione che i nostri 25 soles aiuteranno qualche famiglia di minatori.
Dal viaggio sopra le nuvole di Coroico a quello sottoterra di Potosì, anche in questo la Bolivia è estrema.

Viaggio agli inferi
La prima tappa è al Mercado Calvario al Barrio Minero de la Concepciòn dove le strade sono piene di ferramenta e le facce dei boliviani più cupe del solito.
Ci vestiamo con caschi, tuta gialla e stivali, compriamo un candelotto di dinamite e foglie di coca per fare una foto ai minatori (questi sono i regali che chiedono…).
All’entrata del Mostro vediamo picconi, vecchie lanterne, trivelle arrugginite, carriole, sacchetti di coca messi in fila, bottiglie di alcol senza etichetta, guanti lacerati: tutto il corredo dei dannati. Non c’è un posto medico, non c’è un chiosco di panini e bevande, solo miseria, freddo e 250 buchi nel monte.
La nostra guida, Roberta, piccola e curva, adatta a scivolare nelle strette gallerie, ci racconta (era meglio di no…) che il minatore medio non arriva a 50 anni di vita, si unisce agli altri in cooperative, rimane là sotto anche 36 ore di seguito, si riposa in squallide baracche costruite fuori il Cerro dal governo. Ci dice che tanti schiattano per gli sforzi, per quello che negli anni su anni su anni buttano dentro i polmoni, per i crolli causati dalla dinamite, dall’alcolismo, dalla denutrizione, dalle differenze climatiche (polvere e 40 gradi dentro, il vento gelido dei 5.000 metri là fuori), per i turni senza fine imposti dalle multinazionali, gli effluvi velenosi, le malattie impietose, i guasti ai macchinari.
Pochi sorridono o si sentono felici, l’obiettivo è mangiare e dare di che vivere alla propria famiglia, non è certo la felicità.

E’ sempre buona notte
Appena dentro Roberta ci presenta i “perforatori”, i minatori più giovani, gli assistenti che preparano la roccia ai capi, ai più esperti. Accendono la dinamite e dopo il tonfo sordo con un amaro sorriso esclamano: “Musica!”. Mi fanno una pena infinita.
In una caverna dal nome evocativo e drammatico, “Grido di pietra”, ce ne sono altri due che quando parlano nemmeno li capisco. E’ per via delle grosse palle di coca che, come dei forzati, masticano in continuazione per non sentire freddo, fatica e fame, in quello che sembra un implacabile annullamento della volontà. Altri minatori ci passano accanto senza parlare, altri li sentiamo, li percepiamo, transitare nelle caverne buie.
Due sono le cose che impressionano, la rapidità e la leggerezza di corsa di questi uomini nei cunicoli, anche a pieno carico, con le carriole o gli zaini da 50 kg carichi di minerali. E poi il colpo di piccone che si sente già da gallerie lontane, quel tonfo sordo e ripetitivo, simbolo di una vita lì in fondo, sempre uguale, senza aria, con cibo pessimo. Il tic tic nel cuore del Cerro Rico mi accompagnerà per molto tempo e così la frase di saluto dei minatori: loro dicono sempre “Buenas Noches”, tanto il cielo non lo vedono e le ore non le seguono.

Il Tìo
Tunnel dopo tunnel, giù in basso, scorgiamo la statuina del Tio, el diablo de la montagna, l’idolo del Cerro Rico, parte della vita sotterranea e simbolo delle paure inconsce dei piccoli uomini ingobbiti. Ha gli occhi di biglie per vedere meglio i minerali, ha intorno candele, sigarette, liquori e dolcetti perché nella superstizione dei dannati sono doni che portano bene, che fanno scoprire una vena preziosa e magari uscire vivi dai pozzi. Prima di lasciare il buio abbiamo l’onore di conoscere Don Felix, 66 anni (una rarità…), ancora forte, ancora al lavoro, la leggenda dei minatori di Potosì. Il suo segreto è dormire molto nelle pause e mangiare chili di carne magra e verdure.
Le donne fuori

Il sole e il vento ci fanno bene, il mio compagno di viaggio Alessandro era al limite, ma la nostra conoscenza del dolore di Potosì non è ancora finita. Roberta ci spiega che le tracce di sangue sulle pietre sono quelle dei lama sacrificati dai curanderos, dell’animale vengono sotterrati testa, cuore e viscere come rito propiziatorio, mentre le ossa vengono bruciate in onore di Pachamama, la Madreterra. Però l’immagine più malinconica del Cerro Rico è forse quella delle donne che si guadagnano la vita facendo la guardia notturna, con le coperte addosso e della schifosa acquavite che ottunde i sensi accanto, agli attrezzi dei loro compagni minatori. Si chiamano le paillaviri, non possono entrare nelle caverne per la superstizione degli uomini, dicono che portano male, che la Pachamama se le vede fa sparire i minerali, e allora restano ai margini dell’inferno, si riparano dal gelo tra muretti di pietra e rifugi di fortuna e danno una mano in altri modi. Frugano nei fianchi del gigante, grattano la terra, rompono le pietre col martello, cercano fra gli scarti dei minerali estratti qualche scheggia di metallo da rivendere, preparano le pallette di coca, caricano i camion a palate, scaldano le zuppe e aspettano. Aspettano. Aspettano.
A Potosì anche i bambini aiutano i minatori: gli portano le arance dal mercato, gli attrezzi nuovi o puliti, aprono e chiudono le porte dei pulmini che salgono fino al Cerro. Donne e bimbi abituati a soffrire, a conoscere da sempre il destino della montagna, l’illusione dei minerali, con le loro facce piene di dignità.
Il saluto
Scendiamo dal Mostro e per molti metri e per molte ore ci accompagnano le visioni drammatiche avute, la polvere, gli sguardi indecifrabili e già sconfitti, i colpi di tosse, le lamentose cantilene in dialetto quechua. Scambio appena due parole con una madre stanca: “Lo faccio per i miei figli, perché possano studiare, dopo di me nessuno si sacrificherà più sul Cerro. Es un mundo muy sufrido”. Avverto una macchia umida sotto l’occhio: forse è il freddo o forse è l‘unica lacrima che solca il mio viso in questo viaggio andino.

La vanità perduta di Potosì
Dopo una bella doccia la sera camminiamo per Potosì.
Fra i vicoli gelidi, insieme a studenti e artisti, passeggiano delle attempate signore. Bei vestiti e gioielli, pettinature da donne dell’800, sono la più sconsolante visione della gloria perduta, di quel passato di teatri, sale da thè, casinò, ristoranti di lusso e tesori d’argento ormai sepolti. Le signore però non rinunciano ad esibire tale vanità, sono eredi di generazioni che hanno trovato o perduto tutto nella pancia del Cerro.
La notte dei minatori
Potosì di notte è molto viva, i giovani riempiono i locali. Fra loro, silenziosi, a testa bassa, quasi in disparte, coperti da casacche rimediate o sporche e da zuccotti di lana col paraorecchie, i minatori si riconoscono subito. Non hanno sorrisi e voci allegre come gli altri, non riescono a guardare le donne vincenti come gli altri, vanno nell’osteria dove sanno che potranno bere in pace senza essere scherniti, o, peggio, senza essere guardati con pietà.
La notte di Potosì, oltre i 4.000 metri, è, per questo, ancora più fredda.
Argento e Miseria
La mattina della partenza visitiamo una mostra di bellissime foto in bianco e nero dedicate a volti di minatori, a sassi e picconi, alle suggestive ombre della montagna, all’entrata delle miniere, agli interni delle baracche, alle mani rovinate e alle guance gonfie di poltiglia di foglie di coca.
Così lasciamo Potosì, argento e miseria, destino di ricchezza che ormai si è rivoltato contro una città piena di dolore, piccole vanità e grandi nostalgie.

Sul bus che ci porta al Salar de Uyuni rileggo alcune pagine della mia guida letteraria boliviana, Maruja Torres: “… i suoi antenati se li era inghiottiti il Cerro Rico. Masse di indigeni hanno alimentato le viscere della montagna che riempì di ricchezze i conquistadores e tramutò la città nella perla della Corona Spagnola… Anche Josè aveva scavato la terra…, gli si sono induriti i palmi delle mani e rattrappite le dita, di modo che quando accarezza una donna è come se la graffiasse con un arnese di ferro. A Potosì conta le stelle e aspetta… L’America violentata è piena di ragazzi come questo…, Josè che parla quechua e conosce i segreti degli uccelli e guarda passare la vita”.
Bolivia povera e dimenticata, paese per perdenti.
L’augurio
Fa forse per questo tenerezza quella qualifica data dall’Unesco: “Potosì, patrimonio naturale e culturale dell’Umanità”. Ciao Potosì, al tuo pianto d’argento. Che un giorno il pianto finisca e sotto il Cerro Rico cresca una nuova ricchezza o anche solo una generazione più fortunata.
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