Quanto soffia forte
Cominciamo dal vento. Anche perché una zona di frontiera spesso si associa all’idea del vento: che percorre i suoi spazi aperti, che porta gli influssi di altri paesi, altre culture, altri popoli. Che scuote violentemente le fronde degli alberi e si incanala nelle spelonche carsiche per arrivare a terra e sul mare con tutta la sua forza primitiva. Il vento di Trieste è parte della sua anima e del suo paesaggio, è quello che fa tirare fuori i cappotti più spesso che in altre località, è quello che fa uscire migliaia di barche a vela in una regata che sembra una processione, è lo stesso che fa volare i cappelli, i giornali, a volte anche gli occhiali o i bambini troppo leggeri! E’ quel vicino di casa amato e temuto dai vecchi della città, che si aggrappano gracili alle corde quando camminano sui moli.

La bora nella scienza e nel mito
La bora triestina viene definito dai manuali scientifici un vento catabatico cioè “di caduta”, perché costruito dalle masse d’aria fredda che per azione di gravità scendono dall’altopiano del Carso il quale presenta un’orografia complessa di valli, burroni, grotte, cavità sotterranee dove il vento fischia spesso e si infila volentieri. Si chiama così secondo la leggenda, perché Bora era una delle figlie di Eolo nella mitologia greca e personificava il vento del nord. La fanciulla, in uno dei vagabondaggi compiuti col padre-dio, capitò su un verde altopiano (“come le piaceva scombussolare le nuvole, spettinare gli alberi e far danzare le foglie” dal sito “Girovagando in fvg”) e si innamorò dell’umano eroe Tergesteo, fuggendo con lui. Eolo informato da un cirro brontolone uccise per gelosia l’argonauta appena tornato dall’impresa del Vello d’Oro, scagliandolo più volte contro una grotta e le lacrime di strazio della figlia si trasformarono nelle migliaia di pietre che originarono il Carso. Mosso a pietà il padre le permise di rivivere pochi giorni l’anno col suo amato ma i suoi lamenti rimasero tra gli alberi, nell’aria, ed erano quei moti irregolari, a raffiche, che diedero il nome al vento di Trieste. E l’etimologia stessa di Trieste deriva dal nome dello sfortunato amante di Bora.

La bora è energia
Dalla scienza e dal mito alla realtà: quando nella media dei suoi 17 giorni l’anno, specie durante l’inverno, la bora da nord-est soffia sferzante e tesa su Trieste, raggiunge la velocità anche di 130 km orari. Le onde si increspano, i parchi pubblici si chiudono, le tegole e i comignoli cadono, nell’aria si formano mulinelli di foglie e di carte, i bidoni e i motorini si rovesciano, gli scafi si rovinano, le vele si strappano, i collegamenti marittimi si interrompono, le finestre tremano e le persiane sbattono, si incatenano i tavolini dei bar, i Caffè storici diventano un caldo rifugio per quegli abitanti che camminano controvento, un po’ impauriti ma anche divertiti. Perché la bora è tempesta, è turbolenza, ma è anche energia, allegria, libertà, bellezza assoluta. Spazza via l’inquinamento, pulisce, rinfresca.
Lascia l’aria pura e cristallina, così come i riflessi del mare. E la luce inonda la città, che diventa sempre più particolare, sempre più poetica.
La Bora che influenza le persone: “A Trieste la parola imborezà (invaso dalla Bora) indica una persona eccitata (anche sessualmente), esaltata, elettrizzata, incapace di controllarsi”. In casi più leggeri un matto allegro e simpatico.
La Bora che influenza i giorni e le arti: “Protagonista indiscussa della città giuliana, del suo golfo e di tutta la costa istriana e dalmata, soffia aggressivamente su fatti e cronache, racconti e romanzi, poesia e pittura” (Giuseppe O. Longo, articolo su “La Stampa” del 10 luglio 2012).
La bora che a Trieste ha anche un bizzarro museo dove si raccolgono indizi di arte e di vento (anche in una collezione di bottiglie con dentro chiusi i venti del mondo!!), dove si imparano a costruire le girandole o ci si diverte a rimanere scapigliati davanti a uno spara aria, dove si consulta una biblioteca eolica con studi che vanno da “Canne al Vento” della Deledda ai mulini a vento di Don Chisciotte, si conosce meglio l’energia eolica e si apprezzano cartoline d’epoca coi bambini che andavano a scuola con le cartelle zavorrate dai ferri da stiro!!

Il record
I triestini in fondo la bora la amano anche, la sopportano, sanno che in un certo senso è il respiro della loro stupenda città. Hanno bisogno di quelle raffiche, di quegli ululati, almeno una volta ogni tanto. Magari non con la forza spaventosa dell’11 febbraio del 2012 o del lontano giorno del 1954 quando la bora raggiunse il suo impressionante record viaggiando alla velocità di 171 km/h e rischiando di spazzare via il Molo Audace e di rompere gli anemometri!
La pagina più bella
Una descrizione perfetta della bora è quella dello scrittore Claudio Zanini in una pagina del suo romanzo “Il posto cieco”. Vorrei ricordarlo questo ritratto di Trieste in un giorno di bora, col grande vento e le grandi onde che si abbattono a folate sul lungomare e sui moli, sui lidi chiusi nel loro guscio, sulle piazze gentili di palazzi di fine secolo, sui canali riempiti di barchette colorate. Eccolo qua: “Un’aria tersa di cristallo la pervade, fin quando non è sconvolta da feroci bore che le si precipitano alle spalle dai contrafforti carsici con la virulenza selvaggia di un’armata a cavallo. Allora si danza, seppur controvoglia, trattenuti alle corde tese di strada in strada. Si volteggia, sospinti, strattonati, ghermiti da artigli formidabili. L’aria cristallina si infrange in frantumi che tagliano. Tutto va a gambe all’aria, volano cappelli, ombrelli, i palazzi sbiancano, illividiti dallo smeriglio ventoso. Gli ippocastani dei viali trattengono a fatica le chiome scosse e sfilacciate. Tutto poi si rovescia in mare, dove muraglie grigie si schiantano e risorgono, si accaniscono furenti contro lo spavaldo prolungamento dei moli nei loro ventri sconvolti. E tutto questo trambusto, questa precarietà, gli abitanti sempre li vivono nell’anima. La città si muove”.

Basta capitarci a Trieste in un giorno così, col mare che attrae e spaventa col suo ruggito e la sua schiuma, con le vecchiette che ondeggiano con le buste della spesa in mano, con gli studenti spavaldi in camicia che la bora sembrano sfidarla, coi corpi umani piegati dalle raffiche e coi bambini che col ditino in bocca rimangono incantati davanti alla potenza degli elementi.
Ancora un ricordo letterario, quello di Slataper: «Bella è la Bora. È il tuo respiro fratello gigante. Dilati rabbioso il tuo fiato nello spazio e i tronchi si squarciano e il mare, gonfiato dalle profondità, si rovescia mostruoso contro il cielo. Scricchia e turbina la città quando tu disfreni la tua rauca anima». Ammirazione e sgomento insieme.
La regata più grande del mondo
Il mare e il vento caratterizzano anche la famosa regata della Barcolana, nata nel 1969 con una cinquantina di barche partecipanti e diventata oggi una festa per tutti a Trieste, per chi è esperto di vela e per chi non sa gonfiare neppure un canotto, per le barche con le famiglie a bordo e per le imbarcazioni o gli equipaggi dell’America’s Cup.
Il clou della Barcolana in genere è il secondo weekend di ottobre e oltre al mare sono protagonisti gli eventi, gli stand gastronomici, le serate musicali. Nel mondo non esiste una regata simile tanto che è finita nel Guinness dei primati e quando il golfo di Trieste si riempie di vele bianche un po’ la città si lecca le dita per i suoi 100 milioni di Euro di introiti economici a ogni edizione, un po’ si compiace per quella che è una celebrazione, un raduno, una festa, un po’ agli abitanti basta guardare il grande spettacolo che arriva a doppiare le boe nelle acque slovene. Un sogno portato anche questo dal vento, un fedele inchino ed omaggio di Trieste alla sua vita marinara, al suo golfo, al suo porto, alle sue storie e alle sue facce di mare.

Il rito del Caffè
Quando il vento non dà tregua è più anelata e gradita la pausa in un Caffè storico, pausa che rappresenta in ogni caso e in ogni stagione un vero rituale della città giuliana. In questi magnifici locali a Trieste ancora si parla di letteratura, poesia, arte. Il rito del caffè, della torta, dello strudel, dei krapfen, della Sacher, del thè, dei dolci di origine ungherese e slovena, dei pasticcini, è volutamente lento, si centellina ogni gusto, ogni crema, ogni sfoglia, si apprezza ogni aroma e il tutto è accompagnato da piacevoli conversazioni o dalla lettura dei giornali nazionali e europei chiusi nelle bacchette di legno come dentro i Caffè viennesi. Ci si accomoda su sedie antiche, su poltroncine eleganti, in comodi salottini abitati da lampadari un po’ retrò e da scenografici specchi. I mobili sono quasi sempre in legno scuro, i camerieri in divisa, l’aria frizzante e gelida è tenuta fuori, le ore calme e culturali vissute dentro.

I Caffè Storici
Esiste eccome una mappa dei Caffè più storici e antichi della città, dei luoghi più frequentati dagli intellettuali, dagli scrittori, dai pittori. Il Caffè San Marco era ed è un ritrovo abituale della borghesia triestina, dei protagonisti del mondo della cultura, del giornalismo, dell’arte. Era anche il ritrovo abituale di Italo Svevo, insieme al Caffè Chiozza sotto i portici, dove lo scrittore del flusso di coscienza conobbe il pittore Umberto Veruda che gli fece amare i suoi giochi di luce e che gli ispirò il personaggio del romanzo “Senilità”. Al Caffè Fabris sempre Svevo amava giocare a biliardo e qui oggi amano incontrarsi gli uomini d’affari e i banchieri della città.
Il poeta Umberto Saba che di Trieste amava le vie più nascoste, gli intensi squarci del cielo e le fenditure del mare, frequentava di più il Caffè dei Negozianti che poi cambiò il suo nome in Tommaseo: posto davvero storico e di grande atmosfera, fu infatti il primo locale di Trieste con l’illuminazione a gas e anche il primo dove si poterono gustare ottimi gelati. Saba era deliziato dal gusto al pistacchio. Quando non era in questo Caffè Saba lo si incontrava al Caffè del Municipio, sempre con la sua aria un po’ dolente e la sua psiche tormentata da due abbandoni importanti (il padre che se ne andò e la madre che lo sottrasse alla affezionatissima balia slovena) e così stabilmente riflessa nelle sue poesie. Saba non amava tanto la bora chiara, quella che soffia col sole e col cielo azzurro, amava la scura, quella con pioggia o neve, “per la sua buia violenza su Trieste, città impossibile da amare, ma anche impossibile da odiare per le sue tante bellezze di mare e di contrada” (Giuseppe O. Longo sempre su “La Stampa”)

Infine l’immenso James Joyce che leggeva capitoli del “Portait of the artist as a young man” nel Caffè Stella Polare ci offre il pretesto per concludere alla grande questo giro sulle tracce dei Caffè più letterari, cui vanno aggiunti senz’altro il Tergesteo in Piazza della Borsa e il Caffè degli Specchi in Piazza Unità d’Italia. Anche se a me piacerebbe incontrare almeno una volta di persona Claudio Magris seduto a un tavolino di un qualsiasi Caffè e intento a scrivere un altro capolavoro come “Danubio” o “Microcosmi”.
Trieste come frontiera culturale
Il mondo dei Caffè a Trieste ispira la nostalgia e il ricordo della Mitteleuropa, dell’impero austroungarico, della vita di corte viennese, della cultura asburgica. La cifra di questa città di frontiera che guarda anche ai Balcani, che guarda ai nuovi, numerosi e complicati arrivi dall’Est, è stata sempre la sua identità mista, il suo crogiuolo di menti, di influssi, di lingue, di razze, di credi religiosi. Penso che Trieste abbia sempre incantato e ispirato grandi scrittori e poeti proprio per questo suo clima culturale europeo, per questa sua aria misteriosa ed insieme elegante creata dalle atmosfere, dalle architetture, dalle musiche e dai gusti del passato. Una città crocevia di destini e di correnti culturali, una città eclettica, nobile e malinconica, aperta al mare come alle diverse forme di letteratura e di pittura.

L’eco di Joyce
A Trieste si apprezzavano gli impressionisti tedeschi e i futuristi italiani, le elegie duinesi di Rilke, i versi di Saba appunto, che diedero grande notorietà alle vie del ghetto ebraico, lo stream of consciousness di Joyce venuto qui per un decennio alla Berlitz School ad insegnare l’inglese, a completare “The Dubliners” e ad iniziare il capolavoro dell’”Ulysses”.
La città è piena delle tracce dello scrittore irlandese, oltre alla sua scuola i vicoli del ghetto dove amava passeggiare, il neoclassico Teatro Verdi di Matteo Pertsch ispirato alla Scala di Milano dove si appassionava alla lirica, il suo appartamento di Piazza Ponterosso, la sua statua sul Ponte Canal Grande. Joyce amava molto l’atmosfera austriaca della cultura e dei caffè, l’essere Trieste una zona di scambio, di frontiera appunto. E apprezzava tanto anche la grazia remissiva del nostro Italo Svevo cui diede il coraggio fino in fondo di esprimere il suo talento nevrotico e insicuro.
Quante affinità ci sono tra Joyce e Svevo, tra i loro due eroi Zeno e Bloom, tra i loro due romanzi chiave “La Coscienza di Zeno” e l’”Ulysses”. Il monologo interiore, l’interesse per la psicanalisi freudiana, la capacità di descrivere una vita intera nella cronaca di un giorno, lo sprofondare senza regole lessicali nel turbinio delle emozioni e nelle profondità della psiche.

La coscienza di Svevo
Anche Svevo ispirò Joyce, per il suo fascino decadente, per la profondità della sua scrittura. Aron Hector Schmitz, il vero nome di Svevo, di famiglia ebraica, nato a Trieste nel 1861 in Via dell’Acquedotto, fu abilissimo nel ritrarre la sua contrada, l’oppressione degli anni in banca, le nevrosi umane dovute all’insicurezza e all’insoddisfazione. Sempre permeando la sua scrittura col famoso senso dell’umorismo ebraico Svevo passeggiava volentieri nei giardini pubblici della sua città, leggeva e scriveva nella Biblioteca Hortis ( e lì sono rimasti il museo e la statua a lui dedicati) e uno dei ricordi più belli della sua vita fu quando l’amico Joyce lesse davanti a lui e a sua moglie il commovente racconto “The Dead”, “I Morti”, il capolavoro contenuto in “Gente di Dublino”, probabilmente la migliore prova di quello che provoca, quello che evoca, il flusso di coscienza, una serata intima in una casa, l’ascolto di una musica al pianoforte. Pagine potenti, struggenti, indimenticabili.
I monumenti di Trieste
In una città esempio di una grande koinè linguistica e culturale, con chiese che ricordano i culti ortodossi e bizantini come quelli cattolici e israeliti, non potevano mancare grandi spazi e monumenti simbolo, anche di stili e di epoche diverse: il primo esempio è la Piazza Unità d’Italia aperta scenograficamente sul mare col Palazzo del Municipio, il Palazzo del Governo, il Lloyd triestino, il Caffè degli Specchi e il gioiello barocco di Palazzo Pitteri e la Fontana del Mazzoleni che sono tutti lì schierati a memoria del fulgido passato e a prendersi per primi la brezza dell’alto adriatico in caso di bora.


Proseguendo per Riva Nazario Sauro si incontra il neoclassico Borgo Teresiano che prese il nome dalla energica Imperatrice d’Austria che così tanto si adoperò per lo sviluppo urbanistico e commerciale della città, il canale coi vecchi magazzini dominato in fondo dalla chiesa di San Antonio Taumaturgo, opera di Pietro Nobile e destinata a diventare una delle cartoline di Trieste. Nell’edificio di quella che una volta era la Borsa i triestini si ritrovano oggi volentieri per un aperitivo al coperto e lì davanti e vicino si ammirano delle opere liberty come Casa Bartoli, Casa Smolars e la facciata del Cinema Eden.
La Città Vecchia

Un percorso di altro tipo ci porta a scoprire le rovine del Teatro Romano, la Torre trecentesca di Cucherna con le edere che vi si arrampicano sopra, la chiesetta romanica di San Silvestro che è fatta da migliaia di mattoni e la barocca Chiesa dei Gesuiti più pomposa e sfarzosa nella sua facciata e nei suoi interni. Resta “solo” una cosa da fare a questo punto, perdersi tra i vicoli della Città Vecchia, scegliere le osterie per gustare un “rebechin” (lo spuntino in piedi, le tapas triestine che variano dal frittino o dal crudo di pesce al goulasch al prosciutto di Praga caldo, tutto innaffiato da ottimi vini), le pescherie, le librerie che piacciono di più, passare sotto l’Arco di Riccardo e finire la passeggiata sul Colle San Giusto e il Tempio Capitolino con resti di mosaici e del foro, gli spalti panoramici del Castello e l’Orto Lapidario con reperti romani e medievali sistemati sul prato. Se si ha tempo per un paio di Musei i nomi giusti sono la Collezione Revoltella dove si trovano opere di tutte le correnti artistiche dell’800 e del ‘900 e il Civico Museo di Storia e Arte.
La Riviera triestina


Poco lontana dal porto e dai commerci di Trieste, dalle sue banche e dalle sue Assicurazioni che la resero florida già a metà ‘800 (“Le Generali” nacquero qui nel 1836) i suoi dintorni marinari sono molto attraenti, sia che si tratti della Riviera di Barcola che con una lunga passeggiata tra mare e verde porta alla candida mole del Castello di Miramare, nido d’amore di Massimiliano d’Asburgo e Carlotta del Belgio, con saloni e giardini notevoli e spettacoli di suoni e luci; sia che si raggiunga il paesino turistico di Sistiana, le sue pinete, la sua splendida e larga baia; sia che a piedi lungo il famoso Sentiero Rilke da Sistiana si visitino le coste rocciose e boscose e il castello di Duino dove in un ambiente incontaminato vola il falco pellegrino; sia che con più tempo a disposizione si arrivi fino alla bella laguna di Grado che per tanti angoli e atmosfere e pescatori e canali e campanili ricorda quella di Venezia. Là vicino la meraviglia della Basilica e dei mosaici naturalisti di età romana ad Aquileia. Infine verso il confine istriano si passano ore piacevoli nella deliziosa cittadina di Muggia con le sue mura medievali e il Castello che guardano il mare oltre che la tradizione molto sentita del Carnevale, festeggiata con cortei in maschera tra le calli e sulle barche da pesca.


Un giro nel Carso
Se si vogliono infine rivivere episodi e percorsi della Grande Guerra basta raggiungere Opicina e cominciare ad esplorare il brullo ma suggestivo altopiano carsico, fatto di forre, di grotte con resti addirittura risalenti al Paleolitico, di panorami ampi e ventosi e appunto di dolenti memorie storiche. Quassù si cammina su territori calcarei e permeabili, con l’acqua che si è scavata percorsi avventurosi e sotterranei tra grotte e doline e si possono seguire il sentiero della Napoleonica o il richiamo delle ninfe del laghetto di Percedol. Si può scegliere di entrare nella Grotta Gigante, così grande che potrebbe contenere la Basilica di San Pietro, o di visitare il Santuario di Monte Grisa o la Rocca di Monrupino col suo Belvedere. Qui per 4 giorni dal giovedì all’ultima domenica di agosto si celebra l’evento più folkloristico del gruppo etnico sloveno, quello delle Nozze Carsiche, e tra balli, costumi tipici e musiche il finale in allegria è assicurato dalle soste nelle “osmizze”, le rustiche rivendite di vino dove si gustano anche piatti tipici a base di carne e verdure. L’ultima meraviglia del Carso potrebbe essere quella di avvistare dei caprioli liberi e selvaggi nel Parco della Carsiana o quella di provare il brivido dell’arrampicata al Rifugio Premuda. Abbiamo capito che il Friuli Venezia Giulia attira l’attenzione di un turismo attento, rispettoso, un po’ di nicchia, pronto a godere del vento, del mare, dell’atmosfera culturale di un Caffè e di una regione così varia e ricca di natura e di storia. Aperta sul resto d’Europa come poche altre parti della nostra Italia.
Sorprendente come un soffio di bora.

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