L’incanto di San Cristobal de las Casas
San Cristobal è uno degli affreschi del Messico e la capitale morale del Chiapas e della sua rivolta, infatti incontreremo qui e nelle sue valli gli ultimi eredi di Emiliano Zapata.
Città indigena e coloniale, emozionante e colorata.
Con le vie in salita percorse da carretti, da cavalli, da bici e da moto, i ciottoli scuri appena bagnati dalla frequente pioggia, le case basse color pastello, coperte da tegole. Con le chiese dalle facciate gialle, dalle cupole rosse o dagli ornamenti bianchi e azzurri che ospitano culti sincretisti.

Gente umile per le strade e le piazze di San Cristobal, specie davanti alla spianata di Santo Domingo, gente timida, bambini vivaci, meravigliosi. Taverne con cervezas, fajitas y tacos a pochi pesos alternate a variopinti mercati all’aperto alternati a gallerie d’arte etnica. Musiche tipiche dai vicoli e dalle cantine. Serate che lasciano il senso di una comunità, l’impronta di un luogo autentico, sotto il cielo bellissimo del Chiapas che illumina i piccoli municipi sugli Altos, gli altopiani che circondano San Cristobal come fratellini intorno a una mamma. Ripenso subito a “Natale a San Cristobal” dei Modena City Ramblers.

Eccola qua:


San Cristobal che cattura coi suoi colori, coi suoi silenzi, con la sua malinconia.
San Cristobal che non vuoi più andar via.
I riti di San Juan de Chamula
Gli indios tzozil, tzeltal e quelli delle altre etnie in chiese come quelle di San Cristobal e soprattutto come in quella del villaggio polveroso di San Juan de Chamula ci entrano col loro misto di credi cattolici e riti sciamanici, coi rosari da recitare e con le galline da strozzare, baciando i crocifissi e accendendo le candele, lasciando sotto qualche altarino i foglietti con le preghiere più semplici e pagane, depositando strani doni, uova, fiocchetti colorati e animaletti di creta ai piedi delle statue dei santi. Lasciano anche bottigliette di Coca Cola che appena tracannate servono a ruttare per liberarsi dai mali!
Pregano seduti, in circolo, su aghi di pino, non capisci bene se si tolgono il malocchio, se credono in qualcosa o se evocano un dio pagano, se cercano un curatore o un prete. Tutto mescolato, tutto valido, tutto intenso. E tutto spoglio e desolato nel vicino cimitero, da duello finale per un film di Sergio Leone.

Il Messico indigeno difeso da Marcos
Non siamo arrivati per caso nel Messico indigeno, erano quegli gli anni di un personaggio leggendario, il Subcomandante Marcos, spuntato dal nulla anni prima, l’alba del Capodanno del 1994.
Erano i giorni dove si tentavano colloqui di pace tra le comunità contadine e i rappresentanti del governo. In un villaggio sperduto tra le montagne raggiungemmo la scuola e non posso dimenticare la scena. Un primo cordone di sicurezza la circondava per intero: erano le donne di tutti i paesi della valle, ognuna coi suoi abiti colorati, coi suoi fagotti, coi suoi bambini. Un secondo cordone, più esterno, era tutto composto dalla policia militar, vestita di nero, coi caschi, i giubbotti e i manganelli che non servivano a niente perché la rivoluzione zapatista tra tutte quelle scoppiate nell’America Latina era la più dolce e la più pacifica, era quella poetica, anticonvenzionale, testarda, volitiva ma incruenta.

E la scena del doppio cordone durava per giorni, non sapevi più bene chi proteggeva chi o cosa, sinceramente i contadini sembravano sereni, aspettavano, aspettavano e aspettavano ancora: di ottenere una negoziazione positiva, un filo spinato in meno, un campo di pannocchie in più, pane e fagioli sulla tavola, diritti per i piccoli scolari, lavoro dignitoso per le donne, paghe decenti. E i poliziotti sembravano ragazzi come loro, normalissimi indios del Chiapas o arrivati dalle periferie della capitale, solo con una divisa indosso, ma senza l’aria feroce delle repressioni solite di queste latitudini.
Al netto di questa fotografia sapevamo bene di agguati militari, di contadini rassegnati o uccisi ma il clima di dialogo ci colpì molto, sembrava davvero il capitolo di un romanzo di Manuel Scorza (“Rulli di Tamburo per Rancas” o di Paco Ignacio Taibo II (“Rivoluzionario di passaggio”).
La ragazza di San Cristobal
Dopo aver visto i mercati e le chiese e le piazze di San Juan de Chamula e di Zinancantàn, di San Andrès e di Oventic, tornammo al paesino del dialogo, le stesse facce erano ancora là. Al comedor in piazza conoscemmo meglio una ragazza di San Cristobal che ci aprì gli occhi e ci commosse con la sua storia. Ora è LEI che parla, Carla, 21 anni, india di San Cristobal de las Casas: “alcune estati fa il raccolto di pannocchie era stata più magro del solito ma ai padroni del latifondo non gliene importava niente, volevano la loro parte comunque, anzi sempre di più. La mia famiglia, la mia comunità, si spezzava la schiena in quei campi, gli ejidos, gestiti in forma di cooperativa, a seminare e poi a raccogliere il mais, a farlo diventare tortillas. Tante fatiche, tante umiliazioni, per tutto il villaggio.

L’arrivo del Subcomandante
Ma per fortuna un giorno arrivò dalla capitale un professore di storia o di qualche cos’altro. Aveva la barba. Era a cavallo. Fumava la pipa. Parlava bene in confronto a noi perché aveva letto sicuramente tanti libri. Rimase per mesi tra queste montagne, queste comunità divennero la sua comunità.
Capì più cose lui di noi in una stagione di piogge che il governo messicano in duecento anni di vuote chiacchiere politiche.
Capì che noi eravamo gli sfruttati di sempre, spazzati via prima dai conquistadores, poi dal colonialismo, infine dal Trattato del Libero Commercio che sganciava col Chiapas il suo vagone più debole.
Bambina zapatista
Ero una bambina allora, sarei diventata a breve una bambina zapatista. Lo sarei diventata nel momento stesso che il misterioso professore decise di coprirsi per sempre il suo volto con un passamontagna nero e con un fazzoletto rosso annodato sul collo, i colori dell’EZLN (Esercito zapatista di liberazione nazionale). E di farsi chiamare il Sotto-Comandante Marcos, sotto a noi indios del Chiapas, sotto al ricordo dei tanti morti per una causa, sotto a quella che era diventata senza preavviso e per un atto d’amore la sua gente, la sua lotta, la sua utopia”.

L’emozione delle parole di Carla ci durò in testa per il resto del viaggio, superò le emozioni vissute prima, nel mare e nelle foreste dello Yucatan, superò le emozioni che sarebbero venute dopo, nel Messico etnico di Oaxaca, nel Messico hippy di Puerto Escondido, nel Messico coloniale di Taxco, Cuernavaca, Guanajato, nel Messico gigantesco, caotico e rumoroso della sua incredibile capitale.
Là, in quel posto del Chiapas, davanti a quei contadini col passamontagna, capimmo molte cose della purezza, delle idee, dell’essere giovani, dell’essere forti.
A volte un viaggio illumina più di un libro.

La parabola del passamontagna
Negli anni a venire ho seguito con passione la vicenda di Marcos, vittorie e sconfitte, la sua terra sollevata, la sua missione finita.
Senza l’idolatria del fucile, senza una tragedia collettiva, forse solo tra le lacrime di commozione piante sugli altopiani del Chiapas, perché un giorno come è arrivato lui se ne è andato, chissà se nella selva o tornando a insegnare in città o a rivedere quel mare natìo di cui nella selva ha sempre sentito nostalgia.
Senza passamontagna.
La parabola di Marcos fu una di quelle cose che possono accadere solo nei romanzi di Isabel Allende o di Gabriel Garcia Marquez: veniva dall’Università, come un eroe buono, a difendere “La Casa degli Spiriti” ovvero i villaggi delle montagne e della Selva Lacandona, sprofondati come Macondo nei loro “Cent’anni di solitudine”. E qui nell’ambiente più povero, più generoso, più puro che potesse immaginare aveva imparato comunque a “conoscere il ghiaccio”. Che è come da dire la vita e il tesoro degli ultimi.
Era un intellettuale Marcos, un uomo colto, brillante; secondo le indagini del governo messicano proveniente da Tampico, una città costiera a nord di Veracruz; data di nascita 1957, vero nome Rafael Sebastiàn Guillèn Vicente (perché i latino americani hanno sempre diciotto nomi), figlio di immigrati spagnoli, di estrazione borghese, formatosi a una solida e tradizionale scuola di gesuiti; professore a Città del Messico nella sua prima vita, sognatore ribelle nel Chiapas e amico degli indios del sud-est messicano nella sua vita più piena.
“Sono stato felice per qualche tempo, finchè non mi sono ubriacato, ho preso l’autobus sbagliato e sono finito nella Selva Lacandona” (da “Io, Marcos”).
Un Che Guevara moderno, ma molto meno violento. Un idealista alla Don Chisciotte, non a caso il suo libro e il suo “trattato di politica” preferito. Con nessuna mira di potere ma solo pronto a rivendicare le autonomie indigene, contro i prepotenti, i padroni spietati, le squadracce di paramilitari.

Marcos è…
Uno che si presentò così alla ribalta mediatica nel 1994, diffondendo una specie di manifesto, una sorta di internazionale degli ultimi, dei fragili e degli offesi:
“Marcos è un gay a San Francisco, un nero in Sudafrica, un asiatico in Europa, un chicano a San Isidro, un anarchico in Spagna, un palestinese in Israele, un indio maya negli stretti di San Cristobal, un ebreo in Germania, uno zingaro in Polonia, un mohawk in Quebec, un pacifista in Bosnia, una donna sola in metropolitana alle dieci di sera, un contadino senza terra, un membro di una gang in una baraccopoli, un operaio senza lavoro, uno studente infelice e, naturalmente, uno zapatista sulle montagne”.

La marcia degli ultimi
Uno che nel 2001 fu capace di organizzare una marcia pacifica indigena fino al cuore di Città del Mexico, lo Zòcalo, la piazza del potere, salutato da un milione e mezzo di messicani, uno che lasciò poco dopo la parola alla Comandante Esther (e Carla si commuove pensando alle tante donne coinvolte dalla causa zapatista, a quelle già morte come la minuta Ramona) per farle dire la verità più semplice, l’unica a contenere il credo politico dell’EZLN:
“Vogliamo che sia riconosciuto il nostro modo di vestire, di parlare, di governare, di organizzarci, di pregare e di curarci, il nostro modo di lavorare in gruppo, di rispettare la terra e di intendere la vita, che è la natura, perché noi facciamo parte di lei”.

Le conquiste dell’EZLN
Uno che a capo del suo “esercito” improvvisato di campesinos a sentire la giovane Carla ha permesso alle comunità del Chiapas non certo la ricchezza (“e il Chiapas ne avrebbe, eccome, ma le prendono gli altri, le multinazionali, i grandi latifondi: energia idroelettrica e petrolio, bestiame e mais, legname e risorse minerarie”) ma una forma profonda e mai conosciuta prima di dignità: se tanti sono ancora i suoi coetanei che scelgono di migrare verso Cancùn o Playa del Carmen per lavorare nei complessi turistici, quelli che restano a San Cristobal e dintorni negli anni 2000 hanno sviluppato una dialettica più forte e orgogliosa, hanno ottenuto più scuole, più ospedali, più terre da coltivare, meno problemi di alcolismo e di mortalità infantile. E tra questi altopiani le donne sono più sicure di prima, più rispettate ed il “potere” nei piccoli villaggi è gestito da assemblee di saggi, c’è partecipazione, c’è confronto.
Tanta roba per una regione da sempre povera e sfruttata, la più povera, sfruttata e dimenticata di tutto il Messico. Nonostante le tremende delusioni subite dal Subcomandante, che è rimasto impigliato nelle contese politiche con la sinistra ufficiale e partitica, coi quotidiani come “La Jornada” che all’inizio lo sostenevano a spada tratta. Nonostante le foreste ancora sfruttate dalle multinazionali e il pericolo delle dighe a sconvolgere i fragili equilibri naturali dell’ambiente intorno al Rio Usumacinta. Nonostante vicino a lui, a scrutare e capire la sua anima da dietro i suoi occhiali spessi, fosse rimasto quasi solo il vescovo di San Cristobal, Samuel Ruiz. Da qui la vera, progressiva stanchezza.
La stanchezza di Marcos
L’epilogo arriva nel 2014 (il buon Ruiz intanto era scomparso nel 2011) con un Marcos malinconico che scende dal suo vascello pirata e dirama uno dei suoi ultimi comunicati “Siamo passati di moda. La mia immagine pubblica è diventata una distrazione. Il mio è stato un travestimento pubblicitario”.
Non sono così convinto, a guardare Carla riavvolgendo il film del viaggio, i suoi occhi accesi di speranza, di lotta e di amore. La sua resistenza culturale. E comunque nel Sud Est Messicano è rimasto uno spirito vivo, è rimasta quella voglia e quella risposta che Marcos diede prima di consegnarsi al silenzio: “Come riassumeresti la tua esperienza di 24 anni sulle montagne del Chiapas con una sola parola?” – gli chiese una giornalista colombiana – Marcos di parole ne usò due: “Imparare. Rinascere”.

E da quel momento si è ritirato o si è reso invisibile, superfluo, assumendo un nuovo nome di battaglia, quello di Galeano, il suo ultimo compagno zapatista ucciso dai paramilitari spediti in Chiapas. Un altro modo di gridare: “Ya Basta!”
P.S.
Letture sul Chiapas
Per chi volesse approfondire l’argomento Chiapas consigliamo alcuni libri: “Il sentiero dell’Acqua” di Christopher Shaw che illustra benissimo le magie e le credenze della foresta e la nascita dell’idea zapatista lungo il fiume Usumacinta nella Selva Lacandona, nella zona del guerrieri di Bonampak; “Que Viva Marcos” di Mario Balsamo, un eccellente e poetico romanzo storico che unisce i discorsi, la crescita e gli ideali di Marcos alle situazioni sociali del Messico passato e moderno; “Io, Marcos – Il nuovo Zapata racconta” edito da Feltrinelli e ricco di citazioni del Subcomandante e infine l’immancabile e preziosa intervista di Gianni Minà all’ultimo protagonista della vita latinoamericana, contenuta nel libro “Marcos e l’insurrezione zapatista” edito da Sperling & Kupfer per la collana “Continente desaparecido”.
Scoprirete un Marcos dal volto tenero, anche se coperto.

Se avete tempo e voglia di un piccolo viaggio visuale del tempo di Marcos e nella comunità rurale di Oventic, situata sulle montagne del Chiapas e ribelle e poetica per i suoi murales zapatisti, eccovi due link di you tube:
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