Gli aggettivi per descrivere la Siberia hanno tutti un sapore forte: gelata ed estrema, misteriosa e selvaggia, ostile e lontana, tanto lontana. “Quando il sole sorge sugli Urali, sta tramontando sul Mare di Bering” annota Colin Thubron nell’incipit di “In Siberia”. Tentiamo allora di raccontarla per frammenti, attraverso quelli che sono solo alcuni dei suoi mille volti: il grande freddo invernale che ferma tutto, il treno che unisce Mosca al Pacifico, il suo lago-mare e i suoi animali più fieri, il ricordo opprimente e grigio dei gulag e per contrasto le luci sulle possibilità del domani.
Il Grande Freddo

La temperatura più bassa mai raggiunta in un luogo sulla terra eccetto l’Antartide è stata di -67,8°C e l’invidiabile record è toccato nel 1933 ovviamente a uno sperduto villaggio siberiano, Ojmjakon.
Tutta la selvaggia taiga settentrionale della Russia è da sempre il primo riferimento geografico che abbiamo in mente quando ci sono da battere i denti o da descrivere un freddo mai visto. Quel freddo per cui i siberiani si strofinano in continuazione il naso o le orecchie, per evitare il loro congelamento. Quel freddo che gli fa spalmare la faccia di grasso di renna o di foca, per evitare che la pelle si spacchi. Quel freddo che blocca gli sportelli dei bancomat, i motori delle macchine, le conversazioni all’aria aperta e qualche volta gli stessi pensieri. Quel clima assurdo per cui “cala sensibilmente il numero delle conversazioni al cellulare (che va tenuto ben sotto i vestiti e non nella tasca esterna del cappotto altrimenti si scarica subito) perché togliersi i guanti per rispondere è un vero problema” (Fabrizio Dragosei, pezzo sul “Corriere della Sera”).

Resistere coi soli vestiti pesanti è complicato e allora come spesso accade è meglio seguire i consigli dei vecchi di vestirsi a strati, di usare i colbacchi calati fino alle orecchie, di infilare i guanti con le dita unite che si fanno coraggio! “E sono tornati di moda i valenki, vecchi stivaloni di feltro che durante la guerra hanno salvato i piedi a milioni di soldati… l’alcool peggiora le cose perché dilata i vasi sanguigni e fa aumentare lo scambio termico. Un sorso dopo l’altro, gli ubriachi cadono a terra nella neve. Se qualcuno non li tira su entro 20 minuti, sono morti” (Fabrizio Dragosei, pezzo sul “Corriere della Sera”).

Siberia-freddo, freddo siberiano, analogie senza scampo: anche per Thubron “In Siberia” il primo impatto con la bellezza desolata e gelata è evidente: “Mi svegliai in un’alba gelida, con le montagne splendenti sotto un cielo di porcellana. Sì, era dolorosamente bello… Anche oggi i bianchi spazi inducono fantasie e inquietudini. C’è un luogo dove gru bianche danzano sul permafrost, dove una grande città va alla deriva tra banchi di ghiaccio, dove i mammut riposano sotto i ghiacciai… Vagammo in quella vacua vastità accompagnati dallo scricchiolio della neve sotto i piedi…”.
“Quando il termometro scende così, il vapore del fiato si cristallizza e cade a terra in un tintinnio che viene chiamato sussurro delle stelle …Tra la gente del posto si dice che nei momenti di freddo estremo le parole stesse gelano e cadono a terra… Per otto mesi l’anno la neve sigilla il terreno…”.


Il Grande Treno
La Transiberiana ha un nome carico di magia e che porta in sé tutto il senso di un viaggio epico e lento, destinazione l’ignoto. Un treno fatto per tagliare col suo acciaio e col suo fumo, coi suoi odori e con le sue etnie, gli spazi sconfinati della Russia e approdare con la sua linea principale nella nebbiosa città portuale di Vladivostok, sull’Oceano Pacifico, a 10.000 Km quasi di distanza dall’Europa di Mosca, oppure tagliare le steppe mongole coi loro cavalli e le loro yurta per raggiungere Pechino, la regione cinese della Manciuria o più a sud correre lungo quello che resta della Via della Seta. Un viaggio certamente meno lussuoso ma più mitico di quello di un altro treno passato alla storia, l’Orient Express.


In un tragitto come negli altri se va bene ci vogliono almeno 7 giorni di viaggio, senza considerare gli sbuffi del treno, le soste nelle monumentali stazioni dell’ex impero sovietico, il tempo fatto perdere dagli ambulanti che vendono lo street food sotto le carrozze, le nevicate paralizzanti.
I paesaggi che si vedono scostando i pesanti tendaggi verde scuro dei finestrini e al suono di musiche tradizionali come Kalinka sono quasi sempre deserti e gelati: tundra, neve, boschi di conifere, neve, laghi, villaggi con povere casette di legno coi camini sempre accesi, ancora neve.
Si attraversano addirittura 6 fusi orari, si medita, si dorme quando si può, si conversa col vicino di posto in inglese o a gesti, si sgranchiscono ogni tanto le gambe a terra durante le rapide fermate, si gioca a scacchi sperando di beneficiare del fluido dei più grandi scacchisti del mondo, si legge davanti all’ennesima tazza di thè preparato in seconda classe nei bollitori collettivi, si gustano nel vagone ristorante il salmone e l’alce, i mirtilli e il caviale, i salumi e i crauti, le zuppe speziate e gli spiedini, tutto annaffiato dalla vodka che gira anche per gli scompartimenti più umili di mano in mano, di cappotto in cappotto, di dentiera in dentiera.

La Transiberiana in fondo ripudia la tecnologia, la fretta, l’indifferenza ed è “una scuola di pazienza” (Ilaria Cazziol, “Transiberiana fai da te”) e di incontri: quelli casuali a ogni fermata, quelli con l’umanità vera di un grande paese, quelli nel vagone fumatori, quelli coi soldati che tornano a casa, quelli con le modelle che provano a imporsi a Mosca o a San Pietroburgo. Ma forse gli incontri più belli sono quelli silenziosi, che hanno protagonista la tundra, le foreste, l’immensità blu o ghiacciata del lago Baikal, le pittoresche cupole delle chiese ortodosse e le loro icone e i cori dei fedeli che le visitano, l’eterna brina sui rami, la comparsa improvvisa di bellissimi animali o di contadini ricoperti di abiti pesanti che arrivano da chissà dove e vivono chissà come.
Il grande treno fu progettato con grande fatica e grande sudore e grazie al lavoro manuale di una generazione dal 1891 al 1916 perché “non era semplice, né comodo, né veloce andare da una parte all’altra dello sterminato impero russo, fino a metà ‘800: industriali, commercianti, militari, funzionari dello zar. Tutti dovevano mettere in previsione un viaggio di tre o quattro mesi per arrivare fino a Vladivostok… si andava a cavallo, con carri, con carovane di cammelli che portavano il thè cinese in Russia, con slitte… ci voleva un treno…” (Nanni Ruschena, “Meridiani Siberia”)

Il Grande Viaggio
La prima parte del viaggio, quella con più eccitazione addosso, si svolge nella taiga, “la sconfinata foresta di betulle dentro cui corre, per giornate intere, la ferrovia, immersa in un’atmosfera da fiaba…”. Poco fuori le prime città i cavalli allo stato brado galoppano sui prati vicino a fabbriche dismesse.
A metà percorso l’orizzonte visivo del treno è dominato dalla steppa, arida e infinita, ci si sente in viaggio verso il nulla, verso terre altre, verso un recondito passato e l’immaginazione qui lavora di più, si rivedono le impietose immagini dei gulag e le facce tristi degli intellettuali, dei ribelli o dei ladruncoli destinati al confino, le cavalcate nella neve di Michele Strogoff, si indovina il passo stanco dei minatori e quello fiero della tigre. “A spezzare la monotonia provvedono i fiumi maestosi come l’Ob e lo Yenisei e il lago Baikal, grande come il mare, le isbe di legno e le stazioncine uscite dai racconti di Cechov… Tutto è sterminato, estremo… E poi ogni tanto, tantissimo, arrivano le grandi città… Alla fine ecco il “mal di terra”, i volti frastornati dei passeggeri…” (Andrea Kerbaker, “I binari del Mito”).

Ecco, le sensazioni che restano alla fine di un viaggio diverso e quasi immobile sono decisive: giorni di sguardi, di odori, di riflessioni, di piccoli movimenti su e giù per i vagoni, incrociando donne robuste in divisa che riassettano in fretta le cuccette, gli stranieri che cercano l’avventura, le babushke (le nonnine) che alle fermate aumentano il reddito delle comunità rurali vendendo sigarette di contrabbando o zuppe di barbabietola, ricotta, pesce secco di fiume, focacce, salsicce, uova sode e patate bollite, i panorami che scorrono a volte monotoni e a volte eccitanti dal finestrino…
E le pause estranianti nelle città che Mauro Buffa nel suo “Sulla Transiberiana” definisce “come oasi nel deserto, salvatesi dalla distruzione della seconda guerra mondiale, prima del 1991 quasi tutte interdette agli stranieri, perché vi erano industrie militari… o erano città di confine… o forse perché la mentalità di allora era rigida, sospettosa e isolazionista”.
E il ricordo sempre di Buffa delle donne siberiane a Novosibirk per esempio, “la femminilità del loro abbigliamento succinto, pochi i jeans, moltissime le minigonne, che rivela l’armoniosità delle forme e permette loro, oltre che di mostrarsi, anche di catturare il sole e il caldo della breve estate siberiana… E’ un genere di bellezza particolare… occhi leggermente a mandorla, gli zigomi alti… frutto della politica di integrazione etnica operata dal dopoguerra in avanti…”.
I flash del viaggio sono numerosi e tutti meriterebbero un ricordo, come il primo dei campi di lavoro correttivi visitabile a Perm, come la stazione lussuosa di Omsk che sembra quasi un teatro e fa dimenticare il passato di deportazione della città, come la statua di Lenin a Krasnojarsk sotto la quale giocano i bambini “confermando così l’immagine familiare e non più ideologica del leader bolscevico”, il volto orientale e bizantino di Irkutsk, quello definitivamente asiatico di Ulan Ude e via dicendo, banchina dopo banchina, cupola dopo cupola, ciminiera dopo ciminiera, bosco dopo bosco.

Cosa resta alla fine del lungo vivere in treno? “Viaggiare sigillato nello scompartimento e poi prendere di colpo una boccata d’aria può essere veramente letale… Come sarà quando arriverò? Riuscirò ancora a camminare? Come un uccello, come un carcerato, mi sono abituato a questa prigione viaggiante dove ormai so muovermi, so modellare i volumi del mio corpo…” E più avanti: “Camminando verso l’uscita avverto una grande sporcizia nei miei abiti, il gran fetore russo che m’impregna i capelli, il cappotto, il bagaglio. Mi sento come un appestato ma senza peso, senza consistenza… Mi pare di non essere visibile, forse di non esistere, certamente di non esistere più come la gente che vado notando intorno a me. Questo modo di viaggiare cambia molto, troppo. Si ritorna diversi” (Angelo Maria Pellegrino, “In Transiberiana”). E’ lo stesso sentimento del viaggio-percorso che sta nell’epilogo di Mario Buffa: “il treno con la sua lentezza che è però ostinazione difronte a distanze infinite e a terre dalle condizioni orografiche e climatiche proibitive, ti spinge e ti esorta a guardare in avanti”.
La Grande Natura

Madre Siberia chiama, la natura selvaggia risponde. Abituati a vivere nel bianco, ammantati di neve, resistenti e poetici nel freddo, splendidi animali abitano queste latitudini. Orsi bruni giganteschi e zibellini dalla pelliccia pregiata (“la Siberia divenne russa a causa dello zibellino..” ricorda Thubron), alci maestosi che spuntano dai boschi neri, salmoni che saltano liberi nei fiumi, rapaci protetti da piume, rami e silenzio, i laboriosi castori, i favolosi cani husky che rimandano all’epica delle slitte, delle traversate di in un continente gelato e infine lei, che non si vede quasi mai (e forse è meglio…), la tigre siberiana, elegante, possente, una macchina creata dalla natura per resistere alle temperature polari e per muoversi veloce sui terreni innevati, a caccia di ungulati come i cervi e i caprioli, di cinghiali e a volte addirittura di orsi e di lupi. Ne sono rimaste solo 400, hanno un corpo flessuoso e scattante, lungo fino a tre metri, pesanti fino a 300 kg. Sono poche, rare, come dire una goccia nel mare, per questo motivo al maestoso animale delle nevi siberiane va l’omaggio più bello.

Il Grande Lago
Più che un lago un mare, le sue acque sparse potrebbero allagare tutta la terra. Più che profondità abissi, in alcuni punti va sotto per oltre 1600 metri!! Più che uno specchio d’acqua di assoluta purezza (i ciottoli sul fondo si contano uno ad uno) e limpidezza (tale per la presenza di un gamberetto che si nutre di ogni tipo di alga o batterio) una antichissima e misteriosa frattura della crosta terreste, simile a quella della Rift Valley etiope e destinata a aumentare per le 2000 scosse annuali di terremoto.
Più che un punto geografico un luogo mistico e sacro, con qualche spirito che deve abitare dentro le infinite foreste di betulle o dentro le pance delle foche. Più che un luogo ameno un mondo selvaggio, capace di ghiacciarsi in una sola notte nei suoi 636 km di lunghezza, di bloccarti per giorni quando soffia il gelido vento sarma, di erigere sculture di ghiaccio, di svelare prue di navi rimaste incastrate nei lastroni di ghiaccio, di essere in gran parte un paesaggio ancora inesplorato oltre che la culla e la tomba del guerriero mongolo Gengis Khan.

Più che una regione abitata una distesa vergine, una manciata di casette e chiesette di legno sulle sponde grigie, dove vive gente dura, grazie a una dieta fatta di salmone, di trota e del pesce omul affumicato, col thè e la vodka che riscaldano i cuori. Sembra poco tutto questo, sembra solo il trionfo della taiga, di una natura primitiva e spoglia, di albe e tramonti dai colori sempre diversi, ma il nome baigal nel dialetto della Yakutia significa “abbondanza”: di acqua (23.600 chilometri cubi d’acqua dolce, il 20% della riserva mondiale!), di spazi, di viveri, di libertà.

Tutto l’universo del Lago Baikal esiste “soltanto” da venti milioni di anni, si ammira anche dai finestrini della Transiberiana e va protetto con le sue 2500 diverse specie animali e vegetali dagli scarichi industriali e estrattivi, dalla deforestazione e dai gasdotti, dalle miniere di zinco e piombo, dall’inquinamento prodotto dall’uomo. Non ci sarebbe Siberia senza questo lago maestoso e incantato, assolutamente.

Qui in posti come Khuzhir, nelle isole o nelle fattorie più isolate, sembra di sentir respirare la solitudine, come in un incantesimo; qui sembra di aprire le porte su un grandioso laboratorio della natura. Qui gli autocarri scivolano sui ghiacci ma il pericolo incombe sempre perché “senza preavviso, in occasione di un brusco cambio di temperatura, una spaccatura profonda due metri e lunga fino a 30 km può aprirsi, nel ghiaccio, trascinando giù camion e buldozzer, i quali vanno così a raggiungere le carovane di cammelli che trasportavano thè, inghiottite un secolo fa” (Thubron “In Siberia”).
Ma è inutile cercarli sui fondali così come è inutile cercarvi i gas come fanno le aziende petrolifere incaricate nell’ombra da Putin: i veri tesori sono sopra, dentro e intorno al lago più antico, più puro e più profondo del mondo. Il Baikal, “cuore di cristallo, coscienza e orgoglio, gioiello e mito della Siberia intera”, una terra che “l’uomo non può né vincere né conquistare, la può solo amare o odiare, vivere e soffrire” (Nicoletta Salvatori “Airone Siberia”).

Il Grande Orrore
Un articolo su questo tema mi ha aperto gli occhi più di tanti libri e quindi voglio ringraziare e citare doverosamente il suo autore che è Fabio Sebastiano Tana che così racconta i gulag nel magnifico pezzo “Il Libro Nero”, pubblicato su “Meridiani Siberia” nel febbraio del 2012.
“Nell’immaginario collettivo la Siberia ha anche un profilo oscuro: quello dei campi di concentramento più terribili della storia. Li vollero gli zar, li moltiplicò Stalin. Un libro nero quello dei gulag, luoghi di punizione e di lavori forzati… la dura realtà di una landa desolata dove la prigionia, la coercizione, l’umiliazione, l’isolamento, la disperazione, la perdita degli affetti erano non già una mostruosità circoscritta nello spazio e nel tempo, ma elementi connaturati con il territorio stesso”.
Il paesaggio siberiano inevitabilmente certe storie le narra e le evoca: troppa solitudine, troppa immensità e troppo grigiore. C’è al mondo un posto più freddo e più vuoto? Apparentemente più ostile e più adatto a punire la gente?
“Gulag, in qualche modo, non è l’universo carcerario, ma è questo stesso continente di ghiaccio, abitato e colonizzato da chi è stato cacciato dal mondo civile: agitatori e criminali, burocrati da punire, intellettuali al confino, contadini senza terra, avventurieri… Nel gergo dei detenuti l’immenso mondo della taiga era la parte grande della prigione, poco più feroce e disumana di quella piccola, cioè i campi di lavoro… dove si finiva anche per le colpe più assurde e insignificanti, come l’esser recidivi a annusare il tabacco, l’accattonaggio, una delazione, una barzelletta, per ingenuo entusiasmo rivoluzionario o per essere arrivati tre volte in ritardo al lavoro…”.
Alcuni volti della Transiberiana se la portano ancora addosso questa paura dello sbaglio e del controllo, del confino solitario. Per questo le scene di ambulanti, musicanti, bambini sorridenti, fanno tanto bene all’anima. E riempiono i vagoni di vita, di allegria necessaria.
“Dopo la rivoluzione comunista il gulag ha altri scopi, altre motivazioni: serve a fornire mano d’opera a costo zero, a costruire la nuova frontiera verso est, come quella dei cow boy in America che procedeva verso ovest…i campi si creavano dove c’erano minerali da estrarre. Alberi da tagliare, porti, strade e canali da costruire… La mortalità era altissima, in milioni sono morti fucilati, per il tifo o altre malattie, per non aver retto alle fatiche del gelo o in miniera…”. Anche per Thubron “stremati dal lavoro, dal freddo pungente, e mezzi morti di fame, i forzati erano ridotti a una massa animalesca”.
Il Far East come il Far West, una terra di conquiste, di fatiche e di opportunità. Con la natura in entrambi i casi dura e difficile, da superare e da vincere. Si tratta di epiche diverse (la polvere e il ghiaccio, i saloon e le capanne, i ranch e i campi di lavoro, i pionieri e gli operai) ma in qualche modo simili. E’ un pensiero troppo ardito? O bisogna relegare per sempre la Siberia – per citare ancora Thubron – a “limbo pronto a ricevere tutta la feccia dell’Impero: criminali, vagabondi, dissidenti. Per mezzo della Siberia la Russia si sarebbe purgata. La sua vastità poteva mettere in quarantena il male”?

La Grande Speranza

Quasi tutti gli abitanti di queste terre gelate hanno un passato tormentato, avventuroso, fatto di fuga, di dolore e di esilio. Quando andava bene i loro bisnonni erano figli di aristocratici polacchi esiliati dagli zar, i loro nonni figli di anarchici o loro stessi strenui oppositori di Stalin e del comunismo che avevano conosciuto l’impietoso carcere politico; ma va anche detto che ai confini del mondo furono spediti senza troppi riguardi legioni di ladri, criminali e malfattori di ogni regione, oppure operai e minatori per i lavori più umili o nel caso più struggente liberi pensatori o eretici che davano fastidio e che qui nella neve hanno continuato a seminare germogli di indipendenza.
Nel dna di questo popolo si immagina in ogni modo e a ogni lettura una voglia di riscatto, di risalita sociale, di uscita dal gelo: studenti che cercano di affermarsi nelle metropoli occidentali, pastori nomadi che vogliono capire i computer, ragazze bellissime e biondissime che sono oggi fra le modelle più ricercate del mondo, i buriati di origine mongola che vivono attorno al grande lago coi loro culti buddhisti, i loro costumi colorati, quasi privi di giornali, di dischi, di pane ma fiduciosi nel futuro, Vladivostok che è sempre un postaccio ma che con la sua energia, i suoi ponti, le sue industrie si sforza di assomigliare a San Francisco, i villaggi siberiani più sperduti che hanno provato ad aprirsi a forme alternative e nuove di turismo, il Lago Baikal santuario ecologista dove oggi arrivano esploratori, avventurieri e navigatori da tutte le parti per vivere il forte, unico e sempre più raro sapore della wilderness.
La Siberia vive col termometro vicino allo zero o molto al di sotto (in inverno è stabile a meno 20…), ma i suoi umori, le sue ambizioni, le sue sfide sono più calde, più urgenti. In un paese grande 40 volte l’Italia gli uomini e le donne stanno crescendo ostinati e liberi, con addosso quell’”innocenza primordiale… la Russia perduta, la cittadella dello spirito” di cui parla Thubron, lontana dal marciume politico europeo.
Qui i suoi 2 abitanti (o è meglio chiamarli pionieri?) per kmq vogliono appropriarsi di più delle loro gigantesche ricchezze naturali (il legname, il turismo, le renne, i minerali, l’energia idroelettrica, la pesca) e progettare con esse un futuro diverso, che parta dalla loro vita di frontiera dove senz’altro è più possibile che altrove uno sviluppo armonico ed equilibrato tra l’uomo e il suo ambiente. Le stesse comunità rurali che dividono i loro raccolti sono un esempio di umanità differente, unita e forte, dopo aver mostrato nei decenni grandi capacità di sopportazione e adattamento. Nelle campagne convivono serenamente anche più culti, religioni, da quelle ortodosse a quelle sciamaniche.
La Siberia specie se riuscirà a sconfiggere definitivamente la piaga dell’alcolismo che causa ancora il 70% dei divorzi potrà diventare quindi un laboratorio etico, naturalistico, scientifico e magari anche politico, di pensieri verdi, freschi, nuovi, capaci di cambiare il blocco culturale tanto tipico della Russia di Mosca. Sarebbe bello che dal vecchio “castello dell’orco” (definizione di Nicoletta Salvatori per “Airone Siberia”) venisse fuori una saggia e giovane lezione di vita e una rivoluzione ecologista e che tutti i ragazzi della Siberia seguissero l’insegnamento dei loro numerosi poeti e scrittori a difesa perenne di tanta bellezza. Forse aveva ragione Dostoevskij: “La Siberia in generale è una terra benedetta, bisogna solo saperne approfittare”.


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