Il sincretismo di Oaxaca
Ci sono dei luoghi in Messico, come la meravigliosa Cuzco in Perù, dove il sincretismo tra la cultura spagnola e quella indigena è molto più evidente che altrove e dà vita a un ambiente poroso, capace di accettare e far convivere una mescolanza di influssi, di caratteri e di storie. Si creano in questo modo quelle città dall’identità mista dove ogni patrimonio culturale viene profondamente rispettato e giustamente inteso come una grande ricchezza.
L’incontro fra culture diverse genera sempre interazioni, fusioni, scambi, educa alla tolleranza, ad ambienti ibridi, creativi, trasformabili. E che questo accada sotto il sole del Messico, nella dolce valle di Oaxaca, rende il fenomeno ancora più magico.

L’anima spagnola
Appena arrivi a Oaxaca (la pronuncia è un po’ buffa: uacaca) la prima cosa che ti colpisce sono le forme e i segni di questa piccola città ideale, ideale perché colta, tranquilla e molto, molto autentica. Parlo della gioiosa vita nelle piazze, delle numerose cupole rassicuranti delle chiese, del buon gusto dei suoi abitanti in fatto di arte, cucina e folklore.
L’anima spagnola si manifesta nello Zòcalo, tra i suoi grandi alberi che donano ombra quando il sole batte forte, sotto i portici coloniali, sulle panchine decorate in ferro battuto dove si corteggiano gli innamorati, nei negozi e nei Caffè più eleganti, nei suoi giardini dove vociano i bambini chiedendo un palloncino o un dolcetto, nelle note suonate da una banda di ottoni che nel centro storico dedica un concerto gratuito alla sua gente almeno due volte a settimana.
Sanno di Spagna anche le facciate curate delle case, lo stile nobiliare di alcuni palazzi, le atmosfere dei vicoli durante le serenate, i balconi fioriti, le croci e le campane, entrambe puntuali, severe, numerose. Fanno pensare a Salamanca e a Toledo certe sfumature della pietra, ricordano l’Andalusia alcuni patios con gli alberi da frutto e la calce bianca sulle pareti.

Dove si posa la luce
Una luce morbida si posa su questa Oaxaca spagnola, coloniale, placida, tenuta sveglia da qualche Mariachi, tenuta accesa dai colori delle case e da gruppetti di hippies finiti quaggiù a pitturare quadri o a suonare la chitarra. Una luce che va sulla pietra e la rende morbida, che ricopre le campagne ondulate a 1500 metri di altitudine e le rende brune, una luce capace di creare un’atmosfera leggera e sospesa, tipica della provincia messicana più profonda. La stessa luce che entra dentro il convento di Santo Domingo e illumina ancora di più gli stupefacenti altorilievi di stucco ricoperti a foglia d’oro, emblema e capolavoro del barocco messicano.


L’anima india
Se invece Oaxaca mette in scena i suoi mercati, se espone le sue maschere, i suoi tessuti, i suoi vasi di ceramica nera. Se fra le bancarelle si sgranocchiano come spuntino le larve di grilli e cavallette (sembrano patatine fritte!) e dalle taverne esce il profumo del mezcal (un distillato di agave) o del mole poblano (ricetta famosa soprattutto a Oaxaca e Puebla, trattasi di pollo speziato in salsa di cioccolato e peperoncino). Se tra le mille feste e processioni si guardano meglio gli occhi, gli zigomi, la pelle scura e i costumi colorati del suo popolo, si ascolta il suo dialetto, si osservano le sue ingenuità e le sue timidezze, ecco che allora esce fuori l’essenza indigena di questa piccola città discreta, di questa comunità laboriosa e artistica.



Dove si visitano i mercati
Capita così a Oaxaca, che ti prendi un caffè nelle vie pedonali e poi visiti un mercato animato, entri in un chiostro silenzioso e poi ti perdi in un villaggio polveroso della valle: a San Bartolo Coytepec per acquistare la ceramica nera, a Teotitlàn del Valle per comprare di sicuro un poncho, un arazzo o un tappeto, a Chinantec per ammirare una veste tipica, a Santo Tomas per accarezzare un lavorato di cotone o nell’impronunciabile Tlacochahuaya per restare davvero senza parole, ma davanti a una chiesa spagnola decorata in modo assolutamente pagano, con motivi colorati, floreali, faunistici.
Capita così da queste parti, che gli eredi degli spagnoli gestiscono l’economia, il turismo, il potere politico e gli eredi degli indios li trovi a vendere, a ricamare, a scolpire, a disegnare, a tessere, a creare. Soprattutto il sabato la mescolanza è incredibile: è giorno di mercato, le etnie indie arrivano in città, trionfano i colori sgargianti, i gusti bizzarri o macabri.
Sono di Oaxaca gli animali di legno o ceramica rosa, verde, celeste o arancione che si vendono un po’ in tutto il mondo, sono di Oaxaca tante maschere insolite. Sono di Oaxaca i cartoccetti coi chapulines (i grilli di cui sopra), sono di Oaxaca i bicchierini di mezcal col verme dentro che è una ghiottoneria. Sono di Oaxaca tutte le ricette descritte nei capitoli del romanzo di Laura Esquivèl, “Dolce come il cioccolato”, diventato anche un bel film. Sono di Oaxaca le notti di festa esagerata e le preghiere più intime, i tesori precolombiani del Museo Regional e le università spagnole, le torri di ceste in bilico sulla testa delle contadine e i gioielli indossati dalle ragazze.



La montagna degli zapotechi
La città è guardata e secondo me è anche protetta dalla montagna sacra di Monte Albàn, che sorge poco lontano, 500 metri elevata sopra la valle. Per questo motivo ancora più carismatica, più importante, più anelata nei secoli passati e sempre rispettata e amata al giorno d’oggi.
Monte Albàn fu il centro cerimoniale della raffinata e colta civiltà zapoteca, vissuta in Messico prima dei Maya, a partire dal 600 a.C. Una civiltà assolutamente pacifica, che ereditò dagli olmechi lo stile architettonico e che di suo sviluppò gli studi matematici e astronomici, i computi del calendario e i codici di scrittura, contribuendo a creare parte del serbatoio culturale cui attinsero gli stessi Maya.
Il volo del pejote
Le radici indigene di Oaxaca nascono qui, su questi terrazzamenti artificiali dove gli indios vivevano in semplici capanne, sotto la grande spianata dei culti e dei templi. Un luogo arioso e mistico, adatto alla meditazione solitaria, al confronto con la storia e chissà se con la propria vita. Salvatores non a caso ha girato sulle piramidi di Monte Albàn il volo onirico di Diego Abatantuono in “Puerto Escondido” dopo la scena dell’assaggio del pejote, il funghetto allucinogeno capace di creare secondo i brujos messicani – gli sciamani dei deserti del nord messicano fatti conoscere in occidente da Carlos Castaneda – formidabili visioni e “stati di realtà non ordinaria”.

La cultura di Monte Albàn
Il sito di Monte Albàn è lungo come cinque campi da calcio, con mio fratello e i miei amici proviamo a correrli tutti, a perdifiato. Oaxaca è piccola là in basso, le nuvole sono quelle allegre e chiazzate del Messico, c’è un grande profumo di libertà e un senso bellissimo di provvisorietà.
L’Edificio catalogato come J è l’antico osservatorio astronomico, ripetuto dai Maya nella Torre di Palenque come nel Caracol di Chichen Itzà, non manca il classico Campo da Gioco della Pelota, il palazzo dei bassorilievi ricorda più quello di Uxmal ma stavolta le 140 figure (!!) non riguardano giaguari o serpenti ma dei danzatori un po’ goffi e menomati negli organi sessuali (nemici torturati, artisti sacrificati? le ipotesi restano aperte). Dopo la Plataforma de los Danzantes è la volta di visitare la necropoli di Monte Albàn perché alla fine questo luogo era sacro agli zapotechi soprattutto per questo motivo: qui giacevano i loro sovrani e le èlite regnanti ma le loro urne non contenevano ceneri quanto piuttosto incredibili tesori a scopo votivo: oro e argento, giada e ambra, perle e turchese, pendenti e collane, bracciali e pettorali, un luccichio meraviglioso dedicato al pantheon religioso della civiltà. Soprattutto rinvenuto nella famosa tomba numero 7, il cui tesoro di ben 500 pezzi, il più vasto e ricco mai trovato in Centro America, si ammira al Museo Regional di Oaxaca.
Sarà per lo sfolgorante tesoro funerario che da Monte Albàn su Oaxaca sembra piovere ancora una sorta di magia, un monito dei tempi passati?
La cultura di Mitlà
Tramontata Monte Albàn fu la volta di Mitlà, dopo i zapotechi arrivarono i mixtechi. Che rimasero nella storia specie per un motivo, per un dono speciale: erano degli orafi eccezionali. Impararono l’arte dell’oro nei territori delle attuali Colombia e Ecuador, infatti è evidente la somiglianza di certi stili, maschere, diademi, pettorali con quelli creati nelle mitiche terre dell’Eldorado!
Il nome mixtechi tradotto significa “il popolo delle nuvole” e furono proprio loro tra le nuvole di Monte Albàn a riempire le tombe dei tesori più stupefacenti, quei tesori che provocarono l’ammirazione anche degli atzechi che vollero artigiani mixtechi a Tenochtitlan, per riprodurli nella loro corte. In basso rimase invece la loro capitale, Mitlà, purtroppo completamente saccheggiata dagli avidi conquistadores. Mitlà è molto piacevole da visitare, conserva i resti di sontuosi edifici residenziali perché per i mixtechi l’architettura civile era più importante di quella sacra, essendo loro una casta di guerrieri e di artigiani. Si passeggia pertanto tra la Sala delle Colonne e pregiati mosaici con motivi geometrici o serpentiformi e da dietro le sagome di alti e verdi cactus si stagliano nel cielo azzurro le poetiche cupole rosse della chiesa spagnola di San Pablo: eccolo il sincretismo che torna, nella magnifica valle di Oaxaca!


Fuga sul Pacifico
Resta un obiettivo in questa parte così intensa di Messico: arrivare al mare, rilassarsi su una spiaggia, se non altro per mettere ordine tra le numerose culture e piramidi visitate, tra le emozioni finora vissute nelle città coloniali come Oaxaca e San Cristobal o nelle giungle e nelle montagne zapatiste. Il mare più vicino a Monte Albàn è l’Oceano Pacifico, la meta obbligatoria è Puerto Escondido.
La strada per Puerto è di quelle mozzafiato, attraversa la Sierra Madre Occidentale e la percorriamo su una vecchia corriera colorata che si ferma almeno tre volte per gli immancabili guasti meccanici, i tronchi da spostare e le vecchiette da imbarcare in mezzo al nulla. Ci stupisce la natura riottosa, selvaggia, quasi violenta che guardiamo dai finestrini, boschi fitti, montagne alte, chilometri di niente, echi di recenti assalti armati, fiumi di fango che esondano. Un viaggio che è un vero viaggio, che ti trasmette come pochi altri il senso e l’ansia della parola “Arrivo”.
Il Porto è poco “escondido” (nascosto) ormai, specie dopo il famoso film di Gabriele Salvatores che lo ha definitivamente eletto a luogo di fuga e di libertà. In riva al Pacifico.
Il posto per perdersi

A Puerto Escondido non manca niente delle cartoline desiderate di una vacanza ai tropici: l’aria indolente, le musichette per le strade, le amache, le palme, i cocktails, le spiagge dorate, le onde lunghe per i surfisti, la frutta e il pesce più buoni d’America. Li trovi tutti qua però, gli italiani espatriati per qualche peccatuccio o in fuga dai riti del consumismo, gli hippies in giro per il Messico che vivono di concertini o di espedienti come Claudio Bisio e Valeria Golino nel film, ragazzi come noi che vogliono rivivere le atmosfere estranianti del simpatico cult movie.
Due o tre giorni a Puerto passano piacevoli e pigri, ho perso anche il conto, perché davvero non facevamo niente: mare, spiaggia, frullati, siestas y fiestas. Occhiate alle ragazze, gare a chi assaggiava il peperoncino più piccante, occhiate ai tramonti, gare a chi finiva più bicchierini di tequila: occupazioni molto intellettuali insomma!
E con quella consapevolezza del Messico colorato e precario, ma che sa la cava sempre, come “spiega” benissimo Bisio nel film: “Il Messico è una delle pattumiere degli Stati Uniti. Tutti i loro rifiuti, le cose che non gli servono più, vengono a finire qui. Allora, quando anche i messicani non li vogliono più, io li riprendo e li rivendo agli americani. E loro non se ne accorgono, questa è la cosa bella. Hai capito? Questi li hanno comprati anni fa, li ricomprano al prezzo triplo, e sono contenti!”
Due insegnamenti di Puerto Escondido
Puerto Escondido oltre ai paesaggi superbi mi ha lasciato, nettamente, due sensazioni.
La prima: una caduta volontaria delle difese.
Questo è un posto dove ti fai addomesticare volentieri. Dal ritmo di vita dei Caraibi, dal clima dolce, dall’atmosfera divertente, surreale e a tratti velatamente banditesca. Dove è facile perdersi o ritrovarsi, vivere in modo sempre semplice, naturale. Con poche responsabilità magari, ma con tutta la libertà del mondo.

La seconda: un paragone.
Prima di questo viaggio nelle serate e nelle feste italiane ero sempre abituato all’attesa di cose che accadessero, che ne so un evento, un incontro, una cena, un programma chiaro, con delle persone, degli scopi, degli orari. Sotto le palme del Pacifico invece la vita notturna scorreva casuale e le cose, tutte belle, accadevano da sole. Portate dal vento, dal mare, dalle stelle, dal caso o da un disegno superiore al quale mi abbandonavo volentieri.
In Italia non mi è mai capitato di trovarmi pagata una bevuta al bar da una donna, in Messico sì. In Italia raramente ho frequentato posti che non avessero un codice, di orari, di costi, di bevute, di vestiti, in Messico sì, perché qui bastano dei sandali, una maglia bianca, un jeans scolorito, un pugno di pesos, uno zaino sempre pronto e un sorriso aperto agli altri.
Un salvataggio particolare
Ma la mia prima volta nell’Oceano Pacifico doveva in qualche modo segnarmi, più a fondo direi e “fondo” è una parola decisiva in questo caso… Puerto Angel, abbastanza vicino a Puerto Escondido, la lunga spiaggia gialla di Zipolite. Turismo alternativo. Surfisti, nudisti, baristi. Un’umanità che vive con poco, spesso in tende, sulla spiaggia, sotto una palma. Là davanti l’Oceano, azzurro, enorme, seducente. Se le onde del Pacifico sono lunghe a Zipolite sono ancora più lunghe ma anche infide, traditrici.

Mi immergo, come faccio mille volte a Sabaudia dove le onde non mancano. Faccio capolino una decina di volte dall’acqua, nuoto a rana, vado un po’ sotto, riemergo, mi trastullo, mi sento libero. All’improvviso senza essermi accorto di nulla mi ritrovo a trecento metri da riva, trasportato da una corrente silenziosa quanto micidiale. Provo a stare calmo, a nuotare in diagonale, rientrando lentamente. Niente da fare, continuo ad allontanarmi. Mi prende un discreto panico, mi agito, ma se mi agito troppo vado a fondo. Sulla riva fratello e amici sembrano ormai dei piccoli puntini, io comincio a sbracciarmi, a gridare aiuto. Loro mi rispondono con un ciao, è evidente che non hanno capito un cactus! Penso ad alta voce: “Non posso morire in un modo così stupido”! Ci tengo alla mia pellaccia da viaggio e il viaggio in Messico voglio finirlo, e da sano possibilmente! Continuo a gridare, dopo cinque interminabili minuti noto che a riva qualcosa capiscono e che qualcuno, finalmente, si muove. Si tuffa un Cristo messicano con una tavola da surf, in due minuti mi raggiunge e mi prende. Ringrazio tutti gli dèi del mais, della pioggia, dei serpenti piumati e dei giaguari conosciuti finora. Sorrido ai miei compagni di viaggio. Esco dal mare, esco dal terrore. Un attimo dopo esce anche il mio Cristo: era nudo, completamente nudo.
Vi lascio immaginare per il resto del viaggio dove ho sentito dire che mi ero aggrappato… Olè!

P.S
Ecco alcune delle scene più riuscite di Puerto Escondido, l’episodio del gallo da combattimento, l’incontro con una filosofia diversa, con un mondo diverso e ovviamente col pejote. Buon divertimento, buona colonna sonora, buon viaggio a Puerto Escondido.
“Quiero mirar un poquito de cielo”
Non ci sono Commenti