Lo spazio più vuoto del mondo
Trecento giorni l’anno di sole bollente si schiantano sopra 9.000 kmq di superficie di 11 stati africani, in pratica l’intera Europa. Solo 100 mm di pioggia l’anno provano a placare la grande sete e a far crescere i ciuffi d’erba, gli arbusti spinosi o gli orti delle oasi. In arabo “As-Sahra” significa il deserto più grande, il vuoto più esteso e immutabile e così noi occidentali lo abbiamo sempre vissuto e immaginato, come il padre di tutti i deserti, come lo spazio delle assolute solitudini, delle rinascite possibili e della vita selvaggia. Gli antichi romani raccontavano con una frase secca, una sentenza, gli avamposti del Sahara: hic sunt leones, qui finisce la vita nota, comincia quella delle belve. Noi al massimo lasciamo città, templi, teatri, arene, sulla placida fascia costiera (vedi attuali Tunisia e Libia), oltre non ci andiamo.

L’approccio culturale al Sahara
Nei 5.000 km che vanno dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso in larghezza e nei 2.000 km di lunghezza che separano il Mediterraneo e i monti dell’Atlante dagli erg più remoti del Sahel nella pancia dell’Africa, tanti letterati e tanti artisti, da Bowles a Flaubert, da Gide a Pascal, da Matisse a Klee, hanno identificato una sorta di luogo di purificazione, di contaminazione, di riflessione, di risveglio dei sensi come di ascesi spirituale. Hanno scritto dei paesaggi più puri, raccontato le scene di vita quotidiana, catturato le luci più calde, vissuto in semplici architetture cubiche, davanti ai suk o alle dune.
Hanno creato una vera estetica dell’arido, capace di sopravvivere nel tempo e anche nei suoli più bollenti: nel sud algerino di Tamanrasset una volta si sono toccati gli 84 gradi!!

Il filosofo francese Alain Laurent in “Desiderio di deserto” si sofferma lungamente sul richiamo del Sahara, sul suo potere di attrazione, sulla bellezza dei suoi vuoti, dei suoi silenzi, dei suoi paesaggi lunari. Afferma con eccitazione che il deserto ha soddisfatto la sua sete di esplorazione, il suo bisogno di avventura sentito fin da bambino, il suo interesse per le forme d’arte e di civiltà perdute. Lo chiama “il paese natio del mio immaginario”, capace di sprigionare “una forza mitica, sublime, avvincente, allucinante” e al contempo di tirare fuori “la sua parte maledetta”, angosciosa e spaventosa.

Per Laurent il Sahara può ricordare il massimo grado della fuga esotica e può svelarsi come un inferno o come il posto più scomodo e più rude. Può lasciare l’anelito e l’insegnamento di un mondo naturale e tribale dove la frugalità e l’austerità sono la cifra morale di ogni suo abitante. Può costituire il viaggio interiore alla ricerca di noi stessi o del dio in cui crediamo. Ma per l’autore non ha tanto senso dargli per forza un senso e con le sue storie, i suoi nomadi, i suoi paesaggi lo considera come Albert Camus “una terra di bellezza, inutile e insostituibile”. Tutt’al più “un grande rivelatore, uno specchio che riflette l’anima di tutti coloro che lo amano. Lawrence d’Arabia l’aveva compreso appieno… gli uomini nella solitudine capiscono più distintamente la solitudine del verbo vivente che portano con sé”.
Molta saggezza è insita in questa visione plurima e polifonica del deserto: a Laurent procura “un’alchimia di estasi estatica e di edonismo aperto alle curiosità dello spirito” ma riconosce valida la tesi del “a ciascuno il suo deserto e il deserto per tutti, per tutti coloro che lo rispettano, escludendo dunque i barbari che ne devastano le piste, lo trasformano in campo di tiro o prendono le dune per esotiche e volgari decorazioni festive”.
Secondo il fotografo Christian Sappa, autore di un bellissimo libro fotografico, “ci si può perdere fisicamente e psicologicamente in questo infinito ma si può anche trovare sé stessi, ritrovarsi, ricaricarsi nelle immensità del giorno o nel silenzio della notte”.
L’esperienza umana davanti a uno spettacolo del genere è limitata. Non è possibile conoscere, viaggiare, descrivere o raccontare tutto il mondo del Sahara. Si può solo tentare di capirlo a pezzi, di evocarlo, di mettere a fuoco un viaggio per la Via delle Kasbah marocchine, nel primo dolce deserto tunisino, nelle zone più fertili della Valle del Nilo e mescolarlo alle foto, ai romanzi, alle citazioni, agli studi, ai vagabondaggi degli esploratori più audaci che hanno percorso in lungo e largo le vie carovaniere, degli antropologi più colti che sono arrivati a perdersi nei poveri villaggi, sulle altissime dune della Mauritania, nei paesaggi aridi e disperati del Niger o sulle tracce degli “uomini blu”.

Ecco pertanto una proposta limitata e parziale, solo dei flash, per comporre un album della memoria o dei sogni, per avvicinare in qualche modo “lo scheletro nudo dell’Essere” (Edward Abbey “Deserto solitario”) e “il più grande di tutti i maestri” (Paulo Coelho, “L’Alchimista”).
La confidenza con gli ambienti, coi venti, con le dune
Il Sahara è composto da vari ambienti, li ho conosciuti e inquadrati meglio grazie al libro “Sahara” con le foto di Sappa e i testi molto belli e molto ricchi di dettagli di Marco Boella e Claudia Maria Tresso: i jabel sono i massicci montuosi del nord, i tassili (specie algerini) sono tavolati arenosi frastagliati in vere foreste di pietre, gli hammada sono le pianure rocciose levigate dal vento, i sarir le ampie distese di ciottoli e ghiaia, gli erg gli sconfinati campi e cumuli di dune sabbiose, i wadi gli alvei dei fiumi ormai asciutti e gli shatt i bacini lacustri ormai essiccati. Tutti paesaggi favolosi ed estranianti che è bello rivedere nelle scene di amore come di espiazione del film drammatico “Il paziente inglese”.

I venti, specie alisei, hanno tanti nomi, così come le dune, sono insistenti e capricciosi e si divertono a modificare la geografia delle sabbie. Il ghibli è il vento più romantico e più famoso, quello che crea le tempeste di sabbia, quello che incute paura e fa calare i turbanti sul viso, quello che modifica spesso dalla notte al giorno il volto delle dune. Altri venti portano “la brezza profumata che ci fa vivere due volte” secondo il poeta arabo Ab del Kader.


Le dune stesse sono un monumento naturale e un inno alla fragilità: si spostano, cambiano forme, altezze (arrivano anche a 200 metri!), fianchi e profili, ispirano un senso di infinito e di provvisorietà, di maestosità e di magia, subiscono le carezze e i furori del vento (il deserto per Michael Ondaatje era “un pezzo di lenzuolo portato via dai venti”), sono composte da una sabbia ora soffice ora maledetta, fanno perdere o incantare lo sguardo. E chissà se nascondono da qualche parte “ll Piccolo Principe” o il biplano del suo autore Saint Exupery, così legato al luogo misterioso che ospitò la sua tragica fine: “nel deserto, io valgo ciò che valgono le mie divinità”.
L’incontro coi tuareg
Sugli altopiani più rocciosi, detti hoggar, in un paesaggio di gole, forre, canyon e burroni, vivono le ultime tribù del deserto, soprattutto i famosi Tuareg, i nomadi vestiti di blu, “le anime perdute” secondo la definizione adottata per loro dagli altri popoli del Sahara. Nei viaggi remoti o nei documentari più estremi li vedi comparire all’orizzonte, solitari o in piccoli gruppi, avanzare in sella ai loro dromedari tra le dune sabbiose e i pinnacoli e le guglie di roccia, esibendo i magnifici gioielli delle donne o le affilate e lucenti spade degli uomini.
Nell’immaginario culturale e letterario di noi occidentali sono senz’altro loro IL popolo del Sahara, così eleganti, così alteri e così fieri, da chiamarsi tra loro “imageren”, ovvero “i liberi, gli abbandonati di Allah”, mascalzoni pagani capaci di immaginare qualunque orizzonte, qualunque destino e di vivere di ogni espediente. Figure sospese tra l’epica dei cavalieri mitici e la spregiudicatezza dei predoni.

Gli uomini blu sono gli unici monogami nel grande deserto e sono anche i soli a non coprire con un velo il volto delle donne. Forse l’estrema libertà li fa sentire moralmente più liberi?
Nelle serate di bivacco attorno al fuoco e sotto la volta immensa del cielo stellato dimostrano di amare con ardore le feste, sono i più abili nella poesia e nel canto, con queste arti esprimono i concetti dell’amore, della guerra, della libertà, del deserto, del nomadismo e quindi le loro tradizioni e le loro conoscenze si tramandano per via orale: “è attraverso i fatti recitati la sera intorno ai fuochi che i giovani della tribù imparano a essere adulti, a comportarsi in battaglia, a incontrare una donna; che cosa sono l’onore, la vergogna, il prestigio e il valore di un cammello”. (Clelia D’Onofrio – “Meridiani-Sahara”)

Continua la giornalista, con grande rispetto e grande sensibilità: “Sono i padroni del tempo. Ne hanno tanto e lo spendono soprattutto nel dare valore alle cose belle della vita. Come la conversazione con gli amici, le ridenti fanciulle, il vento del deserto, il comporsi e lo scomporsi della carovana, il fresco della sera. I Tuareg non si pongono limiti, non sono condizionati dalla luce del giorno o dal calar della sera, non inseguono il denaro, la loro ricchezza è la mandria che per dono di Dio si riproduce”.
Girano sempre, cercano oasi, pozzi, nuovi commerci, nuovi paesi, ma soprattutto curano “in movimento” le loro mandrie di capre e dromedari e diventano semi-stanziali quando trovano erba, sale e acqua a sufficienza. Non inseguono migrazioni ma un destino indipendente, sono tra i popoli più orgogliosi e con un grande senso della dignità.
Del resto come si legge nel già citato volume “Sahara” “il deserto ha una legge fondamentale che divide i suoi abitanti in due popoli nettamente separati: gli abitanti delle oasi, sedentari e prigionieri della loro acqua, e i nomadi, uomini erranti che niente e nessuno può rendere schiavi”. I Tuareg rappresentano l’icona e il paradigma di questo secondo concetto, “le loro carovane da lontano sembrano un corteo, da vicino un villaggio, con le sue chiacchiere, scherzi, soprannomi, intrighi, conflitti, riconciliazioni”.

Il deserto per questi nomadi è “una passione profonda e assoluta, immagini che neppure la morte, un giorno, può avere il diritto di toglierci” (frase di Mano Dayak).
Ancora oggi, con la loro testimonianza, gli uomini col velo ci insegnano che il deserto fu dato da Dio agli uomini, affinché vi ritrovassero la loro anima.
I Tuareg rimasti sparpagliati tra Algeria, Mali e Niger non sono certo gli unici protagonisti di questa immensa “Nomade’s Land” (altra felice definizione di Laurent): oltre alle “genti del velo” esistono per lui “quelle delle rocce”, i dimenticati, anarchici e resistenti Toubou della zona del Tibesti tra Libia e Ciad, tribù dalla pelle scura e con donne bellissime e anche le “genti delle nuvole”, i Mauri, quelli della zona occidentale, anche loro vestiti di indaco, da sempre ostili agli occidentali in cui vedono l’avanguardia di eserciti conquistatori, dediti per questo a una vita semplice e isolata, fatta di povera agricoltura e artigianato, col solo dromedario per amico e fermi per ore a guardare le loro magnifiche spiagge deserte.
Sempre più alcuni nomadi, gli uomini blu come i berberi, i neri come gli arabi, nelle loro solitudini adottano simboli della modernità quali un paio di jeans, gli occhiali da sole, l’orologio o il telefono. E’ la vita moderna che incombe, speriamo non corra troppo, non cambi troppo le cose, i valori, i sentimenti.
Gli altri abitanti del deserto li trovi invece dopo giornate di intenso lavoro e di grande sudore a riposare nelle oasi, a sbrigare i loro commerci, a coltivare i campi, a guardare i tramonti, a sgranare i rosari, a bere i tre rituali bicchieri di thè, a preparare un tajine di pollo, a sognare il giorno in città.

Il miracolo dell’acqua: le oasi
La vera ricchezza del deserto non è il petrolio ma l’acqua e l’acqua si trova nelle oasi. Fa sensazione il ricordo di una pioggia nell’infuocato sud algerino da parte di Paul Bowles che descrive la corsa delle donne con brocche e vasi per farne preziosa riserva.
Le oasi sono piccole strisce di terreno verde che a volte arrivano dopo centinaia di km, proprio come un miraggio e svelano il volto di un curatissimo Eden. Sono annunciate dalle palme da dattero che continuano da secoli a combattere contro le sabbie del deserto e contro il caldo atroce del mezzogiorno. Qui i nomadi si riposano, dopo lunghi viaggi le carovane si fermano, gli uomini si ristorano, si lavano, assaggiano frutta e verdura fresca, incontrano gli altri, gli “stanziali” coi quali scambiano informazioni, commerci, animali, pacchi, alimenti, amori. I tessuti in cambio dei datteri. I legumi in cambio delle anfore trasportate sulle gobbe dei dromedari. I melograni, le fave, l’orzo, in cambio dei racconti intorno al fuoco. E l’acqua, dicevamo.

L’acqua che fa crescere orti e palmizi, scorre in falde sotterranee per attingere alle quali alle volte bisogna scavare pozzi di centinaia di metri e costruire complessi canali, muretti e gallerie drenanti (per esempio i foggara algerini), le opere edili e idriche più preziose delle oasi, create dal duro lavoro dell’uomo. Quando l’acqua esce è davvero il simbolo primigenio della vita, lo si capisce benissimo sulle sponde del Nilo, nei dintorni di Tozeur in Tunisia o sulla pista che va da Ourzazate a Zagora, dove incontri dune calde 50 gradi interrotte solo dalle oasi delle kasbah, le cittadelle fortificate di argilla e fango, gli ultimi cenni di umanità e di paesaggio sociale favoriti dalla presenza di acque, prima dell’arrivo nel deserto marocchino di Merzouga. L’acqua è così preziosa nelle oasi che passa come bene nelle eredità, crea la fortuna di una famiglia, perpetua la vita.

In alcune oasi come quella di Chinguitti in Mauritania, ormai quasi seppellita dalle sabbie, si è vissuto anche un grande passato: era la biblioteca del deserto e il deposito del sale, prima che le termiti, la polvere e la siccità rovinassero tutto. Altre oasi si sono ingrandite e trasformate in città in lamiera, coi soliti problemi di sporcizia, di degrado, di sanità, di violenza.
Nelle piccole oasi sahariane rimaste invece si incontrano bambini che giocano nella terra gialla: hanno lo sguardo vivo, imparano il corano in una piccola madrasa locale e se la scuola è troppo lontana la loro scuola diventano i fantastici racconti dei nonni.
Nelle oasi incroci i pastori che addomesticano pecore e capre, ne traggono il latte, il formaggio, le coperte, le maglie. Nelle oasi nessuna macchina (se qualcuna è arrivata quaggiù giace scassata coi fari penzolanti sotto una tettoia di paglia in attesa di un meccanico che non arriverà mai), al loro posto ci sono i carretti, trainati da qualche ossuto asinello.
Nelle oasi sopravvive una società patriarcale con gli uomini che pensano ai lavori, alle (poche) leggi, a salvare l’onore del villaggio nei raccolti, nelle feste e nelle riunioni dei clan. Essi pregano cinque volte al giorno in direzione della Mecca, inginocchiandosi su tappeti dentro piccole moschee, al richiamo lamentoso del muezzin, vestono con lunghi barracani, mantelli di pelo di capra o di cammello avvolti intorno al corpo, che lasciano spiragli dove passano i provvidenziali refoli di vento. In testa un turbante, spesso colorato, a proteggerli da sole, sabbia, vento e anche dal fresco notturno perché l’escursione termica nel Sahara è di quelle importanti. La vita domestica è condotta e sorvegliata dalle donne, quasi sempre velate, con pareu colorati a sconfiggere la loro povertà, la loro vita ritirata e la loro malinconia. I momenti più felici le vedono correre dietro ai bambini, sistemarsi dietro alle pentole o recarsi in visita ai suk dei paesi più vicini. Quello al mercato spesso è l’unico viaggio del mese.

La notte cade su tutti loro, su queste numerose famiglie dimenticate dal mondo, e per loro fortuna è una notte incredibile. Scriveva il francese Frison Roche “Ritrovavano il meraviglioso cielo del Sahara, quel cielo che sembrava aver mantenuto tutta la sua purezza originaria, da cui giungevano scintillanti segnali stellari come messaggi da decifrare”.
…continua
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