Mi sono sempre piaciuti i luoghi remoti del mondo, i puntini sparsi nel mondo.
Quelli che potevano accendere anche soltanto la mia immaginazione, benché sapessi che probabilmente non li avrei mai visitati…
Le tappe della Via della Seta, le Macondo perdute nel Sudamerica, i deserti e i ghiacciai più estremi…
C’è stata una lunga fase nella mia vita dove il mio negozio preferito era il giornalaio, era il posto dove spendevo più soldi, per i miei hobby, per la mia fame di curiosità… Le compravo tutte: “Le Vie del Mondo” del Touring Club Italiano, “Airone” fino a quando si occupava ancora di geografia umana, poi “Geo”, tutte collezioni finite al tempo del web… mi restano alcune monografie di “Meridiani” e “The Passenger” adesso… Ma erano loro tutte quelle riviste che mi potevano far trovare un posto a sorpresa, che potevano alimentare la mia passione, tutta mentale, tutta virtuale, di arrivare lontano, nelle steppe dell’Asia per esempio.

Ecco l’interesse per le steppe dell’Asia nacque esattamente in questo modo…
L’Asia… il continente più grande e più misterioso, quello che conosco meno, quello che per consolarmi dico sempre a me stesso che ci farò i grandi viaggi della maturità perché credo che la saggezza definitiva si acquisti quando si è disposti a tornare agli albori, alle origini, sui propri passi, sulle conoscenze accumulate, a capire come siano nate certe civiltà, religioni e filosofie.
Ma intanto mi sono segnato tra le tante letture dei nomi un po’ a caso, quelli che per qualche motivo mi hanno affascinato, per un particolare, per una forma di eco, per un orizzonte paesaggistico, umanistico o anche futuristico.
Mi piace ricordarli qui, come un mitico altrove in qualche modo indagabile, come la possibilità di un viaggio che esiste. Cercateli sulle mappe insieme a me se vi piace, in fondo il viaggio è anche una continua esplorazione dell’ignoto, il viaggio si compie anche grazie ai libri, ai desideri e alle infinite frontiere della mente.

Astana, dalla steppa al futuro
In un articolo su “Geo” ricordo che la definivano “la Disneyland della steppa” e questa cosa mi ha sempre incuriosito, nel senso che ogni tanto mi capitava di ripensarci e di controllare su altri libri o siti che tipo di crescita avesse raggiunto questa metropoli del lontano Kazakistan, venuta su a dismisura nell’immenso e vuoto spazio asiatico grazie al flusso dei petrodollari del Mar Caspio.
Ancora oggi Astana è una città in costruzione, nata dal niente e pronta a stupire per i suoi grattacieli, le sue mille luci e i suoi divertimenti. Il suo nome è di una semplicità disarmante, in kazako significa soltanto “Capitale”, una capitale basata su architetture moderniste progettate da Kurokawa, un urbanista giapponese. Su numerose moschee, come quella bianca immacolata di Nur Astana, sulla Piramide della Pace e sulla Tenda Reale di Sir Norman Foster, sull’Uovo d’Oro, costruzioni in vetro, cemento e acciaio che strizzano l’occhio al futuro e che ospitano sale da concerto come ristoranti panoramici e piscine circondate da spiagge tropicali. Eh sì, perché il clima di Astana è gelido, in inverno può toccare i meno 40 gradi (!) e gli eredi di Gengis Khan si sono dovuti inventare un mondo e un clima artificiale per indossare come fanno le modelle gli abitini corti, per spendere, come fanno le famiglie più ricche, le grandi fortune accumulate grazie ai giacimenti di oro, petrolio e uranio.

Tornando più volte a curiosare sul destino di Astana ho scoperto che, chiudendo il vertice del triangolo che ha alle basi gli immensi laghi di Aral e di Balgas, è comunque la capitale del nono paese più grande del mondo, quello che a livello sia economico che politico può tranquillamente definirsi il pezzo di ex Unione Sovietica più importante e più potente.
Ho scoperto che i suoi abitanti amano alla follia il circo, perché vi rivedono il folklore locale degli antichi costumi e le sfilate degli amati cammelli. Ho scoperto che da queste parti nel 1998 c’erano davvero solo la steppa e il vento freddo e che tutto si è sviluppato in fretta, una specie di sogno, una specie di leggenda, la stessa che racconta dell’uovo d’oro dove il primo presidente kazako, Nasarbajew, appoggiò la mano e che oggi tutti gli abitanti, in cima a una altissima torre, vogliono toccare nello stesso modo, perché porta fortuna.
Astana è il volto più ricco di un paese in gran parte ancora povero, il volto di un Islam gentile, poco severo, poco censore: le donne non indossano il velo, bevono birra nei locali, allattano in pubblico.
Qui è ancora possibile l’armonia di religioni, popoli, minoranze etniche e linguistiche. Qui si guarda al futuro, a crescere con l’economia, a competere con l’occidente tra fontane, cupole d’oro e minareti, tra balletti e banchetti. E per una fuga nella natura si può sempre visitare vicino il Parco Nazionale di Burabay che presenta laghi, colline e rocce misteriose.


Il sacro e il profano di Astana, la moschea di Nur e la Ruota panoramica del Luna Park

Rosorv, tra le montagne
Agli antipodi di Astana una volta ho visto un documentario su un piccolo villaggio del Tagikistan, sperduto e polveroso, appena sotto le grandi e impervie montagne del Pamir, che raggiungono i 7.500 metri di altezza. I suoi abitanti mietono con la falce, trebbiano con gli asini, indossano maglioni pesanti, tessono tappeti e coperte colorate, si ubriacano nelle feste, celebrano i matrimoni in costume, hanno le facce cotte dal sole e dal vento, le labbra spaccate dal freddo, come ricordo di aver visto contadini simili sugli altopiani della Bolivia.

La ricchezza più evidente di Rosorv è costituita dall’acqua, quella che si scioglie dai ghiacciai perenni e che favorisce in qualche modo forme rudimentali di agricoltura (patate per lo più) e di energia.
Il paese è immensamente nudo, freddo e povero. E anche corrotto nella sua classe politica, da quello che vengo a sapere.
Dalla capitale Dusanbe le piste sassose seguono letti di fiumi e valli di montagne, fino a che si arriva in questo villaggio, ugualmente distante dal confine afgano, pakistano, cinese e kirghizo.
Il rito del matrimonio è particolare in questo angolo di Tagikistan, un bue è stato appena macellato e agli ospiti del banchetto ad altezze impensabili per noi europei viene offerto come benvenuto una tazza calda del suo brodo. La sposa indossa una tunica rossa, con fiori dai colori accesi, quasi a voler rompere con una macchia dadaista la monotonia cromatica della steppa e della montagna. Le danze sono ispirate da ritmi circolari ed echi orientali, sulle tavole passa l’agnello, con una focaccia locale e delle albicocche ugualmente del posto. Si, le albicocche tra i monti del Pamir!
A officiare il rito, accanto a tutti e mille gli abitanti, spunta il khalifa, che per la cultura tagika è una specie di capo spirituale della comunità. Se uno dei due giovani viene da un altro villaggio il matrimonio è la prima occasione in cui vede il partner, deciso in base alle trattative intercorse tra le due comunità.

Per queste gelate solitudini ci si muove con macchine scassate o più spesso a dorso d’asino, qualche fortezza spezza la geografia tutta uguale del paesaggio: monti, fiumi, steppa, steppa, fiumi, monti. E in alto la neve. Tra i tetti di legno e lamiera, tra i mattoni di fango, cominciano a spuntare le prime antenne, per tentare collegamenti con la rete e coi cellulari che ovviamente funzionano sempre male.
I giorni passano tutti uguali: il campo, l’asino, la vista della montagna, l’acqua presa al fiume. Il momento del tè, oppure quello molto atteso del barakat, la benedizione avuta da un anziano per un gesto benevolo. La solidarietà, la comunità, quassù, dove il mondo sembra finire.
(continua…)
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