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Storie dal Sahara – seconda parte

I colori del deserto

Il blu nel Sahara è uno sfondo nitido e luminoso dove si stagliano tutte le tonalità gialle e ocra della sabbia, delle dune, e quelle rossastre delle rocce e dei rilievi. Puntini di verde sono sparsi nelle oasi e solo negli abiti femminili si scorgono tutti i colori dell’arcobaleno.
Il colore predominante nel grande spazio sahariano è il bianco e il beige degli infiniti erg e poi ci sono i colori filtrati, riflessi, a metà, quelli creati dai giochi di luce e dai meravigliosi tramonti, quelli che un sole torrido e impietoso crea coi suoi effetti ottici nelle ore più calde e quelli più morbidi all’imbrunire.

Il colore predominante nel grande spazio sahariano è il bianco e il beige

Ho avuto la fortuna di passare un paio di giorni ai bordi del Sahara e di assistere a un’alba e a un tramonto sulle dune di Merzouga: là ho visto la sabbia cambiare forma e colore, la duna chiamarmi all’arrampicata emozionante perché non vedi l’ora di conquistarne la sommità, alla scivolata divertente e liberatoria perché in fondo sognavi fin dalla partenza dall’Italia di rotolarne giù, al riposo sdraiato e contemplativo, alla meditazione, all’osservazione del cielo.

C’era il niente. E poi il niente e ancora il niente. Solo la mia Lara accanto. Un silenzio impressionante, qualche impronta di roditore, qualche scia di serpente, il fuoco lontano dell’accampamento e noi uomini e donne piccoli piccoli, a fotografare l’infinito. Forse ha ragione lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun quando dice che “il deserto ha senso solo se ci si prende il tempo per starci”.

assistere a un’alba e a un tramonto sulle dune di Merzouga

Come vive un mercato

I colori ritornano nei mercati perché ai bordi del Sahara le oasi diventano paesini o addirittura piccole città. Costruite con materiali poveri e porte dai colori sgargianti che spezzano la malinconia di certi luoghi, le case hanno forma di cubi, hanno terrazze che guardano le dune e il minareto della moschea e qua sopra si stendono i panni e si seccano i datteri. Proprio intorno alla moschea c’è in genere il settore nobile del mercato, quello che prevede la vendita di libri, gioielli, profumi e stoffe. Poi arrivano i banchi degli alimenti e qui l’esposizione raggiunge livelli estetici altissimi con le piramidi di pani, di arance, le ceste di olive, di datteri, i barattoli colorati di mille spezie.

I colori ritornano nei mercati perché ai bordi del Sahara le oasi diventano paesini

Più lontano dal luogo di culto ecco i rumori e quindi le botteghe artigiane di fabbri e falegnami, di vasai e tessitori. Agli antipodi della moschea, per non profanarla con le cose più sporche e più puzzolenti, si trovano i macelli e le concerie.
Da ogni mercato del deserto si esce con un acquisto, uno scambio o anche solo un ricordo. La cultura del Suk lega da sempre le genti sahariane, di ogni paese, di ogni oasi, di ogni frontiera. Il mercato è un luogo di compere ma anche di incontri, di informazioni, di divertimenti, di servizi sociali, di occasioni di lavoro. A volte è una povera cittadina di tela, nei casi più fortunati una medina coperta, quasi sempre con un dedalo di vicoli e di viuzze tematiche, divise per settori, per mestieri, per odori.
I suk più belli li ho visti a Fès e a Marrakech dove l’Atlante ancora non lascia posto al deserto, il mercato più primitivo l’ho visto a Shalatin, tre ore a sud di Marsa Alam, ai confini col Sudan, dove dei pastori con l’osso nei capelli volevano propormi i classici venti dromedari sdentati per la mia signora che quel giorno aveva un innocente abitino appena sopra il ginocchio ma sembrava una dea provocante scesa in terra, a scatenare inconsapevolmente involontari appetiti ancestrali! E so che mercati ancora più estremi, più tipici, senza stranieri, si trovano all’interno del Sahara algerino, vicino Timbouctù in Mali, persi tra le sabbie disperate della Libia o vicino ai laghi salati del Ciad. Troppi km, troppe distanze, troppi pericoli forse, per cui vi lascio al racconto dei grandi esploratori in questo caso!

Le due città mitiche al sud e al nord del Sahara: Timbouctù e Ghadames

Da sempre sono rivestite da un’aura particolare, quella di “città delle sabbie”. Aspettano ai bordi del deserto i veri viaggiatori, quelli che partono senza il biglietto di ritorno. Il magico triangolo del Sahara è chiuso idealmente dalla città rossa di Marrakech in Marocco (vedi pezzo “Marrakech Express” già pubblicato nel topic “Cultura da viaggio” su www.ilgrilloviaggiante.it, utile anche per approfondire il discorso dei suk grazie all’opera iconica “Le voci di Marrakech di Elias Canetti) ma in questa sede preferiamo dedicare un pensiero di viaggio a Timbouctù in Mali e a Ghadames in Libia. Luoghi da cercare sulle mappe geografiche, luoghi da raggiungere prima o poi.

Timbouctù è “la capitale del Nulla”, un ex caravanserraglio del Sahara, raggiunto da pochi Tour Operators, da pochissime agenzie di viaggio. “Dove termina la carta geografica del mondo, laggiù comincia quella di Timbouctù” scriveva il newyorchese Paul Auster attratto evidentemente dal passato remoto di questo luogo. Quali sono le ragioni del suo mito? “Sarà la particolare musicalità del nome, quella U finale che rimane nell’aria come un’eco carica di promesse, la stessa che aleggia nel pronunciare un altro luogo di cui chi ha il sacro fuoco del viaggio non può fare a meno, Katmandù”? (Jasmina Trifoni, “Meridiani-Sahara”).
Timbouctù è un luogo reale o mentale per dirla con Chatwin?

Col mio viaggio personale direzione-Sahara sono arrivato al massimo a Zagora, la sua porta d’ingresso dal sud del Marocco, quindi Timbouctù non l’ho raggiunta, lo confesso, mi sono fermato a quel cartello che la indica a 52 Jours, considerando come unità di tempo le distanze percorse dalle carovane dei dromedari e dei nomadi! Però ho voluto almeno un po’ studiarla e sognarla, perché la sua U mi è rimasta in gola e nel cuore.

Le guide ne parlano come di una frontiera nella sabbia, dove la sabbia entra nella bocca e nei pensieri della gente. Dove muove un vento caldo e strano, che non piace neppure alle mosche. Un non-luogo, sonnolento, disordinato, polveroso, senza più la gloria o i tesori dei tempi passati. Case di argilla, poche attività, moschee chiuse, pochi forni e botteghe aperte. Dove una volta passavano i mercanti, le spezie, gli ori e mille commerci, ora c’è soltanto il deserto gigante che incombe.
La fantasia resta agganciata alle sue case-torri, che sembrano uscite da un libro di favole e che mettono in mostra tutta la bellezza e la fragilità dell’argilla.
Ancora più a sud varrebbe la pena di raggiungere la falesia degli spiriti di Bandiagara, patrimonio naturale e culturale dell’Unesco e regno dei Dogon, “il popolo delle parole”. Qui si viene a contatto col Mali più profondo e primitivo, “qui ogni sasso, ogni baobab, ogni animale ha poteri magici. Tutto qui ha un’anima” (sempre Jasmina Trifoni).

Lungo i 150 km di questa falesia che separa l’arido Sahel dalla piana del Niger vive un popolo studiato dai migliori antropologi moderni come Griaule e Salza, i Dogon. Alcuni loro villaggi sembrano quelli americani degli indiani Anasazi.
Arrampicati sulle rocce, vicino a grotte che fungono da sepolcri e che si raggiungono solo con corde di fibra di baobab, le stesse grotte dove sono stati trovati manufatti di statuine antropomorfe vendute insieme alle straordinarie maschere rituali e funerarie nei migliori negozi di antiquariato di New York o di Amsterdam (e i loro autori non sanno nulla di questo successo…) i Dogon “collocavano la realtà in una fittissima rete sistemica di relazioni tra miti, astronomia, linguistica, ecologia, semi e parole, terra e stelle” (Alberto Salza). E mantengono intatto il loro volto misterioso.

Un popolo governato ancora oggi dagli stregoni, dagli hogon che vivono isolati e che sono ascoltati come un oracolo. Un popolo che vive nei tipici villaggi africani di paglia e fango, circondati da sabbia e sterpaglie, dove il mercato di birra e farina di miglio, di polli e cipolle, arriva ogni 5 giorni e dove ogni 60 anni nella “Festa del Sigi” che inaugura un nuovo ciclo di vita vengono costruite le maschere più belle, più intense, più inquietanti. Invidio davvero chi è riuscito a dormire sulle terrazze dei loro villaggi, a guardare le stelle, in cima alla mistica rupe che ricorda un passato tanto tragico: “durante la siccità le madri buttavano i figli piccoli dalla cima della falesia, perché era meglio diventare spirito così che morire di fame e di sete” (Jasmine Trifoni, “Meridani-Sahara”).

Infine l’ultimo nostro viaggio immaginario e letterario raggiunge “La città delle sette porte”, la vecchia oasi di Gadhamès, ben 600 km a sud dalla martoriata Tripoli, posta ai confini tra Libia e Algeria, dove le dune del Sahara a leggere le varie cronache cominciano a diventare troppo alte per le semplici passeggiate al tramonto. Dove sono rimaste meravigliose palme da dattero, “altissime, superbe, generatrici d’ombra, di frutti, di vita”.
Gadhames anch’essa patrimonio Unesco, un labirinto magico, una tappa obbligata una volta per le carovane che dal deserto africano portavano sul Mediterraneo oro e avorio, spezie, tessuti e anche schiavi purtroppo.

L’incanto segreto di Ghadamès secondo il giornalista Renzo Bassi risiede nel suo nucleo storico, fatto di ruderi, viottoli blu, piazzette luminose, porte colorate, umili case decorate all’esterno con motivi arabeggianti e “l’accesso alle terrazze e ai tetti dove trionfano il bianco della calce e l’azzurro del cielo. Collegate tra loro, danno vita a una vera e propria città sopraelevata, regno delle donne e dei bambini”.

Breve elegia del dromedario

Che animale fantastico. E fedele. E robusto. E instancabile. Per noi viaggiatori e turisti ha spesso il valore di una passeggiata, di un souvenir, di una cartolina. In effetti ho riso tante volte quando ballavo sopra le sue gobbe, nella vicina Lanzarote o in mezzo al Sinai. Ma per i nativi il dromedario è un compagno di vita a dir poco essenziale, più utile degli animali domestici per i viaggi, perché sa percorrere fino a 160 km al giorno, anche a velocità di 70 km orari! Più familiare degli stormi di uccelli migratori che svernano ogni anno nel Sahara, più sacro di uno scarabeo o di uno scorpione, più amico degli sciacalli e delle volpi del deserto, veloce quasi come un’antilope o una gazzella o un’orice, gli altri abitanti di queste latitudini, che però appunto non sono cavalcabili, non sono come loro delle coraggiose navi sulle onde di dune! (frase ripetuta da ogni beduino, ebbene si!)

Breve elegia del dromedario. Che animale fantastico. E fedele. E robusto. E instancabile.

Il dromedario viene impiegato ancora oggi per trasportare sale, datteri, merci, ha il collo lungo per raggiungere le foglie più alte e gli arbusti più bassi, ha le zampe solidissime per non affondare nelle sabbie, ma il suo miracolo “economico ed energetico” lo compie trasformando i grassi contenuti nella sua gobba in liquidi di nutrimento che azionano a mille il suo motore. In genere 1 kg di grasso corrisponde a 1 litro d’acqua. E per dieta gli basta qualche erbaccia e il foraggio che trova nelle oasi. Se poi pensiamo che durante le tempeste di sabbia i nomadi e i tuareg si riparano dietro al suo corpo, il ritratto di animale fedelissimo e utilissimo è davvero completo!

Il Sahara ha forme d’arte

Si, è vero, anche in un universo di sabbia l’arte non manca.

Tremila anni prima di Cristo gli uomini che vivevano qui lasciarono delle pitture rupestri (“la galleria d’arte di quelli di prima” secondo Laurent, “se diamo credito ai disegni, possiamo esser certi che un tempo nella regione abitavano giraffe, ippopotami e rinoceronti” secondo Bowles) e sotto le dune si trovano ancora oggi utensili e reperti, punte di frecce, armi primordiali, frammenti di roccia usati per levigare, resti di ossa di animali, vasi di tante forme.

Poi è quasi inutile ricordare la grandissima epoca dei faraoni egizi, dei loro tesori, dei loro templi. Seguirono i manufatti trasportati sulle vie carovaniere, in alcuni casi gioielli anche preziosi, ma più spesso i veri tesori derivavano da prodotti più semplici e da materie prime, come il thè e le spezie.

Nei tempi moderni in tutto il continente sahariano è fiorita la forma d’arte dei murales, le pitture improvvisate sui muri delle case e sulle pietre del deserto che secondo gli autori del libro “Sahara” costituiscono l’ideale elemento di continuità con le antichissime pitture primitive ritrovate nelle grotte. Il tema dei murales è per eccellenza uno, quello del mirabolante viaggio alla Mecca, probabilmente l’episodio più significativo nella vita dei figli dell’Islam. E uno dei 5 pilastri e valori fondativi su cui si fonda proprio l’obbedienza alla religione islamica.

In queste umili opere spicca il senso di purificazione e di disciplina che il grande viaggio trasmette, che ha sempre trasmesso, dal grande esploratore marocchino Ibn Battuta in poi (nel XV sec. quest’uomo, anche definito il Marco Polo arabo, visitò tutti i paesi e i territori musulmani!). Fa davvero effetto vedere sui muri screpolati di povere case scene dipinte con cammelli e navi, bus e aerei, che si avvicinano o sorvolano il sacro minareto e la pietra nera della Kaaba. E’ l’orgoglio degli abitanti del Sahara che si mette in mostra: tutto il villaggio, tutti i parenti e tutti i passanti devono sapere che l’autore del graffito o il proprietario della casa ha viaggiato fino alla Mecca. E quali meraviglie ha conosciuto. E quale grande fede ha incontrato e servito.

Le varianti sul tema murales sono la mano di Fatima che assicura protezione alle dimore o ai bar e immagini di paesaggi verdi con laghetti che forse sono ritratti così spesso perché la loro veduta fa passare la sete negli spazi assolati del deserto!
L’-Aid è la parola araba che sta a indicare le feste familiari o religiose celebrate nel Sahara. Siano esse la circoncisione dei ragazzini, il ritorno dalla Mecca, i pellegrinaggi sulle tombe dei Mussim, gli adoratissimi santi locali, oppure i meravigliosi matrimoni berberi o di altre etnie e tribù. Specie in queste quattro occasioni ogni Festa si consuma tra banchetti di cous cous, fumate di narghilè, danze e musiche locali, tatuaggi con l’hennè. I più vecchi tramandano ancora oralmente favole che sembrano uscite dalle “Mille e una Notte” o dalle avventure di “Sinbad il Marinaio”. Insomma il deserto ha un grande cuore e un grande impianto di folklore, autentico, sentito, genuino. Pensava anche a questo Alberto Moravia nelle sue “Lettere dal Sahara” quando scriveva “il deserto che è sinonimo di morte riesce in qualche modo a ispirarmi un’impressione di vita”?

La folle corsa nel Sahara

E’ la gara delle gare, la sfida dei pazzi, degli intrepidi, delle moto più agili e potenti, dei camion più robusti e truccati, dei fuoristrada più tecnici e modificati. Un trionfo di gps geniali e di parti meccaniche rinforzate per sopportare il gran caldo e tutte le sollecitazioni del terreno. La chiamano la corsa bella e dannata, quella che si decide di compiere in risposta a un bisogno assoluto di sfida e di estremo: è la Parigi-Dakar o più confidenzialmente nota come “la Dakar”.

è la Parigi-Dakar o più confidenzialmente nota come “la Dakar”

Dal 1979, data della prima edizione del Rally, fino ad oggi si è mangiata in modo brutale e impietoso 75 vite, alla media di quasi 2 l’anno, cioè significa che ogni anno che ricomincia il circo, sempre più caotico, con sempre più sponsor, con sempre più sfide, due cristiani ci lasciano la pelle, tra guidatori super esperti e navigatori quasi sempre infallibili, spettatori imprudenti e giornalisti scapestrati, nomadi investiti sul bordo delle piste, in una sequela impressionante di colli spezzati, incidenti sulle dune, capitomboli, smarrimenti nel deserto e relative atroci sofferenze di caldo, di freddo, di sete. Addirittura si muore a causa di elicotteri da ripresa televisiva e da soccorso caduti durante le tempeste di sabbia o per spari casuali di bande di ribelli.

Il nostro Meoni, vincitore nel 2001 e nel 2002 pagò il suo conto al deserto nel 2005, per un infarto successivo a una terribile caduta. Una maledizione insomma, una sorta di “cuore di tenebra” e di vendetta del deserto. Una lunga scia di sangue, che ha colpito pure il suo fondatore Thierry Sabine, precipitato col suo elicottero. Eppure una attrazione infinita, che nonostante gli sconfinamenti e le deviazioni in altri paesi ha sempre avuto il suo culmine sulle altissime e pericolosissime dune della Mauritania e del Mali. Quelle più attese e temute soprattutto dai motociclisti, che guidano il triste elenco dei morti nel Sahara.
Una volta la mitica corsa, della durata media di 10.000 km di cui molti sulle sabbie, ha raggiunto addirittura Cape Town in Sudafrica; nell’edizione del 1982 fu forte l’eco del figlio della Thatcher smarritosi nelle sabbie e ritrovato solo grazie all’aviazione militare algerina; dal 2009 per le minacce terroristiche la gara si è spostata nel Sudamerica, conservando il nome di Dakar. Il recordman è il francese Stephane Peterhansel con 13 vittorie, la casa con più trionfi, 20, la Yamaha, il camionista più volte primo il russo Chagin. “Per arrivare primo, devi per prima cosa finire la gara” – si dice ai bivacchi serali nel Sahara…

Per un finale

Abbiamo fino adesso “scoperto” il deserto in sole alcune delle sue mille sfumature, quasi dimenticandoci di ricordare, perché l’immagine della sabbia ricopre tutto e il vento idealmente stordisce anche me, che i paesi costieri come il Marocco, la Tunisia e l’Egitto grazie al clima, all’agricoltura e al turismo vivono tutto sommato in buone condizioni, che l’Algeria oltre ad ospitare nel suo territorio i massicci montuosi e le pitture rupestri più affascinanti è il quinto paese al mondo per i giacimenti di gas naturali e che la Libia, oggi dilaniata da guerre tribali e tratta dei profughi, è l’ottavo paese al mondo per la presenza di petrolio. Che il poverissimo Niger possiede in abbondanza sale, fosfati e carbone ma non riesce a distaccarsi da modelli di vita primitivi, che il Mali, la Mauritania, il Ciad e il Sudan sono posti drammatici e bollenti, col 60% di analfabeti, più piste di strade, bassissima densità demografica, problemi evidenti e irrisolti di terrorismo e denutrizione. Che il Sahara oltre ai suoi vuoti ha anche enormi ricchezze e miniere e gas ma non le sa sfruttare o le sfruttano solo le potenze europee, Francia in testa.

Dopo tutto quello che ho letto, sognato, imparato, mi resta una certezza almeno, quella espressa da Pierre Loti nel lontano 1894, un po’ nichilista certamente, ma anche una formidabile difesa da ogni mediocrità: “L’immensità del deserto sovrasta tutto, ingrandisce tutto e, in sua presenza, la meschinità degli esseri si dimentica”.
O quella più umanistica, psicologica e sentimentale di Paul Bowles che vede nel Sahara il battesimo della solitudine: “In questo paesaggio puramente minerale rischiarato dalle stelle, come da razzi, persino la memoria scompare; non resta nient’altro che il vostro stesso respiro e il battito del vostro cuore”. E ancora: “Perché andarci? La risposta è che una volta che un uomo è stato là e ha vissuto il battesimo della solitudine non può farne a meno. Una volta preda dell’incantesimo dello sconfinato, luminoso, muto paese, nessun altro luogo è per lui abbastanza intenso, nessun altro paesaggio può fornirgli la sensazione estremamente appagante di esistere nel mezzo di qualcosa di assoluto. Ci tornerà, a costo di qualunque spesa e di qualunque disagio, poiché l’assoluto non ha prezzo”.

L’invito è chiarissimo, mollo appunti, mappe, riviste, vecchie e nuove fotografie, mi schiodo dalla lettura del volume monografico del Touring Club Italiano “Le Vie del Mondo-Sahara” dedicato a tutti i cacciatori di miraggi che ci sono stati, mi inchino davanti agli studi dell’antropologo italiano Alberto Salza, alle biografie degli esploratori francesi, inglesi e tedeschi di fine ‘800 e primo ’900, ai Lyon, ai Cailliè giunti per primi a Timbouctù, ai Flatters finiti vittime di imboscate dei Tuareg, ai Barth che percorsero 16.000 km africani a piedi o sul cammello, agli italiani che nel 1911 arrivarono nel Fezzan e nel Tibesti libico, ai Rohlfs che passarono 15 anni nel deserto, ai Thesiger che divennero nomadi loro stessi. E vado a rivedermi “Il Tè nel deserto” di Bernardo Bertolucci, ispirato dal celebre romanzo di Paul Bowles, per provarne ancora una volta l’effetto catartico possibile in quell’esotico altrove. Un libro e un film dove il topos dell’errare significa sia viaggiare che sbagliare e dove le uniche verità che restano in piedi sono quelle legate al fascino immutabile del deserto e alla sensualità vitale e primitiva degli uomini blu.

Anche nelle sabbia, il Mal d’Africa.

provarne ancora una volta l’effetto catartico possibile in quell’esotico altrove
*Copyright

Vi consiglio questo link per emozionarvi con le musiche e le la fotografia del film: sotto “il cielo protettore” tutto sembra senza limite.

“Il Tè nel deserto” di Bernardo Bertolucci, ispirato dal celebre romanzo di Paul Bowles
*Copyright

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