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I grandi reportages / Tutti i soli del Messico

Tutti i soli del Messico: nella Selva del Chiapas

Nella Selva Lacandona

In piena selva Lacandona, dopo un tragitto in canoa lungo il fiume Usumacinta, seguendo a piedi nella giungla un bambino che cammina svelto a piedi nudi e che ha lunghi capelli neri che scivolano sopra la sua tunica bianca, raggiungiamo il piccolo centro cerimoniale Maya di Bonampak, il cui nome significa “Mura dipinte”. Lo splendore di Bonampak sta infatti nel suo Tempio delle Pitture, eretto probabilmente nell’VIII sec d.C per commemorare un capo cruento e vittorioso.

un tragitto in canoa lungo il fiume Usumacinta

In tutto lo Yucatan e nello stesso Chiapas dove siamo entrati seguendo il passo leggero di Celestino non si sono ritrovate da nessuna parte pitture così belle e importanti, seppur rovinate dagli agenti atmosferici, dal primo contatto con la luce e dal passare dei secoli: delle copie eccellenti per questo motivo sono visitabili al Museo di Antropologia di Città del Messico.

Il guerriero di Bonampak

Colori vivi, accesi e forti, mescolati e sovrapposti tra loro. Il rosso e l’arancio, l’ocra e il giallo, il fondale celeste, per rappresentare scene dei preparativi di guerra, scene di corte, di danze, dove si vedono sovrani piumati e soprattutto guerrieri dai tratti molto realistici che brandiscono armi, lance, scudi. Si lanciano sui nemici, massacrano, infilzano e sacrificano, festeggiano e banchettano.
La vita e la morte dei Maya non erano momenti noiosi.

Fisso a lungo uno di loro perché credo che davanti alla Cappella Sistina dei Maya bisogna scegliere come in quella del Vaticano alcuni soggetti per farseli restare bene impressi: fra i tanti corpi eccitati e tesi nello sforzo eccone uno che ha la maschera mostruosa di una divinità, forse rappresenta il dio del mais, si addobba il corpo di pelli e gioielli, ha una testa di giaguaro per copricapo, la lancia che decapita il nemico, le braccia levate, lo sguardo grintoso, le sue urla che infiammano ancora di più la sua carnagione rossiccia.
In questa cripta della Selva Lacandona la storia rivela in modo crudo e fatale la sua sorprendente capacità, quella di scorrere coi vincitori e coi vinti, con le feste e con i riti, con la gloria e la ricchezza, con il sangue e la morte. La giungla dove svettano le rovine completa il quadro di Bonampak.

Le rovine di Yaxchilàn

La giungla dove svettano le rovine completa il quadro

E la storia prosegue a rivelarsi nella vicina Yaxchilàn, la città Maya del Re Uccello Giaguaro, quasi sepolta dalla fitta vegetazione.
Per arrivarci fai un lungo viaggio, la canoa che traballa, i piedi che si gonfiano negli scarponcini, le foglie giganti e gocciolanti, l’umidità che ti si attacca addosso con qualche insetto di cui non saprai mai il nome, i versi degli animali nella giungla che a seconda dell’acuto o del ruggito mettono allegria o paura, gli uccelli colorati tra gli alberi, la frontiera col Guatemala segnata dalla sponda del fiume e come in un racconto africano o asiatico di Conrad alla fine di tutto, come da dietro un sipario di verde e di arbusti appare l’acropoli di Yaxchilàn, coi suoi tre templi di iscrizioni sormontati da crestiere eleganti, costruiti su scenografiche terrazze che anticipano le meraviglie di Palenque.

mettono allegria o paura, gli uccelli colorati tra gli alberi
templi di iscrizioni sormontati da crestiere eleganti

Chissà se gli antenati del nostro bambino-guida, del silenzioso Celestino, venivano da qui. Da questa natura primitiva, quasi impenetrabile, che protegge gli ultimi siti e gli ultimi segreti dei Maya. Dove vivono nascosti gli ultimi sciamani dei Lacandoni, quelli che credono che i loro dèi continuino ad abitare nei templi di Bonampak, di Yaxchilan e di Palenque, quelli che si sentono compagni di ogni albero e ogni animale e se cade un albero è come se cadesse una stella perché la loro religione assegna delle origini simili a tutti gli esseri viventi. Quelli che piuttosto che omologarsi o annullare la loro identità seguendo la vita e i consumi moderni preferiscono sparire per sempre nella selva, aspettando l’assalto del giaguaro o dandosi a volte addirittura la morte.

*copyright

Ancora il giaguaro…

Questa giungla ospita quasi la metà dei giaguari di tutto il Centro America e i Lacandoni come gli antichi Maya li rispettano e allo stesso tempo li temono, perchè nella loro visione ancestrale li reputano le incarnazioni delle cose più belle e più inquietanti che esistono sulla terra, ovvero il sole e le tenebre. I giaguari per loro sono i maestri degli spiriti, hanno la capacità di viaggiare tra i due mondi, quello della vita e quello della morte. Col loro coraggio, con la loro eleganza e col loro mistero rappresentano da sempre una metafora delle profondità dell’essere umano, della terra e del cosmo. Da qui la presenza pressochè fissa nel pantheon degli dèi dei Maya.

Inoltre gli indios li ammirano per la loro potenza (al punto che hanno dato loro il nome indio di yaguara che significa “colui che uccide la preda con un balzo”) e in effetti questi splendidi animali, con un solo morso o una sola zampata, possono uccidere un tapiro gigante, un piccolo caimano e le tartarughe di cui sfondano le corazze perché ne vanno molto ghiotti. In più sono capaci di vedere nella notte, di camminare in modo silenzioso, quasi furtivo, di arrampicarsi con sveltezza, predare in modo micidiale, nuotare con grande abilità. Amano i fiumi i giaguari, anche stare a mollo nell’acqua, catturare i pesci, e in tutta la giungla del Chiapas non hanno davvero rivali, anzi solo uno, l’uomo. Che nei secoli, come nel Pantanal brasiliano, ha cacciato le sue pregiate pellicce, ha disboscato il suo habitat, ha organizzato battute di bracconaggio, fino a causarne quasi l’estinzione.

Questa giungla ospita quasi la metà dei giaguari di tutto il Centro America
Giaguaro, "yaguara" che significa “colui che uccide la preda con un balzo”

Il tucano di Palenque

C’è un momento speciale che le rovine di Palenque vivono ogni giorno, da millenni: quando si alza lentamente la nebbiolina al mattino, quando l’umidità della notte e delle piante lascia spazio ai primi raggi del sole che illuminano i monumenti e tra i rami si vedono trionfare i becchi inconfondibili e i colori meravigliosi dei tucani che cominciano a svegliare la giungla col loro verso.
Dovette essere più o meno questo, accompagnato dalle grida di più scimmie, l’incredibile paesaggio scoperto nel 1840 da un avvocato americano e da un disegnatore inglese: una città magica, sepolta dal verde, regno degli animali, testimone silenziosa di un grande regno perduto.
Per fortuna sono numerosi ancora oggi e i tucani non la lasceranno mai Palenque, gli piace il suo verde, il suo clima tropicale, gli piacciono le sue piante e i suoi fiori, la polpa dei suoi frutti. Volano tra gli alberi i tucani della selva, fanno a gara a chi raggiunge prima il Tempio della Croce, il Tempio del Sole e il Tempio del Conte che bucano gli alberi per comunicare col cielo, o a chi si sistema prima sulla vetta della celebre Torre Astronomica a quattro piani da cui il cielo si studiava davvero. Sfilano per mettere in mostra il becco più lungo e potente o il miglior vestito di piume rosse, blu, gialle, sgargianti e allegre.

i tucani non la lasceranno mai Palenque

Sono un’icona del Sudamerica, sono animali magici e magica e sacra è anche questa città spuntata dalla giungla del Chiapas dove hanno vissuto famosi re in favolosi palazzi, residenze e cortili e dove forse c’erano anche strane persone, con gli smeraldi ficcati nei denti, con tanto oro da ricoprirsi tutto il corpo, con l’ambizione di raggiungere al volante di strane astronavi i fratelli alieni perduti nello spazio.

L’astronauta di Palenque

I Maya in contatto con gli alieni: era solo una fantasia o il più grande mistero mai nascosto in questa giungla? Era questo l’incredibile segreto di questa potente civiltà?

sito di Palenque

A interpretare il fantastico bassorilievo rinvenuto nella camera funeraria del Tempio delle Leggi (o anche chiamato delle Iscrizioni) del sito di Palenque si direbbe proprio di sì!
Là sotto, sotto otto ordini di gradoni, alla fine di numerose gallerie, svelato dal movimento di una leva meccanica scoperta per caso nel 1952 dall’archeologo messicano Alberto Ruz, c’era il sepolcro col sarcofago di Re Pacal, vissuto a Palenque tra il 615 e il 683 d.C, sovrano illuminato che contribuì come nessun altro allo sviluppo politico e culturale del primo grande sito dei Maya.
Che divenne la sua reggia.
Come nella cultura egizia il viaggio nella morte del sovrano era accompagnato da un ricchissimo corredo funebre di tesori, vasi policromi, gioielli lucenti, sculture commemorative, oggetti di uso quotidiano e altri di smeraldo, di perla, di giada ed io penso sinceramente che per la tanta bellezza Ruz ebbe un vero e proprio cedimento emotivo alla vista della maschera mortuaria di giada, ossidiana e madreperla posata sul volto mummificato del sovrano.
Immaginate il primo uomo a scoprire dopo secoli un tesoro del genere, un capolavoro immortale che ci mette in commovente comunicazione con l’arte e con la gloria di un popolo del passato.

Re Pacal, vissuto a Palenque tra il 615 e il 683 d.C,

L’immortale Pacal

Ma in più venne alla luce una scoperta sensazionale: la lastra di pietra che ricopriva la tomba di Pacal lo vedeva raffigurato in un contesto assolutamente misterioso e originale, come se fosse dentro una cabina di pilotaggio di una navicella spaziale, come se stesse guidando una specie di razzo per andare in cielo, con tanto di strani congegni, leve, fumi e fiamme, disegni del sole, della luna, delle stelle a rendere ancora più plastica l’idea, quella folle idea di un viaggio nel cosmo!

Secondo le teorie di altri studiosi l’opera ritrae invece Pacal a cavallo di un simbolico albero della vita, in procinto di precipitare agli inferi. Una specie di commiato volante.
Viaggio nel cosmo o negli inferi che fosse, da allora sui Maya di Palenque aleggia un affascinante interrogativo: erano venuti dallo spazio o erano lì destinati per ricongiungersi ai loro antenati? Oppure stavano lasciando la dimensione eterea del cielo con la morte che nella loro cultura significava rimanere nella terra? Mentre guardo senza stancarmi il piumaggio del mio tucano preferito – e si tratta di piume storiche insieme a quelle del quetzàl perché sono state ritrovate anche sul copricapo della scultura di Pacal – penso davvero che l’anelito umano di andare oltre e di scoprire l’ignoto risalga all’epoca del primo fuoco.

si tratta di piume storiche insieme a quelle del quetzàl perché sono state ritrovate anche sul copricapo della scultura di Pacal

Le tappe del Chiapas

Ricordo il mio viaggio tra le meraviglie del Chiapas, benissimo: l’ultimo saluto al bollore e al verde infinito di Palenque, la sosta per un pic-nic e un bagno fresco, coi jeans lasciati sbrigativamente sulla riva fangosa, alle cascate di Agua Azul, la fotografia alla Fonte della Pila in stile arabo-mudejar nella piazza di Chiapa de Corzo, il giro in gommone del Canyon del Sumidero con gli occhi che guardano stupiti le altissime pareti di roccia e alternativamente i coccodrilli sdraiati o mimetizzati sulle sponde limacciose. Un mango acerbo mangiato con imprudenza imperdonabile a colazione che mi rimbalza nello stomaco tutto il giorno, tanto che non sento le buche in cui puntualmente inciampa la vecchia corriera.

le cascate di Agua Azul
la Fonte della Pila in stile arabo-mudejar nella piazza di Chiapa de Corzo
il giro in gommone del Canyon del Sumidero con gli occhi che guardano stupiti le altissime pareti di roccia

E pian piano il paesaggio che cambia, che diventa montagna, cielo terso, aria fresca e alta. Il paesaggio che conquista i 2.000 metri della splendida San Cristobal de las Casas, che ci accoglie tra nubi gialle.

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