Ai confini della steppa
Se la grande steppa asiatica ospita città avveniristiche come Astana e fa da sfondo allo stesso modo a un piccolo villaggio tagiko, è ancora più evidente che la fredda e desolata pianura di alta quota sia la grande scena, la grande madre e l’essenza prima della Mongolia, che vede svilupparsi all’infinito anche il suo Deserto del Gobi ad altezze sempre oltre i 1.000 metri.
Che paese la Mongolia, anche solo ad immaginarselo!

Grande cinque volte la nostra penisola, con soli 3 milioni abitanti, la metà dei quali vivono nella capitale Ulaan Bator che specie negli ultimi anni, grazie alla scoperta dei giacimenti di minerali, di carbone, di rame e di oro si è sviluppata in modo frenetico, prendendo a modello le grandi città cinesi e mondiali, costruendo grattacieli in serie accanto ai templi buddisti, coinvolgendo specie i suoi abitanti più giovani con tutte le luci e i vizi del consumismo, della moda e dell’elettronica.

Il vento non incontra niente
Ma già intorno alla capitale e fino ai confini più lontani domina la steppa, la grande steppa asiatica, pietrosa, di erbe leggere e giallastre, di arbusti mossi da un vento gelido durante l’inverno, quando la temperatura scende nelle zone più remote e vuote fino a meno 40 gradi e per un motivo molto semplice: il vento non incontra niente che lo ferma, solo il viso degli abitanti, che ne rimane “cotto”.
Ho visto documentari affascinanti e letto più di un libro di esplorazioni di viaggio sulla Mongolia (un consiglio su tutti: “Il cielo azzurro” di Tschinag), è uscito un numero di “Meridiani” commovente per la bellezza dei testi e delle fotografie: è la steppa che ho più in mente per un viaggio asiatico, è il cielo infinito e terso e freddo che vorrei più vedere, quello percorso dalle macchie biancastre delle nuvole che disegnano nell’aria pulita e azzurra giochi e forme strane, che a volte sembrano ricordare gli animali, i pochi animali viventi in questo spazio. I cammelli, i cavalli, i piccoli roditori, gli yak, le capre, le pecore, gli asini selvatici, qualche specie di rara gazzella o avvoltoio della steppa, qualche guida e qualche studioso sussurra pure che siano questi gli spazi del mitico leopardo delle nevi.
Destino da nomadi
Insomma la steppa e il deserto mongolo mi hanno sempre affascinato, soprattutto per le loro popolazioni semi-nomadi. Quelle che in coincidenza delle cicliche crisi economiche della Mongolia urbana hanno scelto per sè un destino diverso da quello della capitale Ulaan Bator, un destino da mandriani, basato sull’allevamento in sterminati recinti (come in Patagonia, ma spesso i recinti non ci sono affatto…) di cavalli, ovini e bovini, che gli danno tutto quello che gli serve per vivere: la carne, il latte, i formaggi, la lana, le coperte, i vestiti, gli utensili. Destino di persone timide e silenziose, che si aiutano l’una con l’altra, in comunità attaccatissime tra di loro perché nei grandi spazi mongoli da soli si può morire più facilmente…

Ci sono due grandi protagonisti della vita della steppa in Mongolia: il cavallo e la Gher.
Il cavallo è l’animale principe, l’animale mitico della steppa, spesso l’unico mezzo di spostamento sulle piste desertiche e mai tracciate, l’animale al galoppo del quale furoreggiava Gengis Khan coi suoi guerrieri. E’ impressionante vedere immagini o anche solo leggere dell’abilità a cavallo dei mongoli della steppa fin da piccoli, dai 4-5 anni, di come li incitino alla corsa e di come abilmente li domino nei rodei che coinvolgono le loro famiglie, le loro comunità.
La stessa impressione mi ha fatto sapere di come naturalmente e spesso li uccidano perché la durezza della vita e del clima invernale li obbliga a un gesto cruento e naturale, uccidere il cavallo per farne delle bistecche.
La Gher è invece la tipica abitazione nomade degli allevatori mongoli: ricorda le tende del circo, bianca, in legno e feltro, tenuta insieme da sapienti nodi di corda, di forma rotonda, con un buco nel tetto dal quale esce il fumo della grande stufa interna. Una tenda rudimentale e pratica, di circa 30mq e che pesa sui 250 kg, che si monta in un paio d’ore ore e si smonta in mezz’ora, pronta subito a un altro pascolo, a un altro accampamento a un altro spostamento, che avviene su pesanti carri.
Nelle gher non c’è niente di particolare, si dorme su letti semplici di legno o direttamente sui tappeti, ci sono le coperte dai colori vivaci, la bacinella dell’acqua, qualche vaso di cuoio, l’altarino di Buddha, il bollitore del tè, pochi utensili, pochi sgabelli. Il nomade rifugge quasi dagli orpelli, dalle comodità, la sua vita è spostarsi, allevare, cavalcare, e la gher serve soprattutto per dormire quando arriva il temutissimo inverno, quando lo zud, quella entità gelida e ventosa della natura non dà tregua. In estate per due mesi il clima mongolo dà una tregua e diventa anche dolce, arriva pure a 20-25 gradi e pare che sia questo l’unico periodo possibile per un turismo alternativo, fatto di soggiorni in accampamenti di gher, a vedere da vicino la vita dei pastori, la corsa dei cavalli, il fuoco e i canti delle sere. E per i turisti nella gher si trova pure il modo di offrire una bella doccia.

La minaccia
Mi piacerebbe davvero andarci, nella stagione accessibile per noi comodi occidentali ovvio. Mi piacerebbe dare un volto e un senso a questa immensa steppa, a questa vita arcaica e rude, prima che i villaggi (?) dei nomadi siano ancora più minacciati dal richiamo della modernità o dal mercurio che avvelena i loro fiumi perché le grandi compagnie estrattive, australiane, canadesi, usano appunto il mercurio per separare l’oro dalla roccia e le bestie bevono nei fiumi e gli uomini mangiano le bestie e quindi si ammalano anche loro… Sembra il destino ineluttabile di un’altra terra vergine, ad altre latitudini, l’Amazzonia.
La lezione
In ogni caso la Mongolia più interna non può non attrarre il vero viaggiatore, quello che si ritrova nei visi paffuti e bruciati dei bambini nomadi, che indossano costumi colorati per spezzare la monotonia della steppa, che hanno due fessure al posto degli occhi, che non si sa a che età comincino a saper costruire la gher, a lanciare il coltello, a domare il cavallo, a sbudellarlo insieme al montone perché la famiglia a cena non ha altro, a vincere il primo rodeo, ad ammaestrare la prima aquila o anche a bere il primo bicchiere di vodka.
Nella steppa e nel deserto del Gobi si impara presto a diventare grandi e ci si mette poco, credo, da visitatori, a sentirsi piccoli. E grati di tanto infinito, di tanta semplicità.
P.S
Dalla introduzione della monografia di “Meridiani – Mongolia” firmata da Remo Guerrini
“Uomo schivo che, per celare la propria tomba, fece ammazzare un’infinità di testimoni della sepoltura (e poi gli autori degli ammazzamenti), ma anche legislatore sapiente, modesto e lungimirante, chissà che cosa avrebbe pensato Gengis Khan dell’uso che si del suo nome nella Mongolia d’oggi: birre e aeroporti, bamboline e chewing gum, alberghi e vodka, quasi tutto ciò che si vede a Ulaan Bator e dintorni porta il suo marchio”.

Mi piace molto questo pensiero: la Mongolia come paesaggio e come cultura da difendere, dalla modernità e forse, come intendeva il suo grande guerriero a cavallo, anche dalla nostra curiosità.
E allora se per non offendere Gengis Khan non ci andrete mai e rimarrà un viaggio-miraggio la Mongolia si può conoscere un po’ meglio con le atmosfere metafisiche del disco “Tabula Rasa Elettrificata” dei C.S.I e con film-documentari come “Urga”, “Il cane giallo della Mongolia”, Il Matrimonio di Tuya” e “Mongol” per rivivere le solitudini della steppa, come il folklore locale o le gesta del feroce condottiero barbaro.
Gruppo fortemente alternativo, i C.S.I composero questo disco ispirato dai grandi spazi, silenzi e solitudini della steppa mongola
Ecco i link dei trailer di Mongol e Urga, per una immersione geografica, spirituale e storica nell’universo Mongolia.


Lontanissima Manciuria
L’ultima puntata di questo viaggio nelle steppe dell’Asia mi porta quaggiù, ad indentificare un altro puntino estremo del globo, dove si adagia la regione della Manciuria, di sicuro la meno popolata, la meno moderna e la meno eclatante della Cina. Ma comunque una pedina importante nello scacchiere della geopolitica asiatica.

Parliamo infatti dell’estremità nord-est del gigante Cina, quella immensa regione che a sud confina con la Corea del Nord e che dall’altro lato del mare guarda il Giappone. La prima abitata da tribù nomadi, culla della dinastia Qing, contesa sempre dalla Russia e dallo stesso Giappone, per scopi sia economici che militari. La prima parte di Cina che conobbe l’industrializzazione, per poi decadere a favore delle metropoli del Sud. Terra anch’essa fredda, piena di monti e di minerali, ospitante l’ultima parte del desolato deserto del Gobi. Terra dove sono rimasti gli ultimi discendenti dei Manciù, emigrati a più ondate verso l’ancor più fredda Siberia, quasi a cercare il contatto con la vita frugale e naturale delle loro origini, quasi a sfuggire dall’abnorme progresso e inquinamento e sfruttamento portato dal governo cinese. Ma Pechino guarda ancora e in un modo diverso a questa regione perché è da qui (loro la chiamano Dongbei, ovvero semplicemente il Nord-Est) che passa il progetto della “Via della Seta polare”, dello sviluppo della Cina come potenza navale e dell’esplorazione dello Spazio.
Ed è qui che si è vicini un’altra leggenda tutta asiatica, la fine della ferrovia Transiberiana, nella città portuale russa di Vladivostok. Come a dire che il mondo della steppa ha risorse inaspettate.
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