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I grandi reportages / Tutti i soli del Messico

Tutti i soli del Messico: il Confine – seconda parte

Zia Giovanna

La prima città-mostro del Confine è proprio l’assurda Tijuana

La prima città-mostro del Confine è proprio l’assurda Tijuana, caldissima, aggressiva, tentatrice, manipolatrice. Per Cacucci “una metropoli di frontiera, una perenne Saygon occupata, frenetica e indolente, che pompa invasori e fuggiaschi a ritmo continuo, a fiotti, a fiumane”. Per molti altri giovani la città dove arrivare, dove adattarsi, dove accettare ogni lavoro pur di pagare “il salto”.
La città chiamata per sbaglio Tia Juana, Zia Giovanna, dalla probabile storpiatura di un frate di un termine indigeno che indicava un villaggio poco lontano o il nome di una signora del luogo. E fa tenerezza pensare che una delle frontiere più trafficate del mondo abbia il nome di una parente!
La città bastarda di chi scende al sud inseguendo il sole, il sesso e l’alcol nei bar a luci rosse, l’indigestione di tortilla, tacos e birre, i soldi facili, ogni tipo di vizio, ogni tipo di droga, ogni possibilità di contrabbando.

l’indigestione di tortilla, tacos e birre, i soldi facili, ogni tipo di vizio

La città dove gli americani in vacanza cercano emozioni nella Plaza de Toros più famosa del paese, ubriacature scomposte nelle cantine, donne facili e calienti negli umidi vicoli e nei laidi bordelli, risse continue coi machos messicani nei bar, nelle sale del gioco d’azzardo o nella polvere.
La città torbida dove prima o poi ti ritrovi sommerso dalle grida e dalle scommesse nei recinti dove combattono i galli fino a che uno cade nella polvere con la giugulare tagliata dalle navajas sistemate sugli speroni del prode avversario, con la puzza del loro sangue che fa vomitare.

La città che si ingrandisce sempre di più per dare uno spazio ai sogni (ormai è diventata la quinta più popolosa del paese) e dove qualcuno spesso resta ammazzato per strada alla fine di una qualunque notte proibita messicana. Quando non si tratta del membro di una banda probabilmente è il turista più tonto o imprudente o volgare degli altri, quello che si è spinto troppo oltre. Come negli anni ’20, ai tempi del proibizionismo quando arrivare a Tijuana per un americano significava ridersela dei divieti, ascoltare le canzoni di Rita Hayworth e come minimo precipitare in qualche traffico illecito, in qualche inganno pericoloso e in qualche atmosfera ambigua.

Poi la Zia crebbe a dismisura con gli agglomerati di baracche costruite intorno ai capannoni e ai fumi delle zone industriali, ambienti questi responsabili di condizioni ambientali e lavorative assai difficili. E generazioni di messicani sono rimaste qui, vicino al Confine, a faticare, a risparmiare, a sognare un giorno di scavalcarlo. Spesso rimanevano solo le illusioni: “Nessun matrimonio con l’albergatore, una cugina che lavorava come domestica a San Diego, il tentativo fallito di passare dall’altra parte, e il lavoro in una maquiladora, nella polvere della Mesa de Otay. Che rendeva ancor più struggente la nostalgia per il vulcano, le montagne, l’aria densa di rumori vitali, il verde scuro della selva…” (il destino di Adelita in “Demasiado Corazòn” di Cacucci).

nei recinti dove combattono i galli fino a che uno cade nella polvere

Di qua e di là

Quando sei sulla linea del confine nei modi, negli sguardi, nelle battute dei messicani di Tijuana leggi facilmente un atavico risentimento verso i vicini più ricchi, più biondi, più grassi. Considerati, quando va bene, come degli sfruttatori che illudono il popolo con gli impieghi a basso costo nelle maquiladoras, le fabbriche dove si assemblano i prodotti Usa con la manodopera locale, dalle bambole alle tv. Oppure come dei polli da spennare e da ingannare, appena mettono il naso “di qua”. “Di qua” significa tra i grattacieli del centro cresciuti in modo disordinato, tra la polvere dei barrios che occupano le colline, lungo i km di deserto e di filo spinato e di muro e di lamiera ondulata ricoperta di graffiti che rendono plastica l’idea della frontiera dei dannati.

“Di qua” significa tra i grattacieli del centro cresciuti in modo disordinato, tra la polvere dei barrios che occupano le colline

Ogni notte migliaia di clandestini vogliono superarla: tramano, pagano, pregano, corrono, saltano, scappano verso la promessa attesa da una vita, verso la California. Vengono ributtati indietro in terribili campi di concentramento, oppure trovano un complice, un camion, un buco, un varco e cominciano una nuova sfida. Si dice che ce la faccia uno su dieci.

Per quanto ancora?

Nell’oscurità tante vite dolorosamente si spezzano o miracolosamente rinascono. Tra palpitazione e agitazione, tra disperazione e corruzione, calcolando i tempi, i secondi giusti, per guadare il fiume e saltare definitivamente l’agognata palizzata. Sarà per sempre così? Rimarranno ancora per tanto sulla frontiera tra Tijuana e San Diego gli elicotteri, le jeep mostruose, i mattoni alti, i poliziotti incattiviti, i sensori elettrici sotto la sabbia, i visori a infrarossi? Questa parte di mondo sarà sempre divisa tra clandestini e privilegiati?

Questa parte di mondo sarà sempre divisa tra clandestini e privilegiati?

Inciso sul Confine

Il nostro viaggio sul Confine si limita a Tijuana, andare oltre, verso est, sarebbe un viaggio troppo lungo e complesso, anche rischioso come dimostra il racconto “giornalistico” che segue. Perché arrivano città alle prese con tragici problemi, soprattutto una, da dove la gente normale vorrebbe scappare, la spaventosa Ciudad Juarez.
Dopo Tijuana ecco Mexicali: “Di notte la periferia di Mexicali appariva desolata e spenta. Anche lì, i capannoni delle maquiladoras sciamavano nella piana polverosa, e alcuni, illuminati da potenti fari, sembravano rozze astronavi atterrate per un’avaria” (Cacucci, “Demasiado Corazòn”). Il paesaggio resta anonimo e crudo e racconta anche se non le vediamo le stesse storie di vite in bilico.

Dopo Tijuana ecco Mexicali: “Di notte la periferia di Mexicali appariva desolata e spenta.
* copyright

Ciudad Juarez sprofonda nell’orrore

Le nostre coscienze si svegliano ogni tanto, quando dall’altra parte del mondo i media non riescono più a ignorare qualcosa di troppo forte, di troppo macabro: una realtà insostenibile. Dopo San Piedro Sula in Honduras, per colpa dei cartelli dei narcos che si massacrano tra di loro e per colpa di efferati e ripetuti delitti di uomini che non possono definirsi uomini a carico di sventurate donne, Ciudad Juarez, situata sul bollente confine Messico/Usa, è diventata la città più violenta e più pericolosa del mondo. Sempre di più i giornali e le tv con coraggiosi reporter (perché a rischiare la pelle alzando il coperchio sull’orrore sono anche loro) raccontano di stragi sanguinarie, di fosse comuni, di vendette atroci, di membri di gang rivali fatti letteralmente a pezzi, di macchine e quartieri incendiati, di partite di droga che causano guerre urbane, di povere donne provenienti da famiglie disagiate che lavorano nelle maquiladoras e che la sera non rientrano più a casa, perché inseguite, braccate nel buio, stuprate, torturate, uccise, sepolte o fatte sparire in altri modi selvaggi.

(foto presa da wikipedia)

Il pianto delle famiglie

Famiglie di peones piangono il figlio maggiore caduto in un’imboscata, neanche una tomba gli hanno potuto dedicare perché i resti non li hanno trovati, lo piangono solo su una collina del dolore simbolica, piantonata di croci, con cumuli di terra che aumentano in modo angosciante, mese dopo mese: l’ultima casa di chi non tornerà più.
Altre famiglie non vedranno più le loro ragazze, vittime dell’altra violenza di Juarez, la violenza di genere cioè il femminicidio. Spesso giovanissime, uscite da scuola, dal lavoro, dalle fabbriche di tessuti o di pezzi di montaggio situate lungo la frontiera, salite su un bus per tornare nella casetta di periferia tra le ombre della notte e poi sopraffatte, umiliate, svanite nel nulla o ritrovate impaurite e ferite o peggio tumefatte, mutilate, smembrate, nei canali, nelle discariche, sotti i ponti che arrivano in America. L’aria intorno che si fa qualunquista, ipocrita, le istituzioni che non vogliono vedere e diventano i complici più colpevoli: “si sono suicidate”, “sono morte nella fuga verso gli Usa per un incidente”, “spacciavano droga e hanno pagato il prezzo”, “i numeri sono gonfiati dall’opposizione” e tutto il corollario di commenti e scuse tristemente prevedibili.

Il corridoio della morte

(foto presa da wikipedia)

Così morte dopo morte, strage dopo strage, Ciudad Juarez è purtroppo diventata il simbolo nero di tutte le piaghe del Messico, un paese stupendo ma in alcune zone ormai troppo fuori controllo, deturpato da crimini, corruzione, terrorizzato e steso dalla ferocia dei trafficanti di droga che si contendono quartieri, terre, villaggi, glorie e guadagni. Juarez ha pagato il fatto di trovarsi davanti a El Paso in Texas, su quello che forse si è trasformato nel principale corridoio di contrabbando. Le bande e il racket spediscono con le buone o con le cattive tutto quello che lo scomodo vicino richiede, dai soldi, ai killer, alle donne, alla cocaina. E per assecondare questi appetiti, per mangiarsi questa fetta di rancida torta, la parte malata di Juarez è cresciuta, ai criminali del narcotraffico si sono sommati e mischiati i deviati, gli omicidi a scopo sessuale.

Il buco nero

In un film americano con Jennifer Lopez, “Border Town”, si testimonia come si può questa tragedia infinita
*copyright

La città è entrata inesorabilmente in un buco e dall’inizio degli anni ’90 le cronache hanno registrato circa 2.000 morti all’anno, tra loro moltissime donne. In un film americano con Jennifer Lopez, “Border Town”, si testimonia come si può questa tragedia infinita.
Neanche l’invio di 10.000 soldati a controllare e sostituire una polizia corrotta hanno sistemato le cose, neanche una messa del Papa Francesco in questa terra martoriata ha fermato l’orrore, il traffico dei migranti prosegue, le donne continuano a morire, le croci rosa sulla collina non si contano più, il sangue a scorrere. I messicani chiamano Juarez “la città che uccide le donne” e a Juarez ormai di giorno i marciapiedi sono vuoti e si vedono di più le inferriate e le porte sprangate. Si sentono solo le sirene delle volanti, neppure gli americani scavalcano più il Rio Bravo per trovare tequilas e mignotte, nelal città che voleva sfidare Las Vegas si è spenta ogni luce. E’ finita anche la speranza.
Dio salvi questo Messico di confine da tutti i suoi mali, da tutti i suoi demoni.

Monterrey, da Zorro alla modernità

Inciso: l’ultima storia del Confine mi piace dedicarla al suo eroe mascherato, che non si incontra più sui deserti altopiani del Messico ma che vive nel cuore di ogni messicano in cerca di dignità e di riscatto.

Monterrey, da Zorro alla modernità

Con oltre tre milioni di abitanti è la terza città del Messico e uno dei maggiori centri industriali del paese. Ha una posizione scenografica perché sorge sulle rive del fiume Santa Catarina ed è dominata dal Cerro de la Silla che le fa da quinta teatrale come la Table Mountain a Cape Town. Il centro storico di Monterrey si sviluppa intorno alla Gran Plaza e mescola vari stili architettonici, fino a stupire con le sue sculture d’avanguardia. Non mancano musei d’arte, mercati, una grande fabbrica di birra, dollari investiti dai vicini americani, una certa vita febbrile, eccitante, dinamica.
Si lavora e ci si diverte a Monterrey, molti giovani praticano sport e frequentano locali alla moda, le periferie più povere esistono e a volte anche qui la violenza sfocia in situazioni drammatiche ma dall’idea che mi sono fatto le ansie e le chimere del confine sono assenti, delegate a Nuevo Laredo, 220 km più a nord.

Si lavora e ci si diverte a Monterrey, molti giovani praticano sport e frequentano locali alla moda

Il mito della Zeta

In questo Stato avanzato e moderno sopravvive tuttavia un mito romantico e tenebroso, quello di Zorro e solo il Messico sa quanto bisogno abbia ancora del suo eroe mascherato per resistere in modo simbolico alla prepotenza di chi vive oltre la frontiera.
La figura di Zorro nasce da lontano, gli inizi della sua storia e delle sue gesta si debbono all’invenzione di penna del romanziere americano McCulley a inizio ‘900, capace di assemblarli e contaminarli con alcune caratteristiche del personaggio di Primula Rossa, di un tale Joaquin Murrieta realmente esistito e di alcuni banditi-rivoluzionari che compivano le loro fulminee scorribande nel polveroso nord del paese a metà dell’800.

Che fosse o meno la scelta di vita fatta da uno sconosciuto gentiluomo cui gli avidi cercatori d’oro venuti dall’America stuprarono e uccisero l’amata moglie, che fosse o meno la faccia del nobile Don Diego de La Vega a nascondersi dietro la maschera e sotto il cappello e il mantello nero, nel Messico disastrato e violentato di allora Zorro divenne ben presto una leggenda, alimentata per ovvi motivi di resistenza, di dignità e di riscatto dalle masse dei poveri peones.

Bello, astuto (in spagnolo zorro significa volpe!), ribelle, atletico, agile, generoso e coraggioso Zorro aveva tutte le qualità per la fantasia popolare, era molto simile a Robin Hood, sempre pronto ad aiutare gli ultimi, a proteggere i deboli, a punire i prepotenti, a combattere di cappa e di spada le truppe messicane, spagnole o americane, a prendere al lazoo i politici arroganti e corrotti di turno, a portare giustizia nei villaggi dei contadini sfruttati e avviliti. E a lasciare sulla pelle dei suoi nemici, sulle giubbe dei soldati o sulla pancia del corpulento sergente Garcìa condannato a indossare una divisa sempre troppo stretta, la sua firma beffarda a forma di Zeta.

la leggenda di Zorro, prima impersonato da Douglas Fairbanks, poi da Tyron Power e Guy Williams
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in tempi più recenti da Alain Delon e Antonio Banderas
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Dietro la maschera

Il cinema ha avuto un ruolo fondamentale nel perpetuare il mito e la leggenda di Zorro, prima impersonato da Douglas Fairbanks, poi da Tyron Power e Guy Williams e in tempi più recenti da Alain Delon e Antonio Banderas. Tanti volti per ritrarre lo stesso carattere passionale, la stessa furbizia, la tagliente ironia, lo sguardo seduttore da playboy latino, tante maschere per descrivere le sue lotte per il bene, i suoi amori galanti, la sua sete d’avventura. In particolare nella versione con Banderas, Hopkins e la splendida Zeta Jones la storia di Zorro si basa su molti elementi veritieri quali le origini nobili dell’eroe e la sua hacienda-rifugio piena di grotte e tunnel segreti nei quali l’eroe nasconde i suoi abiti neri e il suo veloce destriero e prepara le sue incursioni.

In particolare nella versione con Banderas, Hopkins e la splendida Zeta Jones
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Dove c’è un torto da raddrizzare nel Messico del nord arriva Zorro, dove c’è un’ingiustizia da vendicare, un villaggio da salvare arriva sempre lui, col mantello al vento, con la spada sguainata, il colpo di frusta, al galoppo di un cavallo selvaggio, a chiudere il film, lo sceneggiato, il romanzo (vedi la bella versione di Isabel Allende), il fumetto, il cartoon, con la sua silhouette nera che va a contrastare l’infuocato tramonto.
Mi piace finire questo lungo viaggio fisico e letterario in Messico immaginandomi Zorro che salta ancora una volta dal suo cavallo Tornado, da sopra il tetto di una cantina, di una decadente missione spagnola o di un trading post, per sottrarsi a ogni avviso di taglia sulla sua testa, per salvare una donna in pericolo, aiutare un poveretto preso a calci dalle guardie o per impedire un’esecuzione.
E fuggire via, libero come il vento.
Oppure impersonato in chiave moderna dal volto coperto dal passamontagna del Subcomandante Marcos nel Chiapas. E’ come l’inizio di un’altra leggenda. E’ come un cerchio che si chiude.

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