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Viaggio in Danimarca

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Ogni paese ha una qualità più distintiva delle altre: a me la Danimarca ispira quiete.
Fuori Copenaghen comincia un altro paese la cui dolcezza e tranquillità si rivela a tratti sorprendente. Un buen retiro per l’anima. Una scoperta lenta di paesaggi verdi e azzurri, punteggiati spesso da casette rosse. Villaggi o piccole città in mezzo alla campagna, una campagna davvero piatta che prima o poi finisce nelle spiagge e nel mare.

Le avventure di viaggio che racconto qui sono capitate in un’estate di alcuni anni fa quando, dopo aver visitato tutto eccitato la sua divertente capitale per la seconda volta, poi ho scelto insieme a un amico dell’Università di proseguire verso il nord del paese, per partecipare a un campo di lavoro in una fattoria nei pressi di un puntino sulla mappa geografica dello Jutland settentrionale, Hjorring. Ma prima c’era un buon pezzo di strada da fare e un nuovo, piccolo mondo da scoprire.

Odense, nel regno di Andersen

La prima tappa fu Odense, il prototipo della città accogliente e provinciale, situata nell’isola di mezzo della Danimarca, la Fionia, quella che i danesi chiamano il loro giardino per la presenza (un po’ più frequente…) del sole, dei campi coltivati, dei frutteti.
La gente di qui vive grazie al giro d’affari sviluppato dal suo porto commerciale oppure grazie al giro di turisti che vi arrivano sulle tracce del famoso scrittore di fiabe Hans Christian Andersen, quello del brutto anatroccolo, dei soldatini di piombo, della sirenetta, dello spazzacamino, della piccola fiammiferaia e della principessa sul pisello per intenderci.

Odense fu la sua città natale nel 1805, ci rimase a vivere per tutta l’infanzia e oggi conserva ricordi, sculture, musei, parchi e centri educativi per bambini ispirati alla sua figura. E’ rimasta come sospesa nella sua dimensione di luogo dei giochi e della favole e conta addirittura 250 tra spazi ludici e giardini per i più piccoli. La casa di Andersen è pitturata di un giallo pallido e si trova nel cuore di Odense, tra viuzze acciottolate, altre case dai colori pastello, angoli quieti, verdi, rilassati, campanili che rintoccano, balconcini fioriti, biciclette che procedono lentamente, forni che emanano un ottimo odore.

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Il ricordo del mio viaggio da inter-railer è legato soprattutto a un prato, a un plaid, a un pic-nic improvvisato. Si avvicinarono altri ragazzi danesi e europei, ognuno col suo sandwich e la sua Tuborg stretta in mano, la voglia evidente di aprirsi all’altro, coi soliti meccanismi che legano i giovani di tutto il mondo: la partitella a pallone, il sorriso nello scoprire il suono delle parole straniere, la promessa di rivedersi la sera nel pub del centro.

Con tre amici danesi passammo a zonzo i due giorni successivi alla “notte delle birre”: eccoci al mercato dello street food di Storms Pakhus a pranzare come perfetti cittadini di Odense, eccoci a indovinare l’uscita dei giardini a labirinto intorno allo storico castello di Egeskov, eccoci a scoprire il villaggio ricostruito di Fionia, esempio della Danimarca rurale che fu, eccoci infine a pranzo nel borgo marino di Kerteminde, eletto da poco dal National Geographic come uno dei più belli d’Europa.

L’addio a Fionia e a Odense fu con una gita in battello e bicicletta tra un paio di isolette dell’arcipelago. Rimanemmo quasi commossi a vedere queste piccole comunità vivere serene nelle loro piazzette, sulle loro spiagge, tra i loro giardini. Il postino che saluta tutti, il girotondo dei bambini in riva al mare, le immancabili nonnine a potare le siepi e le rose. Mi è un po’ tornata in mente la laguna di Burano, quei ritmi là, quei rapporti umani là.

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Arhus, il villaggio di una volta

Proseguimmo verso nord, percorrendo la lunga e sottile penisola dello Jutland. Avevamo appena visto la terza città danese e stavamo per arrivare nella seconda. Dal finestrino del bus scorrevano via immagini di campi coltivati a frumento, orzo, avena, patate e barbabietole da zucchero, c’erano i bovini danesi che pascolavano prima di diventare ottime bistecche esportate in tutto il mondo, si alternavano canali di irrigazione, mulini a vento, aziende agricole, pale eoliche. Un mondo d’erba.

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Ad Arhus passammo un’intera giornata soprattutto per un motivo, la visita di Den Gamle By, il Museo nazionale all’aperto di Storia e Cultura urbana, il salto che aspettavamo nella Danimarca di una volta.
Molto poetico e raccolto è una sorta di villaggio fermo nel tempo, le case hanno le facciate a traliccio, i tetti spioventi e i fiori alle finestre, gli abitanti vestono i costumi contadini locali, in una bottega artigiana si lavora il ferro, in un’altra la ceramica, in altre ancora il cuoio o il legno. In più le oche che starnazzano libere lungo i canali d’acqua sembrano quelle uscite da “Gli Aristogatti”, l’odore del pane appena sfornato fa pensare a case calde e cose buone, le carrozze coi cavalli superano fortunatamente le macchine e il rumore degli zoccoli dei bellissimi animali sul selciato si accompagna a quello delle campane e dell’acqua che sgorga dai laghetti e dalle fontane.
Un mulino ad acqua, un vecchio fienile, alcune locande, alcune osterie. Empori e fiorai, piccole bande musicali. I souvenir più belli della Danimarca.

Arhus come pausa gentile, necessaria.

Un posto per respirare e vivere la natura e le tradizioni contadine, dai tempi vichinghi a quelli medievali a quelli più moderni. I figuranti che amano il loro ruolo, il loro “lavoro”, la loro vita alternativa che sembra quella di una comune agricola: una Christiania di Copenaghen depurata dai vizi e dove restano solo le virtù e le buone maniere.

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Fuori del villaggio contadino Arhus si è sviluppata fino a diventare la seconda città del paese: pullula di giovani grazie alla sua Università, di negozi, locali, ristorantini, teatri e Caffè. Di parchi pubblici molto verdi e molto puliti. Ha il primo porto del paese e dintorni pieni di boschi e di spiagge.

Le bevute di Alborg

Sarò sincero: di Alborg, la quarta città del paese per grandezza, ricordo poco, ma della favolosa stradina dei pubs posso descrivere ogni dettaglio…
Il pomeriggio dell’arrivo ci recammo subito sullo spettacolare lungomare dove troneggiava la bianca e avveniristica Casa della Musica, poi ci siamo rifocillati di street food danese (gamberetti, formaggi, aringhe, zuppette) in una vecchia fabbrica di mobili, abbiamo dato uno sguardo alle vie coi graffiti e infine ci siamo sistemati nel cuore della città per passare un’allegra notte danese all’aperto.
“Ci siamo sistemati” vuol dire che abbiamo lasciato gli zaini alla stazione, indossato un maglioncino leggero e optato per una collezione infinita di pub, di birre, di bionde, senza neppure mettere piede in una pensione per riposare un po’. D’altronde era sabato sera, eravamo giovani e forti, anche un po’ matti e quella notte andava vissuta tutta di fila, a mischiare balli, baci, boccali, risate.
Probabilmente è stata una delle notti più spensierate della mia vita, latina per il calore umano, nordica per il clima, la luce di mezzanotte e il contorno femminile, alcolica per i contenuti, da perdere la voce per le grida sotto le casse che pompavano musica d’assalto, da perdere il sonno per il resto della vacanza per la felicità accumulata in così poche ore.

Grazie Alborg di quella magica notte.

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*copyright

(immagine del centro di Alborg presa da wikipedia – scusate ma avevo bevuto troppo per ricordarmi di fotografarla!)

Dove finisce la Danimarca

Tra Hjorring e Skagen c’è solo il paesaggio vuoto e ventoso da vedere, perché le cittadine valgono poco. Ma il mare aperto, le dune sabbiose, la luce fredda del nord, i colori dell’erba e dei fiori, le atmosfere create dai fari, dagli squarci improvvisi nel cielo, dai tramonti e dagli orizzonti mi sono rimaste nel cuore.

Come la fattoria sgangherata nella campagna di Hjorring, meta finale del viaggio danese, il suo motivo ispiratore in fondo. Letteralmente in fondo, perché quassù finisce proprio tutto: Copenaghen è troppo lontana (vedi racconto a parte sul topic “Metropolis”), manca l’aria da favola di Odense, quella contadina di Arhus, quella vitale e frenetica di Alborg, ci sono solo km di campagne e spiagge, l’Oceano che si apre davanti agli occhi e appunto una fattoria tra pascoli e dune da risistemare.

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“Campo ecologico” si chiamava, ma più che lavorare qui mi sono tanto divertito.

Nelle due settimane di fattoria ho conosciuto Danièl, navarro di Pamplona, che sarà il compagno di tanti viaggi, la guida per la scoperta della Spagna e il mio futuro testimone di nozze (!!). In più ho passato giornate splendide a dipingere palizzate, a raccogliere il fieno in enormi balle, a mungere le mucche, a riparare i trattori, a raccogliere gli ortaggi con altri giovani provenienti da tutto il mondo.

Per sveglia il canto del gallo, tra tutacce e forconi qualche sguardo d’intesa coi latini del gruppo per evitare i lavori più duri (devo ammetterlo, gli europei del nord sono più calvinisti, più produttivi, quelli del sud cercano ovunque il piacere e la creatività!), le mani sempre sporche di terra, i saccheggi dei rari pezzi di parmigiano nel frigo comune (!!), l’americana robustella del Wisconsin (soprannominata Whisky) caricata immancabilmente su una carriola per delle pericolose gimkane che solo a ripensarci mi migliorano ancora l’umore! (vedi la foto ingiallita qui sotto).

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Mi piaceva tanto, ogni due-tre giorni, scendere da una passerella montata sull’erba e raggiungere il bagno-asciuga: per restare solo davanti al Mare del Nord, alla punta estrema di Skagen, guardarlo a lungo e inebriarmi di tutto il vento e di tutta la luce che dal mare venivano profusi all’intero paesaggio.

La sera ognuno dei ragazzi ospiti della fattoria cucinava una ricetta del suo paese per gli altri, usciva sempre fuori una chitarra, una lotta coi cuscini nel salone dei sacchi a pelo. La mattina dopo una staccionata da montare per i tori da monta, il gusto del latte e del formaggio creati dal fattore, una corsa per i prati, una proposta di gita in bici per sfidare le dune. O per vedere gli uccelli quando il sole sempre più tardi nell’estate del Nord se ne andava giù.

Era bello sentire le grida di felicità in almeno sette lingue diverse.

Non c’era niente ma c’era in pratica tutto a Hjorring.

Ho capito più l’Europa quassù che sui tg, che sui libri all’Università.

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