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I grandi reportages / Tutti i soli del Messico

Tutti i soli del Messico: la storia e l’arte del Districto Federal

Dove splendeva Tenochtitlan

Quando a Città del Messico ti sembra di aver visto tanto, di aver vissuto tanto, serve fermarsi un attimo proprio dietro alla Cattedrale e acquisire fino in fondo una consapevolezza: è proprio qui che la capitale modernissima e voracissima di oggi mosse i suoi primi passi, qui dove secondo la leggenda un’aquila si posò con un serpente tra gli artigli su un fiore di cactus, qui dove sorgeva il Templo Mayor degli aztechi, qui dove intorno al 1500 prosperava un regno splendido e colto, pieno d’oro, che sembrava un miraggio sul lago, con a capo il sovrano Montezuma II, una sorta di Imperatore Adriano in terra di Messico per il suo amore per le arti e per la cultura.

la storia e l’arte del Districto Federal

Nella grande piana viveva prospera la civiltà azteca, c’erano templi di ogni tipo, ricche dimore, piazze e mercati, scuole di filosofia, di canto, di recitazione, bagni termali e campi di mais, una laguna pulita e pescosa, canali percorsi da canoe, orti e giardini lussureggianti, viali fioriti, botteghe di orafi, mosaicisti e vasai, abitanti in costumi sgargianti, che si dedicavano ad attività artigianali, processioni religiose, studi astronomici o al gioco della pelota.

Il lato oscuro degli Aztechi

Tutto tranquillo, pacifico, perfetto.
Tranne per un particolare, che ti viene in mente quando visiti il Muro dei Crani rinvenuto durante gli scavi per la metro del D.F e conservato dentro il Museo del Templo Mayor: gli aztechi non si trasformavano spesso in abilissimi e crudelissimi guerrieri per conquistare altre terre e popoli, il loro obiettivo era “solo” quello di fare numerosi prigionieri per i loro numerosi sacrifici umani.
I rituali erano davvero atroci, si apriva il torace della vittima con un coltello di ossidiana, si strappava il cuore, le membra se non mangiate (la coscia spettava al sovrano di norma, perché era la parte più saporita!) venivano sepolte sotto le piramidi, il sangue dei giovani maschi finiva sulle scalinate dei templi, quello delle ragazze a colorare di rosso il lago…

si trasformavano spesso in abilissimi e crudelissimi guerrieri

La fine di un impero

Tenochtitlan nel suo complesso rappresentava comunque una civiltà progredita e ricca, una meravigliosa città, “un’utopia realizzata” (Pino Cacucci, “La polvere del Messico”).
Fino al novembre del 1519, all’arrivo dei Conquistadores che rimasero a occhi spalancati davanti a tale scena fiabesca. Fino agli inganni di Hernan Cortès, arrivato anche lui come accadrà 15 anni dopo per Pizarro in Perù dalla povera e arida regione spagnola dell’Extremadura a prendersi le sue rivincite.

Fino alle trame della sua interprete e amante indigena, la Malinche, fino al sostegno dato agli spagnoli dalle milizie di Tlaxcala, la città rivale di Tenochtitlan. Fino all’abbaglio di Montezuma II che ingenuamente confuse Cortès come la reincarnazione di Quetzalcoatl. E fino alla sconfitta finale di suo nipote Cuauhtemoc che si fece bruciare i piedi per non rivelare agli spagnoli il nascondiglio del tesoro.

Gli Aztechi, come gli Inca poco dopo, come i Maya più avanti: in un attimo finì tutto.

l’abbaglio di Montezuma II che ingenuamente confuse Cortès come la reincarnazione di Quetzalcoatl

La storia a volte è rapida, crudele, micidiale: in tre anni si passò dalla visione estatica dei primi conquistadores a quella che, secondo la cronaca di uno di quei soldati, fu una vera carneficina, con gli aztechi uccisi o resi schiavi, i palazzi abbattuti, gli idoli rovesciati, e dove fioriva un grande impero era rimasto “un campo arato, col fetore della morte, col sangue che scorreva come l’acqua quando piove…”.

“Tenochtitlan fu rasa al suolo e la popolazione sterminata. Sulle sue macerie, nel 1522 furono gettate le fondamenta della capitale della Nueva Espana. La stessa che cinque secoli dopo sarebbe diventata la metropoli più grande del mondo” (Pino Cacucci, La polvere del Messico).

Caccia al tesoro

E il colossale tesoro di Montezuma II e del popolo azteco che fine ha fatto?

Tre le ipotesi rimaste in campo: ancora seppellito da qualche parte nella pancia della sua capitale, affondato con un galeone spagnolo durante il ritorno in Europa oppure messo in salvo da un corteo di sacerdoti in fuga verso l’America del Nord, alcune fonti dicono nell’attuale Utah. Ci sarebbe da ridere a pensare che gli americani che cercano ovunque nel mondo il petrolio abbiano un tesoro ancora più prezioso nascosto per sempre nelle loro sabbie!

il colossale tesoro di Montezuma II e del popolo azteco che fine ha fatto?

La città degli dèi

A un’oretta da Città del Messico si visita il meraviglioso e misterioso sito archeologico di Teotihuacan, misterioso perché abitato da chissà quali civiltà e culture precedenti, forse i totonachi, gli zapotechi, o i mixtechi, fin dal I sec d.C e nel massimo splendore fino al 900 d.C.
La meraviglia è invece ancora visibile ed è lo spazio enorme, sacro, dominato dalla mole severa e maestosa di due altissime piramidi a cinque corpi sovrapposti, per raggiungere la cima delle quali serve una lunga scalata. Ma poi si abbraccia il cielo, come un’aquila! E si aspetta in pace il tramonto che per gli aztechi era di fuoco perché il sole si rifletteva sulle pietre che a quel tempo erano colorate di rosso.

il meraviglioso e misterioso sito archeologico di Teotihuacan
Le maschere di pietra del serpente si trovano ancora numerose sulle scalinate della terza piramide più famosa del sito

Le Piramidi del Sole e della Luna erano unite dal Viale dei Morti e avevano, come sempre nel Messico precolombiano, delle funzioni religiose, servivano a pregare e a celebrare il dio della pioggia e quello del serpente piumato. Le maschere di pietra del serpente si trovano ancora numerose sulle scalinate della terza piramide più famosa del sito, il Tempio di Quetzalcoatl, e a fermarsi davanti a quelle enormi e feroci teste di serpente, con gli occhi enormi, con le zanne sporgenti, con le squame, con la corona di piume, per qualche minuto si prova la netta sensazione di tornare a un tempo remoto e mistico. Ci si sente osservati, catapultati in una storia grandiosa, quella di una città che era enorme, si sviluppava con una urbanistica razionale e geometrica su una trentina di km di lunghezza, che era divisa in quartieri per le varie classi sociali, alzava ovunque templi e palazzi dedicati agli dei o ai sommi sacerdoti e che era abitata al suo apogeo da 200.000 persone, tutte dedite al commercio, alla religione e all’arte. Nelle tombe e nella polvere di Teotihuacan si sono ritrovate vasi, tessuti, gioielli e bellissime ceramiche di ossidiana. Il suo governo era solido, forte, una specie di Roma antica nel mondo messicano. Tutte le culture successive presero le mosse da questa, da quelle del Golfo del Messico a quelle dei Maya.

una specie di Roma antica nel mondo messicano

Quando arrivò Cortès Teotihuacan era già consegnata all’oblio ma per gli aztechi era rimasto comunque un luogo sacro e ancestrale, seppur gli antichi splendori fossero diventati malinconiche rovine usate solo per arrampicarsi e scrutare più da vicino il cielo e gli dei. Ancora oggi i moderni messicani ci vedono un po’ l’origine del mondo, da amante del Messico mi piace pensare che non si sbaglino.

ma per gli aztechi era rimasto comunque un luogo sacro e ancestrale

I murales di una nazione

Il Palacio Nacional nella capitale messicana è stato la residenza dei vicerè, degli imperatori e dei presidenti del paese ma il suo motivo di maggiore richiamo sono divenuti i grandiosi murales di Diego Rivera, dipinti tra gli anni ’30 e ’50 e dislocati sulle pareti dei patios e sulle scalinate dell’edificio.
Coi murales di quest’omaccione geniale, bevitore e donnaiolo, marito di Frida Kahlo in una relazione appassionata e turbolenta, l’arte diventa politica, esce fuori dai musei, abbandona le collezioni private, snobba le chiese e si riversa genuinamente e audacemente nelle strade e nelle scuole, tra il popolo.

i grandiosi murales di Diego Rivera, dipinti tra gli anni ’30 e ’50

Con Rivera nasce in qualche modo una nuova forma d’arte, l’arte parietale (epigona della Street Art e dei graffiti attuali?), l’arte che finisce sui muri, che acquista un carattere pubblico e diventa accessibile a tutti e proprio per questo tutti conquista, perché si trasforma in uno strumento di istruzione per i tanti messicani che a quei tempi non sapevano né leggere né scrivere.
A guardare i maestosi o gli umili affreschi di Rivera, a coglierne il significato simbolico, un popolo intero comincia a evolvere, a migliorarsi, ad affinarsi, a riconoscersi.

Non è esagerato dire che forse il Messico moderno nasca proprio da qui.

L’arte del “Gigante” va dritta al cuore, racconta storie e miti, le origini ancestrali e le lotte politiche del Messico, la sua fierezza indigena come il suo fuoco ribelle e il suo magnifico folklore. Spazia dall’arrivo di Quetzalcoatl alla Revoluciòn, fino al Dìa de los Muertos. Una galleria incredibile di volti, meticolosa nel ritrarre i tratti somatici, le tuniche e i gioielli di aztechi e maya, vibrante nell’esaltare i sombreros, i baffi e i fucili delle rivolte, poetica nel ritrarre le ore del lavoro nelle officine e nei campi, quasi civettuola nel cogliere vezzi e vizi della classe borghese.

L’arte del “Gigante” va dritta al cuore, racconta storie e miti
le origini ancestrali e le lotte politiche del Messico
Spazia dall’arrivo di Quetzalcoatl alla Revoluciòn, fino al Dìa de los Muertos

Nativo della bellissima e coloratissima cittadina coloniale di Guanajuato (forse per questo motivo estetico il pittore amò sempre tanto l’uso del colore?) Rivera riempì la sua opera di temi storici e sociali tributando onori alle radici delle civiltà messicane, alla fatica dei peones, degli ultimi e agli ideali della sinistra internazionale. Fu anche scomoda e poco gradita specie quando negli Usa Rockfeller gli impose di cancellare Lenin dal grande affresco “L’uomo controllore dell’Universo”.
Rivera non mancò tuttavia di realizzare magnifiche scene di vita quotidiana attraverso le quali indagare il fenomeno dei costumi, dei riti, delle abitudini del suo popolo. Illustrò anche il Canto General del poeta cileno Pablo Neruda.

llustrò anche il Canto General del poeta cileno Pablo Neruda.

L’arte e il dolore di Frida Kahlo

Possiamo dirlo: Frida Kahlo non fu una donna molto fortunata, ma con l’amore per l’arte trovò uno splendido significato da dare alla sua vita tribolata. Grazie alla pittura si aggrappò alla vita, esplorò a fondo tutte le sue pulsioni vitali e di vita si colmò ed esplose. Per conoscerla meglio, respirare certe atmosfere, rendersi conto dell’ambiente dove la coglieva l’ispirazione, esiste una tappa obbligata ed è la Casa Azzurra di Coyoacan, dove visse dal 1929 al 1954 accanto al grande muralista messicano Diego Rivera, formando con lui la coppia che ha segnato di più la storia artistica del paese.

L’arte e il dolore di Frida Kahlo

La casa azzurra

In un quartiere di artisti ecco un rifugio da artisti, luogo natale di Frida, nido del suo primo matrimonio con Rivera che proprio qui, dopo la morte della compagna, volle dedicarle un Museo commemorativo. La casa ricorda coi suoi angoli e le sue memorie la più grande pittrice mai vissuta in America Latina ed è molto bella e poetica, con le pareti esterne luccicanti d’azzurro, il cortile interno pieno di una vasta collezione di terrecotte preispaniche e cactus americani, una volta pieno anche dei pappagalli, delle scimmie e dei cani che Frida dipingeva nei suoi quadri.

Si visita per primo il piano terra che è diviso tra la cucina con le piastrelle gialle e azzurre, la sala da pranzo adornata da ceramiche e utensili artigianali e la stanza di Rivera che conserva ancora i cappellacci e le tute con cui il corpulento artista dipingeva. Un po’ ovunque si sente l’odore di vernice e di legno, si notano sparsi altri cimeli, ritratti, i vestiti colorati e indigeni di Frida, i suoi gioielli etnici e le tracce del suo dolore, come i corsetti medici per tenersi stretto il busto spezzato in più parti e la protesi di ferro che prese il posto della sua gamba. Quindi si passa al piano superiore che si apre al mondo più intimo e solitario di Frida: qui sono rimasti il suo studio con la vetrata luminosa e il grande cavalletto e i pigmenti colorati ben divisi in bottigliette di vetro, qui campeggia la malinconica sedia a rotelle e il centro di tutto è la sua camera col letto a baldacchino, i vecchi mobili, le sculture.

C’era anche un’altra casa-studio per i due artisti, nel vicino quartiere di San Angel, tempio della loro seconda unione, uno spazio a prova delle loro continue liti perché si tratta di due palazzetti modernisti uniti da un ponte-passerella, da percorrere solo nei momenti lieti evidentemente e messo lì a garantire la reciproca indipendenza, il proprio spazio personale e creativo.

Un po’ ovunque si sente l’odore di vernice e di legno, si notano sparsi altri cimeli, ritratti, i vestiti colorati e indigeni di Frida

Le tappe di una vita

Frida Kahlo nacque nel 1907 (ma lei dichiarò sempre di essere nata nel 1910 per affinità elettive con la rivoluzione messicana di Pancho Villa ed Emiliano Zapata) e già a 6 anni la sorte le voltò la faccia: poliomielite acuta, una gamba che rimase per sempre più sottile dell’altra, la fanciullezza passata tra lo scherno e le offese degli amichetti che la chiamavano “gamba di legno”.

Da adolescente altre prese in giro per le sue sopracciglia folte (solo Rivera fu capace di nobilitarle chiamandole “ali di gabbiano nero”), per i suoi baffetti, ma lei è già una donna forte e se ne frega, anzi tenta degli studi medici e comincia a disegnare.

A 18 anni però subisce il secondo e decisivo trauma della sua vita: in un terribile incidente tra un tram e un autobus lei, passeggera ignara sul secondo mezzo, rimane schiacciata, le si spezza la colonna vertebrale, un ferro le si infila in pancia e le arriva alla vagina, si rompe in vari punti spalle e clavicole, la gamba, un piede, le costole, si disintegra quasi, vede la morte davvero da vicino, comincia a passare mesi e mesi a letto, immobile.

Potrebbe diventare pessimista e solitaria, invece resta incredibilmente vitale. Passa pure da un’operazione all’altra. Alla fine saranno 32!! Ma Frida Kahlo resta attaccata alla vita, eccome!

I suoi primi lavori sono degli autoritratti dipinti grazie a uno specchio che pendeva dal baldacchino

Nella convalescenza impara ad amare la lettura, la politica del partito comunista e soprattutto la pittura. I suoi primi lavori sono degli autoritratti dipinti grazie a uno specchio che pendeva dal baldacchino. Li mostra all’uomo istrionico e rivoluzionario di 21 anni più anziano di lei (“Non sono in cerca di complimenti, voglio le critiche di un uomo serio”) che intanto aveva infiammato il Messico coi suoi murales, Diego Rivera: fu l’inizio di un’unione artistica ed umana folgorante, passionale e maledetta perché dopo le nozze celebrate nel 1929 tra “l’Elefante e la Colomba” (i giornali del tempo li chiamavano così!) Frida dovette subire ogni sorta di tradimento e umiliazione e quindi si ribellò a sua volta scegliendo anche lei una serie di amanti, sia donne che uomini (Trotzkij e Breton per esempio).

Decisiva per la rottura fu la liaison tra Rivera e sua sorella, che causò il divorzio.

Puntale arrivò il pentimento del pittore, un nuovo matrimonio nel 1940 stavolta vissuto in case separate. Puntuali però si manifestarono anche dei rovesci, due aborti, la compagnia fissa della morfina e dell’alcol, dei nuovi tremendi dolori che causarono a Frida l’inserimento perenne di un busto d’acciaio, la perdita di una gamba e alla fine la morte per embolia polmonare nel 1954.

Il suo miracolo è stato esattamente questo, trovare la vita nel dolore, partecipare alla vita con ostinazione anche se con un corpo spezzato, farsi travolgere dalla febbre dell’arte, della passione, dell’impegno politico, nonostante le sue sfortune, nonostante la sua pesante immobilità.

Il suo miracolo è stato esattamente questo, trovare la vita nel dolore

Viva la Vida

La voglia di bellezza e di vita di Frida Kahlo si esplica dunque nell’arte che si riferisce alla tradizione del meticciato messicano, a una serie di immagini simboliche e di icone votive che pescano nella cultura precolombiana come in quella spagnola.
Un’arte che predilige i colori accesi, che racconta il flusso vitale della terra, la speranza nonostante la malattia, lo strazio fisico, l’immobilità, le delusioni d’amore.
Un’ arte che dal buio le fa vedere la luce e le fa gridare, con tutte le sue forze, con tutto il suo talento e con tutti i suoi sensi “Viva la Vita”.

La stessa frase che scrisse sul suo ultimo dipinto, delle fette d’anguria rappresentate in modo fresco, leggero, luminoso. Un inno alla vita, al vivere fino in fondo il succo delle cose belle.

Illuminata dai suoi dipinti, dalle sue risate.

suo ultimo dipinto, delle fette d’anguria rappresentate in modo fresco, leggero, luminoso

Da quella grande prova di volontà il passo a icona (anche in chiave pop) di donna, di forza, di resilienza, di indipendenza e stile fu davvero breve.

Alcune celebri frasi di Frida Kahlo

“Ho subito due gravi incidenti nella mia vita…, il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego Rivera”

“Piedi. Perché li voglio se ho le ali per volare?” – “Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni”

“L’amore? Non so. Se include tutto, anche le contraddizioni e i superamenti di sé stessi, le aberrazioni e l’indicibile, allora sì, vada per l’amore. Altrimenti, non so”

“E’ lecito inventarsi dei verbi nuovi? Voglio regalartene uno: io ti cielo, così che le mie ali possano distendersi smisuratamente, per amarti senza confini”

“Non ci sono canoni o bellezze regolari, armonie esteriori, ma tuoni e temporali devastanti che portano ad illuminare un fiore, nascosto, di struggente bellezza”

tuoni e temporali devastanti che portano ad illuminare un fiore
*copyright

Alcuni brani del monologo di Pino Cacucci “Viva la Vida”

“La pioggia… Sono nata nella pioggia. Sono cresciuta sotto la pioggia. Una pioggia fitta, sottile…una pioggia di lacrime. Una pioggia continua nell’anima e nel corpo”.

“Ogni giorno, ogni notte… Ho amato Diego. L’ho odiato. E’ stato la causa e l’effetto. Il sole e la luna. Il giorno e la notte. Diego, la mia vita e la mia morte. La mia malattia, la mia guarigione. La mia coscienza, il mio delirio. La linfa più dolce, il deserto più desolato…”

“Sono stata al mio funerale nella lieve pioggia di un tardo pomeriggio, su un autobus che mi riportava a Coyoacàn”

“Eppure da questo mio corpo devastato si è sprigionato l’urlo rabbioso della vita”

“In quelle giornate eterne, ho cominciato a dipingere. Potevo muovere soltanto le mani. Potevo vedere soltanto me stessa: la mia faccia riflessa in uno specchio. La pittura è diventata l’unica ragione per aspettare l’alba…”

“Ho contato gli anni della mia vita con il mutare delle protesi sul mio corpo, dei busti in gesso ed acciaio che ho dipinto e decorato con mille colori come fossero armature per affrontare battaglie carnevalesche…”

“Io ho divorato la vita, ma non ho generato alcuna vita”

“Aspetto felice la partenza. E spero di non tornare mai più”

*copyright

I genitori degli aztechi

Nel Messico antico e precolombiano una civiltà prendeva il posto dell’altra. Lasciando Città del Messico passiamo velocemente nella culla della cultura tolteca, la città di Tula. I toltechi lasciarono a loro menmoria dei giganti di pietra, gli Atlanti, statue che ancora oggi ci raccontano il loro spirito guerriero, ricordandoci in qualche modo, coi loro sguardi fissi sull’orizzonte dell’altopiano e nel contempo della storia, i Moai dell’Isola di Pasqua. In fondo sono dei Mostri anche loro.

i Moai dell’Isola di Pasqua. In fondo sono dei Mostri anche loro.

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