L’America di Cancùn
Il volo charter ti scarica inevitabilmente qua, nella città messicana che più di tutte ha imitato il modello di sviluppo commerciale e turistico proposto dalla vicina Miami. Palme vere e palme al neon, alberghi di lusso alti venti piani e un cocktail per ogni ora del giorno in tutta la zona hotelera, l’atmosfera leggera, divertente e strafottente, le bellezze assolute del mare e le follie delle discoteche, gli americani e le americane mezze nude ai bordi delle strade durante gli spring-breakers, teenagers venuti apposta nel Caliente Mexico durante le pause scolastiche a stordirsi di sole, balli, sesso e tequila. In modo quasi compulsivo, senza degnare di uno sguardo le incredibili testimonianze storiche che un viaggio più vario e consapevole è facilmente pronto a rivelare.


Cancùn è il volto più disimpegnato dello Yucatan, anzi del Quintana Roo, una regione appendice della terra dei Maya. E’ la città degli eccessi (il suo nome Kan Kun in maya significa Vaso d’Oro), senza orari, la cui costruzione si è decisa al computer, individuando prima una lunga e soffice striscia di sabbia bianca, inondata di sole e di caldo per quasi 300 giorni l’anno, poi cominciando a tirar sù i primi hotel nel 1974, poi l’aeroporto, infine e ancora con ogni genere di evasione e di divertimento, di locale e di ristorante, di centro commerciale e di parco acquatico, di bar e di casinò, di sport e di piscine. Si, proprio di piscine, mai capito a cosa servano a due passi da un mare che è turchese come pochi altri al mondo.



Macchine da turismo
Da sola Cancùn si divora il 20% del fatturato turistico di un paese favoloso, anzi non da sola ma con lo speciale contorno delle spiagge e dei mercatini di Isla Mujeres, l’Isola delle Femmine, così chiamata perché i conquistadores vi trovarono le statue di una dea della fertilità, dei fondali di Cozumel, paradiso per i subacquei, e della quinta avenida di Playa del Carmen, cittadina lontana appena un’ora, mecca degli happy hour e della noche loca caraibica piena di ragazzi europei e di modelle latine, villaggio di pescatori di 15.000 persone solo vent’anni fa, venti volte di più quelli di oggi. Un delirio.


E le periferie di Playa, come la chiamano qua, dove sono venuti anche tanti italiani a svernare, a investire o a farsi perdonare qualcosa, continuano a crescere. Quartieri residenziali con piscine, villette, centri commerciali, marche su marche di negozi, un destino simile a quello di Sharm. Molto presto sul mare dei Maya si potrebbe arrivare a un milione di abitanti… Il futuro della Riviera Maya dipenderà quindi dalla domanda turistica prevalente: se il fruscio dei dollari continuerà ad essere il primo comandamento, se locali come il “Coco Bongo” faranno sempre più proseliti e il tutto esaurito a forza di schiuma party e adunate oceaniche di corpi sudati, se i fast food delle grandi catene soppianteranno le bottegucce che sfornano ancora ottimi tacos allora il destino “americano” di Playa è segnato. Ma il Messico ha mille risorse e potrebbe tornare a vincere anche un modello di turismo più sano, verde e alternativo.



Le Disneyland acquatiche
Su una autostrada molto trafficata, verso sud, si raggiungono le aree naturalistiche un po’ artificiali di Xcaret e Xel-ha dove il paragone che si può azzardare è quello di una “Disneyland ecoturistica con le lagune di acqua cristallina per nuotare coi delfini, passeggiare in un villaggio maya ricostruito, fare snorkeling e, a sera, partecipare a uno spettacolo di suoni e luci” (Jasmina Trifoni, Meridiani Messico). Tutti comodi, rilassati e divertiti in lagune con palme, canali, fondali, spiaggette, attrazioni e avventure. Col bus colorato che ti viene a prendere nel grande albergo di Cancun.
Ogni anno nello Yucatan si inventano qualcosa, il turismo ha bisogno di nuovi riti, di parchi tematici, il safari, la zip line, il cenote misterioso, la voliera di pappagalli e tucani, lo scivolo più lungo, i mariachi fuori la capanna, la degustazione dei peperoncini, il catch degli eroi mascherati, la lap dance coi raggi laser che riproducono il dio locale del serpente piumato, la pelea de gallos (il cruento combattimento tra galli importato dal centronord del paese), l’indio tatuato che ti aspetta nella giungla per una caccia al tesoro. Mancano la Donna Cannone e Mangiafuoco e ci sono tutti dove una volta c’erano solo i Maya.




Un viaggio diverso
Beh avrete capito che nonostante la splendida tentazione del mare l’invito per voi è quello di cominciare un altro tipo di viaggio: voltando le spalle a tutto questo, a questa edizione molto americana del Messico, comincia una piatta pianura calcarea di 200.000 Kmq dove gli unici picchi sono quelli delle piramidi Maya nascoste nella giungla, dove al massimo il caos delle città è rappresentato dalla coloniale e sonnolenta Merida, coi suoi portici, i suoi mercati, le sue chiese, le sue amache, le sue casas de la trova (genere musicale importato da Cuba), le sue ottime fajitas e i suoi distillati di agave.
L’altro viaggio è pertanto quello indimenticabile sulle tracce degli eredi dei Maya, il popolo messicano che fondò Tulum, Chichen Itzà, Coba, Edznà, Uxmal, Tikal, Palenque e mille altri siti e tesori minori, quel popolo che agli avidi conquistadores venuti a rubargli la vita e gli idoli ripeteva soltanto, prima del massacro, “Yuuch-ax-tann” che in lingua Maya significava “Non vi capiamo”. Da qui il nome di Yucatan, ma rispetto a tutta la stravolgente bellezza che questa terra può ancora offrire, quello che si rischia di “non capire” è soltanto il mondo dorato di Cancùn.


L’iguana di Tulùm
Le piaceva crogiolarsi, sdraiarsi, addormentarsi, indugiare ore e ore al sole. Spalmata come una pomata sulle uniche rovine Maya rimaste in riva al mare. Il suo corpo trovava sollievo in quella luce formidabile e trovava riposo davanti all’azzurra poesia del Caribe, in quella che era stata la città-fortezza dei Maya, la città-sacra dedicata al Sole e alla Luna.
L‘ho guardata a lungo perché sembrava un piccolo dinosauro e quindi anche se non è vero ti immagini che viva spaparanzata a Tulùm da chissà quanto tempo, testimone di chissà quante storie, custode di chissà quanti miti.
Le iguane sono gli abitanti più fedeli di Tulùm, quelle che hanno visto sornione e pigre i Maya di ogni generazione coltivare i loro campi di fagioli e di mais, preparare bevande piccanti a base di spezie e semi di cacao, stordirsi con il pejote e gli altri funghetti allucinogeni.
Proprio per ottenere dei copiosi raccolti agricoli li hanno visti pregare fin dalla notte dei tempi il dio della pioggia, Chac, il cui volto tenebroso è rimasto immortalato su tante facciate di palazzi nascosti nella giungla.
Il mais in particolare, che ogni tanto i nostri simpatici lucertoloni di nascosto si vanno a sgranocchiare, per il popolo di Tulùm era un dono sacro e una specie di Dio e non di rado sulle pitture rupestri rinvenute nei templi dello Yucatan il sovrano esibiva fiero, al posto degli scettri, due grosse pannocchie in mano! E la cioccolata furono proprio i Maya a scoprirla e a berla per primi e i loro eredi ci cucinano addirittura una prelibata salsa destinata a ricoprire la tenera carne del pollo.

Silhouette sui Caraibi
Oggi le iguane continuano a sorvegliare le pietre, a mettersi in posa per i turisti, a puntare le farfalle, i calabroni e gli insetti quando il sole le avvisa che è ora di pranzo. Le loro silhouettes accompagnano le foto più belle del Castillo di Tulùm, si stagliano davanti alla spiaggia dove ogni vero viaggiatore non può resistere alla tentazione di tuffarsi: al tramonto, quando i turisti sono ripartiti per Cancùn, sotto le rovine di una grande civiltà, immaginandosi di unirsi al mare come gli ultimi Maya lo facevano dopo un rito, dopo una battaglia, dopo aver costruito con immensa fatica il piano di una piramide.

Sono furbe comunque queste iguane, potevano finire dentro i cenotes della foresta (enormi cavità naturali del terreno, a volte anche sotterranee e piene di stalattiti, che servivano ai Maya per raccogliere l’acqua piovana o per celebrare i loro cruenti sacrifici) e vivere in una cappa perenne di umidità, oppure raggiungere le periferie di Tulùm Pueblo e rimediare gli avanzi nella spazzatura, o ancora rischiare di vedere il mondo e rimanere schiacciate su quella che ormai è un’autostrada a sei corsie e che collega Cancun al Belize.

Hanno invece scelto come loro residenza questa roccaforte Maya del 1200 d.C, situata in una posizione geografica incantevole, dove arriva un vento tiepido, una città-emporio che viveva del suo porto e dei suoi commerci e che aveva mutato lo stile delle sue architetture principali dal grande esempio della città-cerimoniale di Chichen Itzà.
Bella pensata costruirla qui, forse dopo tanta giungla i Maya avevano voglia di guardare il mare!


L’iguana della mia prima volta a Tulùm me la ricordo anche più curiosa di quelle che ho visto tornando in questo luogo magico dopo vent’anni: seguiva il profilo della scogliera a picco sul mare, dove secoli fa c’erano le mura difensive; curiosava fino dentro il Tempio degli Affreschi, più curiosa lei di alcuni turisti che manco lo trovavano il tempio! Le avrei messo un guinzaglio al collo per quanto mi era simpatica, ne avrei fatto il mio animaletto domestico e a distanza di tanto tempo mi piace pensare che fosse la stessa iguana di cui trovai le impronte nel mio bungalow, proprio sotto l’amaca, sulla sabbia!
Don Armando
Inciso di chi scrive: l’ho cercato col batticuore il mitico “Cabanas Don Armando” dove dormii la prima volta a Tulùm, l’ho ritrovato un po’ cambiato ma sempre molto autentico, purtroppo lo storico gestore è morto d’infarto e oggi il suo sogno nell’acqua si chiama “Zazil Kin”. Nella nuova gestione ci sono sempre le amache, la semplice pousada, il barbecue, il lavatoio collettivo come in un campeggio, le docce spartane, le colazioni servite su una panca, gli ombrelloni di legno e paglia dove gustarsi in pace una margarita, una pina colada, un taco intinto nel guacamole o un ceviche di pesce (marinato crudo nel lime). Qui gli ospiti che arrivano sono meno sofisticati e chiassosi di quelli dei resort che ormai lo assediano tutto intorno.
Da Armando – voglio ancora chiamarlo così – la vacanza ha bisogno di poche cose, basta ambientarsi un attimo e abbandonarsi a tutte le sorprese che la natura dello Yucatan ha in serbo per te, con quella spiaggia bianca e soffice come il borotalco, la barriera per lo snorkeling lì di fronte, i piccoli cenotes nascosti nella giungla ai bordi della statale. Per me resta il posto ideale per godersi Tulùm in modo semplice, per vedere le rovine all’alba e al tramonto quando non c’è nessuno, per aspettare le iguane che provano a farti il solletico ai piedi. Qua vicino, ad Akumal, le tartarughe per fortuna provano ancora a deporre le uova sulla spiaggia.



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