La regina dei gitani
Saint Maries de la Mer ti aspetta sul mare della Camargue, dopo stagni come quello di Vaccares abitati da fenicotteri, anatre, aironi e mille specie di uccelli, cavalli selvaggi e carrozzoni colorati di gitani. Ha un centro piccolo e poetico, di case bianche e basse raccolte intorno alla sua chiesa-fortezza. Tutte intorno le saline, le riserve ornitologiche, le paludi piene di zanzare, le spiagge sabbiose ed erbose, le infinite distese silenziose del Delta del Rodano.

“Un regno meticcio di acque dolci, salate e salmastre” secondo la felice definizione del giornalista Ivo Franchi (“Meridiani-Provenza”), un pezzetto di paesaggio provenzale tanto simile a quelli che ho avuto già la fortuna di visitare nel sud andaluso, nel Parco del Coto Donana.
Il paese è famoso oltre che per la sua natura e per la sua cucina di mare (coda di rospo, vongole e telline, piatti enormi di crostacei) per la sua fortissima cultura gitana, così folkloristica, così piena di riti e suggestioni esoteriche.
La festa più importante cade ogni anno tra il 24 e il 25 maggio e celebra le reliquie delle Sante Marie e della loro serva gitana originaria dell’Alto Egitto, la nera Sara (ovviamente mai ritenuta santa dalla chiesa ufficiale…), arrivate qui nel 48 dopo Cristo in barca con Maria Maddalena, Lazzaro e altri seguaci di Gesù fuggiti da Gerusalemme.

Ma perché quella barca dopo cinque tribolati anni arrivò su queste sponde? Perché nel delta paludoso del Rodano era sorto un villaggio-fortezza dove gli abitanti adoravano Ra, il dio egizio e forse Sara per qualche misterioso motivo lo sapeva.
Le Marie, Lazzaro e gli altri che avevano visto Cristo morto e risorto si separarono una volta giunti nella Gallia romana, a predicare sui monti, nelle attuali Marsiglia, Arles, Aix o proprio qui, nel borgo sul mare. E quando le anziane Jacoba e Salomè morirono furono qui sepolte.
Pare che si succedettero vari miracoli e che anche l’assalto degli Ugonotti al villaggio nel 1576 fallì per la protezione delle Sante, le cui reliquie però non sopravvissero un paio di secoli dopo al fervore laico della Rivoluzione Francese.
Nel 1838 la cittadina assunse definitivamente il nome di Saint Maries de la Mer e ripresero i pellegrinaggi alla chiesa-fortezza, stavolta dedicati anche all’umile Sara, eletta regina delle comunità gitane che intanto si erano trasferite nel sud della Francia.

Negli intensi giorni del rito le immagini, gli abiti colorati, i gioielli sfarzosi e le processioni solenni ricordano molto da vicino quelle vissute nel pellegrinaggio dei gitani andalusi al Rocìo. Ci sono anche i tori neri a comporre il paesaggio simile a quello spagnolo, tori che ritrovi anche a tavola sotto forma di spezzatino, salsiccia, salame, bistecca, accompagnati dal riso della Camargue e da un bicchiere di vino grigio (un rosè molto chiaro) o di birra di riso. Mentre le facce, i mestieri e l’amore dei cavalli degli abitanti ricordano il nostro mondo dei butteri della Maremma toscana.
Nell’aria dolce di primavera di Saint Marie va in scena l’ardore della passione e del flamenco, nelle sue strade il pellegrinaggio in onore della vergine gitana, la patrona nera vestita di pizzo bianco e mantelli colorati, ingioiellata, adorata, esibita, scortata fino al mare dai Gardiens a cavallo.
Tra la folla appaiono stendardi dove si leggono nomi poetici come quello di “Gens du voyage”, a rimarcare un’origine, un destino, una dimensione nomade.
I componenti delle etnie rom, sinti e manouche suonano abilmente violini e chitarre, i bambini vengono battezzati, tra banchetti e balli si risolvono controversie e si chiudono affari. E quando appare qualche vecchio e ormai raro carrozzone colorato la magia diventa completa.

Indubbiamente il momento topico della festa dopo l’invasione di migliaia di camper, rimorchi e roulottes, dopo le messe e dopo i canti, dopo le veglie e la benedizione dei reliquiari, dopo le sfilate di stravaganti costumi colorati e dopo le feste accompagnate dalla musica di Manita de Plata o dei Reyes (la costola camarghese dei celebri Gipsy Kings), è l’arrivo di tutti i fedeli al mare con la barca con sopra le statue delle sante che cerca il battesimo dell’acqua.
Per rivivere alcune di queste atmosfere ecco un mix del chitarrista gitano preso da you tube:
Le spiagge di Saint Marie
Piccole e grandi, libere e attrezzate, molto adatte per imparare a nuotare o per andare a vela.
Alla foce del grande Rodano la più spettacolare, la Plage de Piemansòn, collegata alla cittadina da una specie di lunga diga nel mare, una pista sabbiosa percorribile in bicicletta che regala agli occhi la vista di stagni, saline e fenicotteri, molto romantici sullo sfondo dei colori del tramonto.

Ovunque molto evidente, l’instancabile e fruttuoso lavoro dell’uomo, che si è sempre impegnato al massimo con la costruzione di dighe, frangiflutti e canali, con l’istituzione di aree faunistiche e riserve naturali a salvare la terra dal mare e a creare e proteggere un ecosistema delicato e prezioso.
Terra e acqua in Camargue, acqua e terra, a rendere misto, fragile e bellissimo questo paesaggio.
Quello del Rodano rappresenta il più grande delta fluviale dell’Europa occidentale, pieno di risaie e di fenicotteri, di specie di uccelli, di magnifici cavalli e tori, di piante come la salicornia, la lavanda di mare, la canna di provenza, la tamerice, il giglio di mare, tutte abituate a vivere e a crescere in acque salmastre.
E alla fine le spiagge, spesso deserte, ventose, assolutamente vuote.
Da meritarsi, da scovare, da trattenere in fondo all’anima nella galleria dei luoghi più speciali che esistono.

Anarchia in Camargue
A una mezz’oretta da Saint Marie, alla fine di un sentiero dissestato che sfida l’orografia della Camargue, bisogna raggiungere assolutamente il piccolo villaggio di Beauduc, un luogo particolare, unico e direi stravagante.
Il paesaggio che circonda Beauduc è in balia degli elementi: il verde, il mare, le dune, il vento.
Quando arrivi vedi che non si tratta di un paese in verità ma di qualcos’altro che assomiglia di più a un accampamento, con capanne di pescatori e vecchie roulottes, vagoni e autobus ormai dismessi e usati come rifugi, ferraglie varie e tanta aria di provvisorietà.
Negli anni ’50 questo posto cominciò a essere amato, a diventare alla moda, a diventare un esempio di vacanza proletaria, di vita alternativa e di architettura spontanea e popolare. Ovviamente poi cercata anche dai vip, soprattutto negli anni ’90, perché abbellire la facciata di una modesta capanna con una rete da pesca o un relitto restituito dal mare dopo l’ultima tempesta fa tanto chic.

La gente qua cresceva totalmente anarchica e libera e glielo vedi ancora oggi scritto negli occhi che non hanno bisogno di niente se non di questo angolo sperduto della Camargue, così poeticamente alternativo. I nativi o quelli che vi sono rifugiati ancora pescano telline e vongole, vivono all’aperto, in comunità, dipingono magari o coltivano ortaggi o vanno per mare come bucanieri, quasi sempre ai bordi della vita comune, della vita moderna. Li hanno visitati attori e modelle e hanno vissuto anche un periodo difficile nel 2004, quando la gendarmeria locale ha raso al suolo parecchie capanne abusive, pretendendo più ordine, più controllo e più decoro. Nel nostro passaggio la sensazione di una Beauduc con qualche malinconia, ma comunque pronta a rinascere, con gli artisti, coi surfisti. Le vele variopinte parlano ancora di natura e libertà. I contadini a cavallo rappresentano l’indomita fierezza.

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