Se un fiume racconta
Un grande fiume sa raccontare grandi storie. Basta cercarle, basta ascoltarle, seguendo il suo lungo corso, il suo fluire fangoso. Storie di fatiche e di talenti, di uomini e di città, di musica che nasce nelle piantagioni e di letteratura che nasce sulle sponde o sulle zattere. Storie di guerre fra fratelli e di dolorosa schiavitù, storie di speranza e di riscatto. Epopee di battelli a vapore che navigano da secoli, nello scenario di una natura selvaggia.

Storie inquietanti di odiatori incappucciati, di fragili eroi del rock e di artisti sublimi con la tromba. Storie di ponti, di magazzini, di campi di cotone, storie di note che nascono e che muoiono nelle atmosfere fumose dei Club. Avventure di ragazzini che sognano il vagabondaggio e di vagabondi che cercano a loro volta una qualsiasi meta o ispirazione. E non di rado le storie sono anche quelle che diventano episodi disastrosi, dovuti alla furia degli uragani che hanno lasciato scoperti solo i tetti delle case e le cime degli alberi.
Il Mississippi è capace di evocare tutto questo e nel contempo di unire e dividere l’America e forse di farla capire un po’ meglio.

La geografia del Mississipi
“Il Padre delle Acque”, così chiamato dai nativi indiani, coi suoi 3734 Km di lunghezza (5970 se gli si aggiungono quelli del suo principale affluente, il Missouri) è il quarto fiume del pianeta dopo Nilo, il Rio delle Amazzoni e il Fiume Azzurro in Cina, ma impressiona anche per il suo immenso bacino idrografico che arriva a bagnare grandissime porzioni di continente nord-americano. E a segnare lo sviluppo della sua geografia, visto che attraversa una decina di stati, della sua agricoltura, visto che rende fertili le grandi pianure centrali piene di cereali e frutteti, della sua storia, visto che nei suoi pressi si combatterono sanguinose battaglie della Guerra Civile e degli stermini indiani, della sua arte, visto che in città come Memphis e New Orleans sono nati generi musicali come il rock, il ragtime, il blues e il jazz.
Una goccia di pioggia che cade nel Lago Itasca, situato nel Minnesota, si è calcolato che abbia bisogno di tre mesi per sfociare nel Golfo del Messico, attraversando diversi ecosistemi come gli azzurri laghi di montagna e le impetuose cascate, le nude montagne rocciose e le pianure feconde, le savane e le foreste, le grandi praterie della pancia del paese, le piantagioni di cotone e di zucchero dove echeggiano ancora i canti degli schiavi e dove sono rimaste le sagome arrugginite dei silos e dei granai.
Lungo il corso del fiume si scorgono tante anse solitarie, tantissimi affluenti che arrivano ovunque, isolotti di sabbia, tronchi alla deriva. E ovunque fango, tanto fango, da colorare l’acqua di marrone. Più avanti “The Big Muddy” (il “grande corso d’acqua fangoso”) finisce in un delta acquitrinoso, appiccicoso, a tratti malsano, dove in estate intorno al paesaggio paludoso creato dal Mississippi c’è un clima bollente e un’umidità dell’80% che dà fastidio pure alle zanzare e agli alligatori.

Storie di villaggi e di battelli
Il saggista Hochheimer nel suo pezzo “Il Padre dei fiumi” narra benissimo la civiltà nata sulle sponde del Mississippi. In origine si trattava di piccole città addormentate, nate a inizio ‘800 sulle sponde più fertili e temperate, con le loro main street costeggiate da edifici coi mattoni rossi e in fondo al corso la locanda per bere e per giocare e il monumento col cannone che a seconda dei tempi ha sempre ricordato le vittime, quei numerosi abitanti del fiume morti durante la Guerra Civile o le due Guerre Mondiali. Fuori i nuclei urbani la quiete delle pianure e delle colline, tante campagne tutte uguali coltivate da rudi farmers che spesso si riposavano nelle loro verande sul fiume, su sedie a dondolo e sotto grandi ventilatori a pale. L’unico evento speciale in tanta monotonia era costituito sicuramente dalla fugace apparizione dei lenti battelli a vapore che arrivavano col loro fischio, con le loro pale, coi fuochisti neri con le mani e il viso sporchi di carbone, che scaricavano beni e merci, persone e animali, e via ripartivano per il prossimo approdo. Hochheimer li chiama in modo affettuoso “candidi palazzi fluviali” e “tronchi della nazione”: i battelli portavano, dove quasi non c’erano, forme di vita e vitalità, una grande confusione, una grande allegria. Allora si poteva chiamare anche civiltà.

Quante storie si ricordano su quei viaggi, su quei commerci, su quei saloni eleganti, su quelle caldaie pericolose che spesso causavano rovinosi incendi. Quante avventure tra secche, urti di grandi tronchi sommersi, incidenti, assalti di indiani e di pirati e di alligatori. E le gare di corsa. E l’epica dei saloon a bordo, con le dame vestite bene e i giocatori di poker, le ammirate cantanti e le troupes di artisti, il teatro e il casinò, i balli e gli show, i candelabri d’argento sulle tavole imbandite, le cabine lussuose, i mogani e gli stucchi usati nell’arredamento. Tante atmosfere ritornano negli episodi di Tex Willer, che andrebbero protetti come un’elegia del vecchio fiume perduto. Per non parlare degli abili piloti, che dovevano conoscere ogni corrente, ogni pericolo, ogni ansa, ogni approdo e ogni ostacolo.

I commerci sul fiume
Dove passava il Mississippi crebbero sempre forme di vita basate sui viaggi sul fiume, sui commerci sul fiume. E barcaioli, furfanti, pescatori, contrabbandieri, portavano merci e altro dal fiume grande ai fiumi piccoli, facendo nascere o sopravvivere villaggi dentro i canali, dentro le foreste e le più remote paludi. Alcune chiatte, alcune grandi zattere guidate da ogni sorta di avventurieri erano dei veri e propri empori e quando non consegnavano fucili o whisky alle tribù dei pellerossa, trasportavano legname, cibo, bestie, sacchi di cotone, di tabacco, di zucchero. I mobili per le capanne, i primi elettrodomestici, i libri per studiare, le cantanti per le bettole, le signorine per i bordelli: tutto arrivava grazie al fiume. E tutto si trasformava in un microcosmo brulicante di umanità.
Gli indiani sul fiume
Prima o poi doveva avvenire lo scontro, anche qui. Nei territori freddi del nord, nel west polveroso, infine lungo il grande fiume: coloni bianchi e indiani nativi entravano ovviamente e pericolosamente a contatto. Dalla parte dei bianchi è facile ricostruire le storie degli indiani del fiume: con le tipiche semplificazioni di chi arriva per distruggere e conquistare i Sioux venivano giudicati ladri, sleali e sanguinari, mentre i Pawnee più amici, più morbidi, più “addomesticabili”.
Per Hochheimer tra bianchi e pellerossa c’erano ammirazione e disprezzo, gli indiani subivano il fascio di armi e bottiglie, erano affascinati da cose moderne, mai viste prime, “erano attirati dal lato tecnico-organizzativo, i bianchi invece lo erano dalla selvaggia grandiosità di una vita della natura, nella vastità e libertà di uno smisurato mondo nuovo”. E per prenderselo dovevano prendersi tutto, condannando tante tribù a un misero declino. I pionieri del fiume, molti degli emigrati di domani, a volte si imposero in modo prepotente e violento. Per ricominciare loro, fecero estinguere gli altri.

Il canto funebre di Falco Nero
Il grande capo Falco Nero, un uomo carismatico, dolce e pieno di coraggio, assistette al tradimento e all’eccidio del suo popolo. Le acque del Mississippi, nel tratto del Wisconsin, si colorarono del sangue dei bambini e delle squaw sgozzate dai soldati bianchi in preda al delirio. Restano le pagine del suo dignitoso lamento: “Si può sapere che diritto poteva vantare questa gente sul nostro villaggio e sui campi che il Grande Spirito ci aveva dato perché noi ci vivessimo? La ragione mi dice che la terra non si può vendere… Un reparto di bianchi, avanguardia dell’esercito, sorpresero i nostri che tentavano di passare il Mississippi. I nostri vollero arrendersi ma i bianchi cominciarono sistematicamente a sgozzarli. Le donne si gettarono nella corrente del fiume coi piccoli in dorso, tentando di raggiungere l’altra sponda, ma prima che giungessero dall’altra parte, parecchie di loro annegarono e altre furono uccise a fucilate”. Come in altri parti d’America non si riescono neppure a contare gli Indiani morti durante la colonizzazione bianca: alla foce del Mississippi, dalle parti di Pascagoula, una leggenda indiana racconta che le acque del fiume in quel punto cantano, poco prima di incontrare il mare, ricordando il canto funebre di tanti indiani che preferirono farsi morire piuttosto che farsi conquistare.
Mark Twain, un nome del fiume
Lo scrittore de “Le avventure di Tom Sayer” e “Le avventure di Hucklberry Finn”, Samuel Langhorne Clemens, si scelse questo pseudonimo, derivante da un grido dei marinai dei battelli fluviali che durante la navigazione si sentiva spesso: “Maaark Twain” –“Due braccia di profondità (3 ,60 metri)”, quella che era reputata necessaria per un viaggio tranquillo.
Il Mississippi fu sicuramente lo scenario letterario preferito di Twain, il fiume delle avventure che scorreva lento e maestoso, dove il ragazzo Huck viaggiava sopra una zattera, in mezzo a una natura autentica, stupendosi della vista dei cieli notturni, dei violenti temporali, dei salici piangenti, delle verande malinconiche sulle sponde, degli eleganti battelli o dei loro relitti, rubando la frutta dagli alberi, sdraiandosi in mezzo all’erba alta, a fumare la pipa e a sognare da ribelle.

Il libro è la descrizione di questi vagabondaggi:
“Mi trovo un buon posto tra le foglie e mi siedo su un tronco, masticando il pane e guardando il battello, molto soddisfatto…” – “Peschiamo e chiacchieriamo e ogni tanto facciamo una nuotata per scacciare il sonno. Era bellissimo andare giù per il fiume grande e quieto, sdraiati sulla schiena a guardare le stelle” – “La quinta notte siamo passati davanti a St. Louis ed era come se la notte era diventata giorno” (ecco il richiamo alle luci sfavillanti della vita).
“Beh, nel pieno della notte, in mezzo alla tempesta, con quell’aria di mistero, mi sentivo come si sarebbe sentito qualunque altro ragazzo a vedere quel relitto triste e abbandonato nel fiume, volevo andarci a bordo e curiosare un po’…” (ecco il brivido dell’avventura).
Per Twain imbarcarsi su un battello da marinaio verso New Orleans fu la realizzazione del suo sogno da bambino oltre che una vera scuola di vita:
“Sulla terra ferma ci vogliono 40 anni per conoscere tanti tipi umani; a me in nave bastarono i due anni e mezzo di apprendistato… Quell’addestramento mi ha consentito di conoscere praticamente tutti i tipi umani che si ritrovano nei romanzi, nelle biografie, e nei libri di storia” (da “Vita sul Mississipi”, 1885, sua opera autobiografica).
Da qui trasse davvero il suo mondo che fece di lui, per un mostro sacro come William Faulkner, “il primo vero scrittore statunitense”.
(continua… vedi seconda parte nel Topic “Album”)
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