La domanda irrisolta
Ora che siamo nel ventre della capitale – ma ci siamo da turisti e quindi con tutta l’eccitazione e la provvisorietà di un innocente rito di passaggio – da dove possiamo cominciare per descrivere almeno un pezzetto di questa gigantesca, ambiziosa, sfrenata metropoli latinoamericana? Per provare a comprenderla in qualcuna delle sue mille anime? Forse da una frase del famoso scrittore Carlos Fuentes: “Non si può raccontare il Messico. Si deve credere nel Messico, con passione, con rabbia, con totale abbandono…”.

Fuentes sicuramente intendeva il paese in senso lato, tutta la sua patria, dalle solitudini polverose del nord, attratto come una calamita dal confine con gli Usa, respinto dalla “migra”, l’ambigua polizia di frontiera e violentato dai feroci cartelli dei narcos, all’umido sud degli stati indigeni e delle piramidi Maya, dalla Via dell’Argento degli altopiani centrali al Mar dei Caraibi col suo incanto turchese, ma una frase come la sua calzava a pennello soprattutto per la città più grande e vibrante delle Americhe, che da sempre sfugge a tentativi risolutivi di comprensione, per quanto è problematica, sterminata, attraente. Al punto che i messicani stessi non la chiamano per nome ma con una sigla che dice tutto: D.F, El de-efe, il Districto Federal, un territorio più ampio di una capitale, uno stato nello stato.

La natura del Mostro
Un’altra possibilità, più vicina a noi – basta fare un salto in libreria – è leggere “La polvere del Messico” di Pino Cacucci perché là secondo me, tra minuziosi giri per le cantine della capitale, ricordi vividi dello sterminio azteco e pagine memorabili sulla pelea de gallos (il cruento combattimento tra galli che fa parte però dell’immenso patrimonio folkloristico e culturale del paese) si conia la definizione più adatta a rappresentare con una sola parola le fauci della città: il D.F infatti viene presentato come “il Mostro”. Non nel senso di pericolosità, di cattiveria, ma di immensità, di ingordigia. Il Mostro che con la continua crescita delle sue periferie disperate come Nezahualcoyotl comincia a mangiarsi i fianchi delle montagne vicine, il Mostro sorvegliato dal vulcano Popocatepetl e sparpagliato ormai su una miriade di poveri villaggi e sugli stati confinanti, il Mostro che si coglie tutto insieme solo dall’alto, quando si vola via dal Messico e dall’aereo vedi per almeno mezz’ora “lo stesso mare di finestre, lampioni, fari, fuochi di bivacchi o di immondizie”.


Il Mostro che è una ragnatela di strade, di incroci, di case spesso incompiute, di fogne, di rumori, di colori, di odori, di lamiere, di cemento, il Mostro che non dorme mai, che richiama ancora tantissimi messicani: secondo statistiche difficili da aggiornare sono 20, 25 milioni, un quinto della nazione.
Accalcati qui: per vivere, per lavorare, per sperare, per cambiare, per sognare. Per avere un’occasione. Come hanno fatto tanti intellettuali nei decenni passati perché il Mostro è stato sempre anche capace di accogliere, i perseguitati come gli esuli, le menti febbrili come gli artisti inquieti, da Lev Trotzkij a Luis Bunuel, da D.H Lawrence a Malcom Lowry, Tina Modotti e Andrè Breton, Gabriel Garcìa Marquez, fino a Harold Pinter che vedeva nel D.F il posto più vivo del mondo.

Le cantine del D.F
Due o tre giorni che siano, quelli passati qui, non possono valere una stagione o una vita quindi più che una conoscenza valida della città si accumulano di essa soltanto delle percezioni, delle visioni parziali, dei frammenti. Per il primo impatto mi sento davvero di consigliare, come fa Cacucci nel suo riuscitissimo racconto di viaggio, un bel giro per le cantine. Sono tante, sono sparse, sono diverse per stile, arredamento, quartiere, anima e fauna locale. In alcune trovi gli yuppies di Città del Messico, i chilangos, “quelli che vanno sempre di corsa, fanno chiasso, si credono più svelti e più eleganti, si illudono di arrivare più lontano”, in molte altre, le più tipiche, spesso un po’ nascoste, straborda l’anima e l’allegria del popolo e fra cori di mariachis, sfilate di botanas (le tapas messicane) e litri di tequila capita spesso che “volano le sedie”.
Ne visitiamo parecchie e mangiamo sempre in questo modo nel D.F alternando peperoni piccanti, cotiche fritte, gamberetti all’aglio, fajitas di pollo, tacos di tutti i tipi, bevendo la Corona col sale e col limone che regna sovrana, scherzando con chi capita, giocando a domino o comprando biglietti di lotterie a cui non parteciperemo mai, conoscendo gente muy amiga per una notte.


I contrasti del D.F.
Poi ti aspetta la visita della città o meglio il tentativo di visita della città, che diventa spesso casuale, disorganico, a parti sovrapposte, perché il traffico assurdo, le tangenziali di km (Avenida Insurgentes è lunga solo 34 km!!), le centinaia di mercati, di musei, di luci, di stimoli, di atmosfere, ti permettono di muoverti sì con una mappa di base delle cose da fare ma le varianti sono sempre in agguato e se va tutto bene migliorano anche l’umore e le giornate.
Che città scombinata e incredibile, eclettica e caotica che è il D.F! Che fucina di cultura, di illusioni, di novità! Che agglomerato di razze, che insieme assordante di contrasti!
Le cronache giornalistiche la descrivono a seconda degli episodi e delle mode come un labirinto pazzesco, un laboratorio di nuove tendenze, come una seduzione infinita o come una sorta di apocalisse in terra, dipende se si guarda più al fatto che ospita il oltre il 50% degli studenti, delle industrie, del pil, dei teatri, dei cinema e dei musei dell’intero paese, o se si presta più attenzione alla sua aria inquinata, alle storie e alle violenze dei narcos o ai sequestri di persona, come mette freddamente e spietatamente in luce il film d’azione “Man of Fire” con un bravissimo Denzel Washington.


Nel Mostro la vita ti sbatte in faccia mille cose e tutte sono intense, passi in un attimo dall’arte allo smog, dai murales alla spazzatura, dai venditori ambulanti ai musei ricchi di reperti archeologici, dalle facciate barocche alle facce azteche, dalle vie silenziose dei sobborghi coloniali di San Angel e di Coyoacan coi caffè, le gallerie d’arte, le librerie e la Casa Azul di Frida Kahlo ai pueblos nati su colline di rifiuti e governati da boss pericolosi, dai giretti domenicali in gondola sulla placida laguna di Xochimilco alle architetture più moderniste, dai mercati enormi, animati e tipici come quello de La Merced ai quartieri blindati e ai club e ai negozi chic della Zona Rosa o di Polanco, sorvegliate notte e giorno da guardie armate di fucili a pompa.






Nel Mostro ti sposti sempre curioso, ti prende una specie di febbre, di energia.
In un paio di giornate puoi ripercorrere la storia della nazione guardando i murales di Diego Rivera al Palacio Nacional, ti ritrovi ad ammirare altre splendide opere di Orozco, Rivera, Tamayo e Siqueiros nel Palazzo delle Belle Arti negli eleganti Giardini dell’Alameda, guardi lassù in alto la Colonna dell’Angelo che dal Paseo de la Reforma sembra proteggere tutti i sogni e anche le periferie più lontane e più squallide di Città del Messico.


Poi ti riempi del bagliore della Residenza di Chapultepec e del suo bosco, del fascino delle collezioni del Museo di Antropologia, del misticismo della Vergine Nera di Guadalupe, della maestosità della Cattedrale più grande dell’America Latina, del ritmo di vita frenetico dello Zòcalo. Entri in una cantina, esci da una cantina, rientri in una cantina.


E contemporaneamente rifletti in Plaza de las tres Culturas sulle vestigia di tutte le civiltà che sono passate di qui, che si sono massacrate, mischiate, evolute, ti accorgi sotto le arcate di Plaza Santo Domingo dell’umile lavoro degli evangelistas che scrivono lettere per chi non sa scrivere, ti godi in Plaza Garibaldi tutto il folklore, le belle latine, le bancarelle con le maschere dei lottatori, le serenate dei mariachis che passano con grande disinvoltura dallo stile romantico a quello ranchero a quello rivoluzionario e se capiti nei momenti giusti assisti alle sfilate allegre e macabre delle calaveras in occasione delle feste, del Carnevale e del Giorno dei Morti.


Per i brividi basta chiedere, perché “dietro il velo”, a qualche capolinea raggiungibile dal centro storico, comincia la disperazione di certe periferie nord dominate dalle bande, no man’s land percorse da bambini che purtroppo vivono ai margini di tutto, tra baraccopoli e anonimi centri commerciali, sniffando la colla e i solventi chimici, ma francamente eviterei. Possono bastare le occhiate losche, le truffe dei contrabbandieri e dei ladruncoli, i tatuaggi degli aspiranti pugili tra le bancarelle dei mercati di Tepito o i concerti rock di qualche gruppo arrabbiato.
Box, lotta di eroi mascherati, combattimenti tra galli, concerti di mariachi o di band scatenate, spettacoli di suoni e luci sui monumenti, rievocazioni in costume, passeggiate in grandi parchi, visite in grandi musei, perfino le corride nella Plaza de Toros più grande del mondo: a Città del Messico per l’intrattenimento c’è solo l’imbarazzo della scelta.

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