Look da sabbia
Vestito coi colori del deserto, indosso il marsupio marocchino da cui non mi separo mai, lo zainetto da trekking con dentro la moleskine nera a righe, la bic blu e qualche cambio di vestiti. Una borraccia per quando il sole batterà forte. Una kefiah biancorossa per rimanere subito familiare a questi arabi moderati che mi appresto a conoscere. Porto le scarpe da trekking basse, ormai semisfondate. Non è un caso. Come il vecchio giacchetto verde militare, mi hanno servito troppo fedelmente. Meritano di essere seppellite in viaggio.
L’approccio con Amman

Aeroporto della capitale giordana: un cartello minaccia fino a due settimane di prigione per chi è colto in flagrante con la sigaretta in bocca in luoghi pubblici. Tutta scena. Ci affumicheranno ovunque, fino a farci lacrimare gli occhi.
Albergo della capitale giordana: di mattina presto otteniamo le nostre stanze. Sali le scale e, alla fine della rampa, se non stai attento, fai un bel volo: la parete è bucata, su tutti e tre i piani. Lavori in corso, li chiamano. Giustificano corridoi sporchi, rumori, un poveraccio che trasporta secchi, malta e mattoni tutto il giorno.
Panorama della capitale giordana: Amman sembra una cittadona brutta e caotica, dominata dal traffico e da un inquinamento che, all’orizzonte, lascia una lunga e sottile striscia grigia. Disposta su numerosi colli, originariamente sette, oggi ben ventitré, non mostra neppure uno spicchio di verde e le case, belle o bruttissime, sono sempre ammassate sulle pendici delle colline e sono tutte, invariabilmente, bianche. Un campanile cristiano è circondato da duemila minareti, come a ricordare chi comanda.

Poster della capitale giordana: sono abbastanza frequenti, enormi poster panoramici che ritraggono il re Abdullah, che tenta di seguire il percorso difficile e delicato del padre Hussein, per anni l’ago della bilancia del Medio Oriente. Accanto a lui il figlio, tanto per dire subito chiaro “niente ribellioni qui, niente primavera araba, da noi non si fa, la successione è già stabilita”. Auguri… perché avere ai confini territori contesi o occupati, Siria, Israele, Palestina, Iraq ed Arabia Saudita e non essere in guerra, non è di certo uno scherzo. Alternati ai poster del re ecco dei graffiti moderni che fanno sperare in un paese arabo moderato dove uomini e donne sono considerati uguali.

L’antenna di Amman
Percorriamo la via principale, una striscia d’asfalto che taglia le colline, fino ad arrivare in centro, dove si ammassano le abitazioni più povere, più avana sporco che bianco splendente. Le accomuna la presenza immancabile di un’antenna parabolica. Una moschea imponente, dalla cupola turchese, contende la skyline con quello che dicono i Giordani essere il palo da bandiera più alto del mondo (126,8 metri). Controllo per curiosità e scopro che i giordani mentono, superati da tre campioni di democrazia. Terzo posto? Turkmenistan: 133 metri. Secondo? Corea del Nord: 160 metri. Primo? Tagikistan, per l’appunto: 165 metri tondi tondi. Questa finta e ostentata grandezza in genere è destinata a nascondere oppressione, problemi, miseria.

Notte di fine settimana. Macchine piene di musica orientale assordante. Balli e rumori, negozi che non chiudono mai, angoli dove si fuma il narghilè. Ceniamo in un ristorante popolare dove, ingozzandoci di falafel, salsette, hummus di ceci e pane, spendiamo una vergogna. E ora davanti al primo cibo veramente locale sì, mi sento già un po’ più in viaggio.
Il dubbio di Mosè
Il mattino seguente eccoci in cima al colle dove sorge la Cittadella. Domina l’abitato, tra le colonne di un Tempio forse dedicato ad Ercole, cisterne, ruderi di bagni turchi, il panorama di un teatro, lo smog opprimente, un sole micidiale. La coltre di smog appiattisce tutto, ma non l’impressione che Amman sia una città tentacolare e che i suoi vicoli che restano nascosti al turista permettano di scoprire più nettamente il folklore e l’energia del popolo, i suoi mestieri, l’odore del sommacco e del thè alla menta.

Siamo in una terra che le antiche scritture hanno saccheggiato ed io ho ricordi vaghi, confusi. Così non riesco a provare una particolare emozione nel momento in cui, lasciata la polvere di Amman, visitiamo il Monte Nebo da dove si narra che Mosé avvistò la terra promessa e morì. Perché dubitò.
Sono blasfemo nel dire che in quarant’anni di marcia nel deserto, è lecito e umano che un ultracentenario possa aver dubitato? In più, non riesco ad essere troppo attirato dal turismo religioso, dai pellegrinaggi e dal business che vi gira intorno. Qui, in cima al monte Nebo, la potenziale sacralità del luogo è rovinata da un enorme edificio in cemento in costruzione, dai souvenir dozzinali in vendita e da un invadente monumento eretto in occasione della visita del papa polacco.
Purtroppo il panorama sulla “terra promessa” è rovinato da una coltre di foschia. Il Giordano è invisibile, il Mar Morto una lontana striscia grigia, Gerico, Ramallah e la Palestina si possono solo immaginare, eppure sono qui, ai nostri piedi. Gerusalemme, manco a parlarne. Quanta storia, quante leggende, quante guerre, quanto sangue hanno visto queste terre? Non hanno mai conosciuto pace, gli abitanti continuano a disprezzarsi e non vogliono dimenticare. Fin troppo facile innescare spirali di violenza. Bisognerebbe tracciare una linea, dire stop, basta, ricominciamo. Ma qui un colpo di pistola o una sassata hanno un’eco che può durare secoli. E siamo solo in Giordania.

Contesa per il Mar Morto
Partiamo con un pullmino che si dirige verso il nord del paese. L’asfalto è buono e, accanto a un’edilizia spontanea e, il più delle volte, incompleta, la sorpresa stavolta di colline e prati verdi. E’ piovuto più del solito e i campi sono ricchi di fiori gialli. Ai lati della strada venditori da economia informale offrono al viandante fave e immangiabili mandorle verdi. A occidente, circa un migliaio di metri di quota più in basso, i pendii degradano verso la Rift Valley, riempita dal fiume Giordano che forma il confine con Israele e che, a sua volta, dopo soli 360 km pieni di storia versa nel Mar Morto quel poco di acqua che gli Israeliani non gli sottraggono con canalizzazioni destinate all’agricoltura e al raffreddamento di un reattore nucleare. Se non si agisce, il Mar Morto diventerà un secondo Mar d’Aral, destinato inevitabilmente all’essiccamento. Perde ottanta centimetri d’acqua ogni anno. Bastano trenta anni di inazione per decretare la sua fine.
I Giordani, a loro volta, suppliscono alla carenza d’acqua con un canale scavato parallelamente al fiume. E questo mi suggerisce che le responsabilità dell’evaporazione del mare non siano solo israeliane. Tuttavia leggo che Israele, contro il parere della Banca Mondiale, ha militarizzato l’accesso all’acqua riservandone per sé l’80% e lasciando a Palestinesi e Giordani briciole. Senza tanta acqua la fertilità della valle così piena di storia è in pericolo, perciò nella moderna Giordania si favoleggia un canale di collegamento col Mar Rosso e anche qui, favorevoli e contrari. C’è chi ne parla come dell’unica salvezza, altri ipotizzano catastrofi vulcaniche. Meglio lasciare il fiume Giordano al suo lento fluire, al ricordo delle gesta di Mosè, Maometto e Gesù.
Poco da annotare in queste ore segnate da un paesaggio monotono. Non faccio in tempo a pensare che, Oman a parte, la Giordania mi sembra uno dei più puliti tra i paesi arabi, che siamo investiti da un mare di buste di plastica che svolazzano come farfalle sui prati, si impigliano su arbusti spinosi, a formare sporche banderuole osservate da dromedari al riposo.
Lasciamo la superstrada, dove numerosi poliziotti sono in agguato con i radar, per una strada minore più viva, ma sempre sporca e caotica, dove l’ordine dell’asfalto cede il passo ai resti del mercato e di quel brulicare infinito che caratterizza la vita dei centri musulmani. Gente ovunque, dedita ad occupazioni che a volte neanche capisci. Come sempre, nella maggioranza uomini.
Dietro il velo
Visitiamo il sito ellenistico di Um Quaiss, che a un romano dice fatalmente poco. Siamo abituati a colonne e resti di statue, e rovine di questo tipo sono in genere considerate tempo perso. Però c’è un teatro ben tenuto e l’effetto strano delle kefiah e delle donne velate che passeggiano tra i colonnati, qualcosa che non sei esattamente abituato a vedere lungo i Fori Imperiali. La foschia impedisce di ammirare bene, appena dall’altra parte della valle, il Lago di Tiberiade di evangelica memoria e le alture del Golan, che Mohammed, nostra guida, si affretta a definire “occupate ancora da Israele”, che suscitano ricordi meno pastorali.

Le bancarelle che circondano il sito archeologico vendono scadenti prodotti globalizzati. L’unica nota di colore, sotto un sole che morde, è un signore baffuto che porta sulle spalle un enorme contenitore di metallo splendente e, alla cinta, come cartucce da sparare, bicchieri in plastica. Se vuoi un tamarindo basta chiamarlo. Sfila una cartuccia, si inchina con classe e ti versa il succo dolciastro.
Nello stesso piazzale, un allegro caos, minato da immagini che fanno pensare. Una donna in burka, un’altra in velo integrale che fa acrobazie per mangiare un cono gelato senza essere vista in volto da estranei. Qual è questo benedetto limite tra la tradizione e la cultura e la religione da un lato e l’oscurantismo e il mancato rispetto dei più elementari diritti umani dall’altro?

(continua…)
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