Il sacerdote di Chichen Itzà

La prima cosa che ti ispira Chichen Itzà quando ci arrivi e quando superi le file di bancarelle che vendono le borsette di cuoio, i tessuti colorati e le false maschere maya è quella di metterti nelle vesti di un sacerdote del tempio. Che nella città-guida della cultura maya-tolteca, nel più grande, sacro e spettacolare sito cerimoniale dello Yucatan officiava i suoi riti.
I Maya erano un grande popolo e amavano guardare spesso il cielo.
Provavano se non a raggiungerlo ad avvicinarlo con le loro favolose piramidi. Senza grandi strumenti o grande tecnologia è miracoloso constatare quante ne sapessero di cose della volta celeste: come si chiamavano gli astri e quanto erano lontani, come si formavano le eclissi e le maree e se erano propizie ai lavori nei campi o alle feste più sacre, quanti pianeti avevano sopra la testa e come ruotava la terra.
Studiando i movimenti dei corpi celesti sono stati anche abili a inventare il primo calendario, basato su 365,2 giorni l’anno, un sospiro di difetto rispetto alle nostre convenzioni moderne!
La salita sul Tempio

I sacerdoti erano incaricati di invocare gli deì nella Piramide del Castillo, il poderoso monumento a base quadrata che da sempre si trova nella piazza centrale della città e che custodisce il tempio del giaguaro rosso con gli occhi di giada. Essi nella più classica delle scale gerarchiche rappresentavano coi nobili l’èlite del popolo Maya, quelli più considerati dal re, quelli che decidevano se fare le guerre o anche i sacrifici di giaguari come di nemici. Il sangue in quella civiltà ogni tanto andava versato, potevano anche decidere di mutilarsi o di tagliare la testa del capitano della squadra perdente nel gioco della pelota: il sangue serviva per ingraziarsi gli dei, per ridare la vita e la gioia al sole, per nutrire la terra e far prosperare il popolo.
Quando passi il tuo momento sul prato e osservi la grande piramide di Chichen Itzà la suggestione è facile: un sacerdote carismatico e solenne all’incirca mille anni d.C si arrampica lassù, su quei 365 gradoni angolari dove durante i solstizi il sole proietta l’immagine del serpente piumato, il potente dio Kukulkan (altrimenti detto Quetzalcòatl nella versione tolteca e atzeca). Allarga le braccia al cielo, prova a parlarci, a capirlo, a interpretarlo, ad anticiparlo.
Riferisce il verbo al popolo adorante che segue la cerimonia inchinato ai piedi di questo enorme e antico calendario di pietra. E la città sacra cresce in fedeli e in gloria. Coi sacrifici e con le feste.

Gli altri monumenti


Qui i Maya hanno imparato a parlare con gli dei, qui si sono conosciuti e riconosciuti, da un osservatorio astronomico come l’elegante Caracol hanno studiato le stelle, nell’impressionante e gigantesco Cenote Sagrado hanno ospitato sacrifici (quanti scheletri rinvenuti là sotto…) e immaginato l’Aldilà, nel Tempio dei Guerrieri hanno salutato i vincitori, sull’altare antropomorfo del Chac Mool posto in cima al tempio, sorvegliato da colonne serpenteiformi, hanno depositato offerte d’oro o cuori ancora pulsanti dopo averli strappati dal petto dei nemici, nella raccapricciante rastrelliera decorata da teschi hanno infilato i loro crani, mentre per fortuna nel Tempio delle Mille Colonne hanno “solo” animato le loro assemblee, i loro commerci e i loro mercati.

Le pietre di Chichen Itzà raccontano in modo incredibile tutto il suo avventuroso passato.


Perdere una partita
Sempre a Chichen Itzà, resa immortale da Topiltzin, un sovrano amante della medicina, della scienza e dell’arte, arrivato nello Yucatan perché cacciato con la sua corte da Tula (Messico centrale, poco a nord della capitale atzeca di Teotihuacan) e pronto a prendersi la sua rivincita impersonando addirittura il culto di Kukulkan, è rimasto ben integro e visibile il più grande stadio della pelota del Mesoamerica, uno splendido sferisterio più lungo di un moderno campo da calcio, ben 160 metri!!
Ma attenzione perché il “gioco” qui era leggermente diverso: senza farla cadere a terra nella propria metà campo, toccandola solo con la testa, coi gomiti, con le ginocchia e con le anche una pesantissima palla di caucciù doveva essere infilata dentro due anelli di pietra appesi lungo le massicce pareti verticali del campo. E il goal dei Maya valeva un po’ di più di quello segnato in un Mondiale perché per punizione la testa del capitano della squadra perdente rotolava via: zac, nel cenote, zac, sulla rastrelliera!

Secondo me il compito più bello restava però quello del sacerdote, ispirato dagli astri, dal sole, dalla luna, dalla notte, dal mais, dal serpente piumato, dal giaguaro, dal quetzàl, dall’ultima battaglia vinta, dall’ultima pelota infilata nell’anello, con la sua veste bianca, i suoi diademi dorati, il suo copricapo di piume, solo davanti all’immensità del mondo.
Figlio di quel mistero.
Il giaguaro di Uxmal
Quando l’indovino nelle profondità della foresta Maya saliva sulla piramide più alta e più ripida, ornata dalle maschere dell’inquietante dio Chac, riusciva a predire ogni tipo di futuro, riusciva a capire anche se i giaguari si avvicinavano pericolosamente al tempio, favoriti dalle ombre della notte.

Animali abituati a muoversi silenziosi vicino alle stupende pietre di Uxmal, la città Maya più elegante e raffinata, forse anche la più scenografica perché costruita su livelli diversi del terreno e quindi dotata di viste meravigliose, costruita nello stile ornamentale detto Puuc, pieno di fregi, di mosaici di pietra, quella dove i piccoli uomini dalla pelle olivastra verso il 900 d.C dimostravano già di avere straordinarie conoscenze astrologiche, astronomiche e matematiche.
Matematici, scrittori, artisti
Furono sempre i Maya a scoprire lo zero per indicare un ordine numerico vuoto e a dotarsi anche di un sistema di scrittura basato su disegni detti glifi, che ricordava quello dei geroglifici egizi (d’altronde anche i monarchi Maya a capo delle varie città-stato rivali tra loro ricordavano per splendore e potenza il culto ieratico dei faraoni). E poi l’arte e l’architettura di Uxmal, le piramidi, la vertiginosa salita a quella dell’Indovino, i Palazzi del Governatore e delle Monache, il complesso chiamato El Palomar perchè ha le parti superiori ricamate in pietra come le nostre colombaie: quante bellezze costruite fin dal 2.000 a.C e quante volte il volto del giaguaro riportato sulle facciate e sulle pitture, quel giaguaro che popolava i sogni, che faceva parte delle paure e dei sogni e dei riti dei Maya.

Qui intorno
I giaguari si sono fatti temere, amare, rispettare e sacrificare dai Maya, sono stati sempre qui intorno, tra i portali di Labnà, il Palazzo dei Mascheroni di Sayil, guardinghi, invisibili, a volte minacciosi perché affamati. Viene da cercarli nella foresta ai bordi del sito, come si cercano le teste di pietra del serpente piumato o le maschere di Chac.
Ombre nella notte, felini e signori della giungla.

La fine misteriosa dei Maya
Fino a che un giorno o per meglio dire un tempo, sono successe varie cose gravi insieme: forse hanno eruttato i vulcani, è arrivata la siccità, sono scoppiate epidemie e carestie, sono scarseggiati i raccolti, si sono impoverite le foreste, i contadini si sono ribellati alle angherie delle classi più potenti, le città-stato hanno ripreso a guerreggiare più del solito tra di loro lasciando numerosi morti sul campo e anche la più grande di tutte, la Tikal del Guatemala, finì nell’oblio. All’improvviso non sono nati più bambini e gli antichi Maya per la profonda crisi agricola, economica, politica e demografica sono tornati nel fitto della giungla e neanche i giaguari li hanno visti più.

Il grande inganno
Qualche cronaca storica descrive la loro fine soprattutto per colpa di un grande abbaglio: suggestionati dall’arrivo degli europei i Maya ingenuamente confusero Hernan Cortès per un dio o un potente sovrano e non seppero difendersi dal feroce assalto dei suoi sgherri, desiderosi di impadronirsi delle loro ricchezze. In quel momento la loro civiltà cominciò il suo declino. Per superstizione.

I Maya rimasti
Oggi i loro eredi in un territorio bellissimo di foreste, di spiagge, di siti archeologi sono circa sette milioni, tanti sono poveri contadini, ragazzi che lavorano nei resort turistici sul mare, donne che ancora arrostiscono pannocchie e filano tessuti che raccontano la storia delle loro comunità, indios sparpagliati, liberi o ribelli nella Selva Lacandona.
Si divertono anche i Maya certo, quando vanno a Merida per le compere, quando vanno al mare a Campeche o a Progreso perché quel mare è più discreto di quello di Cancùn, quando osservano a lungo e in pace i fenicotteri rosa di Rio Lagartos, quando “osano” arrivare anche nella tentacolare Cancun, quando festeggiano le loro tradizioni con danze lascive e bottiglie buone, quando arriva il giorno del mercato o della chiesa (la più bella di tutte: il convento giallo di Izàmal, dedicato al nostro Sant’Antonio di Padova). E forse qualche giaguaro li osserva ancora dietro le grandi foglie della giungla.



Non ci sono Commenti