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Viaggio nel Baltico – prima parte

Tra ghiaccio e paludi

La mia prima ed unica volta in Lettonia capita alla fine dell’inverno, quando il vento freddo comincia a farti capire bene fin dall’atterraggio a Riga cosa significa un viaggio nel Nord nei giorni di marzo.
La capitale la vedremo più avanti, con due amici ce ne andiamo subito a vedere il mare, a Jurmala, la preferita località balneare dei Russi a caccia di mare e sole. Un tempo era il resort della nomenklatura, Breznev e Kruschev in testa. Oggi ospita case di legno dalle forme fantasiose, una lunghissima spiaggia di trentatrè chilometri e un mare ventoso, di quelli che, quando occasionalmente compare il sole, ti costringe a scavare buche nella sabbia per abbronzarti.

Viaggio nel Baltico Tra ghiaccio e paludi

L’acqua è gelata, ci sono tanti alberghi ma nessuno in giro: troppa nebbia, vento freddo, il sole ancora solo nei desideri. Ma la spiaggia dove ci fermiamo ha un fascino incredibile. Si intravede la sabbia che d’estate deve essere dorata e oggi è solamente marroncina e umida. Sul bagnasciuga nessuna traccia del mare. E’ invaso da enormi lastroni di ghiaccio, spessi fino a quaranta centimetri, ammucchiati uno sull’altro. Le temperature siberiane qui arrivano facilmente… Una striscia di mare grigio e rumoroso si intuisce più in là, dove la nebbia non ti consente di arrivare con lo sguardo.
I fiumi sono ancora parzialmente ghiacciati. Pazienti pescatori scavano buchi, come inuit, uno usa un attrezzo che assomiglia a un enorme cavatappi, e siedono su un secchio o su uno slittino, aspettando la preda all’amo. Sono piccole chiazze nere in un mare di bianco incerto, che credi possa aprirsi con fragore, da un momento all’altro, e inghiottirli.
Vaghiamo allegri per stradine che non finiscono mai, che giocano a nascondino con la ferrovia, portano a ville di legno, quel legno colorato con cui sono costruite le case baltiche tradizionali, isolate e a tetti spioventi.

ville di legno, quel legno colorato con cui sono costruite le case baltiche tradizionali, isolate e a tetti spioventi

Sono circondate da paludi dalle quiete acque marroni e da grandi foreste, tronchi rossicci e argentati di betulle, covo estivo di zanzare, oggi di ghiaccio e freddo. Riusciamo, con non poche difficoltà, ma dopo parecchio tempo e risate, a tornare sulla strada principale, per visitare il parco nazionale di Kemeru.

Zanzare nordiche

Ci arriviamo percorrendo una di quelle strade tipiche di queste parti: tutta diritta, circondata da fittissime foreste di conifere, una ferita nella foresta.

Il cielo è grigio e c’è della nebbiolina che rende l’atmosfera fatata, roba da orchi ed elfi

Il cielo è grigio e c’è della nebbiolina che rende l’atmosfera fatata, roba da orchi ed elfi, per intenderci. Al parco non c’è nessuno, abbiamo il privilegio di visitarlo da soli. Ci inoltriamo su una lunga passerella di legno viscido e scivoloso che ci consente di visitare il bog su cui sorge la foresta. Si tratta di un terreno in genere paludoso, solo che ora l’acqua è ghiaccio, tira aria frizzantina, si respirano gli effluvi del muschio e si sentono le cornacchie e i gabbiani. Le acque del parco hanno proprietà curative, sono piene di minerali, talmente nere da non poter vedere il fondo dei torrenti semighiacciati, uno specchio perfetto per le migliaia di alberi spogli. Un habitat altrettanto perfetto per milioni, miliardi di zanzare. Dovunque vi sia una palude, nei paesi baltici i graziosi insettini sono un flagello.

La corsa del solstizio

Ci allontaniamo lentamente dal golfo di Riga, di cui la capitale occupa strategicamente il fondo, alla fine dell’estuario della Daugava, inoltrandoci per strade di campagna che ci mostrano come anche la Lettonia sia un paese a due velocità.
La capitale da un lato, velocissima e moderna, e tutto quello che la circonda, soprattutto le campagne più lontane, dall’altro. Si vive di agricoltura e a fine marzo i campi sono neri e freddi, i trattori fermi. Le strade sono piene di buche e ci sono poche risorse per migliorare l’aspetto delle case. In molti posti alcuni edifici sono abbandonati, come a Kandava, “celebre” per le rovine di un castello e per la presenza di un ponte in pietra, un posto quasi spettrale per il resto, come a Kuldiga, un bel paesino secondo le guide che a noi però regala solo grigiore e malinconia.
Una patina grigia, dovuta alla nebbia, si stende su tutto il paese che però emette dalla natura ovattata una voce potente. Ospita infatti la cascata più larga d’Europa, in un fiume largo più di duecento metri, attraversato da un possente ponte di mattoni rossi a sette arcate, il più lungo in Europa del suo genere.

un possente ponte di mattoni rossi a sette arcate, il più lungo in Europa

Da dodici anni, lungo il ponte, nella notte di mezza estate, si svolge una corsa. Tutti nudi e una birra in premio all’arrivo. Gente di entrambi i sessi si raduna accanto al grande fuoco del solstizio. Si spogliano e iniziano a correre, urlando selvaggiamente, e tagliando, alla fine del ponte, un immaginario traguardo a braccia alzate. E il paese intero a guardare.
Ai lati del fiume, come al mare di Jurmala, immensi lastroni di ghiaccio mi rimandano ai racconti di Jack London sul disgelo del fiume Yukon.
Penso al rumore al momento della rottura del ghiaccio, alla vita che ritorna impetuosa nel fiume Venta. Ai salmoni che risalgono il fiume e volano sulle rapide, alla gente che li pesca al volo, ai primi fiori che sbocciano, ai ragazzi di qua che subito si mettono in maglietta.
Nel fiume precipita un piccolo ruscello che all’interno del paese crea scorci abbastanza romantici tra le case di legno.
Della musica proviene dall’alto, cade da uno dei pochi locali aperti dove si riesce a mangiare qualcosa. Difficile evitare carne e patate, e così sarà anche stavolta. Una birra per farmi compagnia.
Non posso evitare di essere cordiale con un ragazzo lettone, una sbornia sopportata male accompagnata da una litania infinita che ripete ritmicamente “There’s nothing to do in this country, nothing to do, nothing to do”.

L’invasione baltica dei Caraibi

Proseguiamo la camminata per il paese, circondato dalle foreste di betulle.
Non tira vento ma fa freddo e l’umidità entra nelle ossa mentre ci aggiriamo su strade di ciottoli rossi irregolari, tra poche case a graticcio, alcune brutture in cemento, diverse case in legno, una mistica chiesa ortodossa dalle cupole a forma di cipolla e una chiesa luterana che, in periodo sovietico, riuscì ad evitare di essere trasformata in un museo dell’ateismo solo per vedersi adibita a stalla per mucche e cavalli. Saliamo al castello di Kuldiga o, meglio, sulla timida collina dove una volta si trovava il castello e ora lascia scorgere sul terreno solo i segni del fossato che lo circondava e da dove si gode il panorama della cascata e del ponte.
Il castello faceva parte del Ducato di Curlandia gli abitanti del quale erano orgogliosi pagani che si dilettavano a farsi battezzare dai crociati evangelizzatori e, immediatamente dopo, correvano a sbattezzarsi lavandosi nel fiume. Era una bizzarra abitudine, tipica di tutti gli abitanti della futura Lettonia. Ma è un’altra cosa a sorprendermi di più…

Proseguiamo la camminata per il paese, circondato dalle foreste di betulle

Leggo su Wikipedia che la gente del ducato, nel 1600, specializzata nella costruzione di barche, colonizzò l’isola caraibica di Tobago. Me la immagino, dopo questi giorni di nebbia e freddo, la loro predilezione per le isole tropicali! Sedia a sdraio, piedi nudi e cocktail invece di ciaspole per la neve, huskeys e vin brulé. Tennero l’isola per parecchi anni e la chiamarono “Nuova Curlandia”, ne trassero zucchero, cotone, caffè, tabacco e uccelli tropicali. La mia fantasia vola altissima immaginando la più piccola potenza coloniale d’Europa retta da Jakob Kettler, Duca di Curlandia, vestito in foggia fiamminga coi baffi stirati all’insù, padrone di una delle migliori flotte mercantili del tempo.
Un pezzo di Baltico nel Mar dei Caraibi, tra pirati, baltici desiderosi di tropici e indios Caribi.
I coloni furono cacciati dagli olandesi prima e dai pirati inglesi poi, ma in patria, per cento anni, continuarono ad assegnare il titolo di Governatore della Nuova Curlandia, speranzosi di una riconquista e nell’isola oggi c’è ancora oggi un monumento, meta di nostalgici pellegrinaggi, che ricorda il curioso periodo e tentativo di colonialismo lettone.

Il confine inutile

Dopo pranzo, la corsa al mare ci riserva un cambiamento di panorama, perché mare vuol dire Baltico e commerci. A Liepaja aumentano le industrie, le ciminiere, i panorami di tipo sovietico, con allucinanti schiere di palazzoni anonimi e diversi solo nell’essere brutti, perché ognuno mostra una sua bruttezza, diversa ma innegabile.
Il Baltico è quasi ovunque grigio e anonimo, lo stesso fino al confine con la Lituania.

Il Baltico è quasi ovunque grigio e anonimo, lo stesso fino al confine con la Lituania.

Diciamo subito che si tratta di un confine finto, durato tredici anni, l’intervallo di tempo trascorso tra l’indipendenza delle sorelle baltiche e il loro ingresso in Europa. Non c’è l’ombra di un soldato, nessun controllo. Quel che cambia non è la foresta che circonda la strada e si estende fino al mare, ma la qualità dell’asfalto, finalmente senza buche.
A Palanga trionfano gli hotel per vacanzieri, a Klaipeda non lo sappiamo, perché la nebbia è talmente fitta che non consente di vedere assolutamente nulla. Neanche l’aglio sciolto nella fonduta di formaggio che mi invade lo stomaco e mi impedisce di sentire altri sapori per due giorni interi!
Passeggiamo per un centro in massima parte pedonale, caratterizzato da qualche casa a graticcio e da diversi locali per vita notturna dai quali, prevalentemente, escono delicate note jazz. Le case sono più curate, ma neanche riusciamo ad intuire dove ci troviamo. Sappiamo solo che siamo sul mare, che fa freddo, è umidissimo e che oltre uno stretto braccio di mare dove stazionavano i sottomarini nazisti ci attende un paradiso terrestre.

La battaglia delle dune

Grazie a un piccolo tragitto in traghetto sbarchiamo in un posto che da tempo desideravo visitare. Anni fa, sull’atlante geografico che tengo sempre sul comodino, iniziai a studiare a quali entità avesse dato vita la disgregazione dell’impero sovietico. Impazzii per le repubbliche del Caucaso, per i confini dell’Asia Centrale pieni di enclave ed exclave ma, proprio nel punto più facile, c’era qualcosa che non tornava sulla mappa. Una chiazza di troppo tra Russia e Polonia.
Non erano forse tre le repubbliche baltiche? E il quarto pezzetto, colorato come la Russia, appena a sud, di cosa si trattava? Venivo così a conoscenza dell’exclave russa di Kaliningrad, circondata ormai da stati EU legati alla NATO, unico porto russo sul Baltico a non ghiacciare per tutto l’anno. Appena a nord della città notai una sottile striscia di terra, che separava una laguna dal Mar Baltico, lunga un centinaio di chilometri, divisa tra Russia e Lituania.
Questi sono in genere i luoghi che attirano la mia attenzione: i delta dei fiumi, i posti dove la geografia fa strani scherzi, quasi tutti difficili da raggiungere, dove è impossibile capitare per caso. Wilhelm Von Humboldt, il grandioso tedesco che esplorò a piedi, a cavallo e in canoa 9650 chilometri di America Latina, per ammirare bellezze come l’Orinoco, l’Amazonas, le Ande, uno avvezzo alle bellezze della natura quindi, disse che “Neringa è così sensazionale che bisognerebbe vederla, come l’Italia o la Spagna, se all’anima si vogliono offrire immagini meravigliose”.

Un posto del genere deve conservare per forza delle leggende.

Una narra di Neringa, figlia di un pescatore, stanca di vederlo rischiare la vita ogni giorno nelle fredde acque del Baltico. Decise di costruire una barriera di sabbia per regalargli un angolo tranquillo di mare, una calma laguna ricca di pesce. Doveva avere una forza prodigiosa per riuscire in un’impresa del genere. Infatti altre leggende dicono che Neringa fosse una gigante, figlia della dea del mare, corteggiata da un Drago che, offeso dal rifiuto, si vendicò sui pescatori, terrorizzandoli. Neringa raccolse della sabbia nel suo grembiule e creo la striscia di sabbia a loro difesa.
L’intera penisola, legata alla terra sul lato russo, è larga da trecento metri a quattro chilometri e si basa su un fragilissimo equilibrio ecologico. In seguito a una selvaggia politica di disboscamento effettuata nel 1600, per procacciarsi combustibile e legname per l’industria cantieristica di Klaipeda, le dune, alte anche sessanta metri, presero il sopravvento. Il forte vento del Baltico causò tempeste di sabbia non più ostacolate da alberi e radici. Non a caso questa zona viene anche chiamata il Sahara lituano.

Decise di costruire una barriera di sabbia per regalargli un angolo tranquillo di mare

La sabbia è difficile da fermare: quattordici villaggi ne furono ricoperti e uno di questi, Nagliai, fu spostato per ben quattro volte in meno di cento anni fino a che gli abitanti dovettero trasferirsi negli altri paesi della penisola. Per fermare questa tendenza il governo prussiano dell’epoca iniziò un’opera di rimboschimento che fu interrotta solamente dalla seconda guerra mondiale, dagli incendi, dalle bombe e dai movimenti di mezzi pesanti. Oggi le foreste, monotone foreste baltiche di pini e betulle ripiantate geometricamente dall’uomo, coprono più del 70% della penisola e i pericoli sono di tipo diverso.

Uno di questi è il turismo indiscriminato.

La penisola di Neringa è patrimonio Unesco e l’accesso alle sue bellezze naturali è abbastanza semplice. Ci sono una serie di divieti che solo il buon senso del visitatore porta a rispettare.

Per esempio non si può camminare fuori dai sentieri ed è vietatissimo scalare le dune.

Purtroppo i controlli sono pochi e sotto i miei occhi la gente ignora i divieti o permette ai bambini di rotolarsi sulla sabbia della duna più grande dove è stato stimato che, per ogni persona che scala la duna al di fuori del sentiero segnato da trecento gradini, una tonnellata di sabbia finisce in mare.

Per esempio non si può camminare fuori dai sentieri ed è vietatissimo scalare le dune.

Il secondo pericolo è una minaccia ecologica derivante da due serie di pressioni ambientali. L’urbanizzazione selvaggia sul lato russo della penisola e l’estrazione del petrolio, anche questa dal lato russo. La piattaforma incriminata si trova in mare, a quattro chilometri appena oltre il confine lituano, e a un passo dal parco.
Le correnti vanno verso nord e una perdita dovuta a un incidente segnerebbe sicuramente la fine di questo paradiso naturale.

Perché di paradiso si tratta.

La penisola è attraversata da una sola strada, circondata da foltissime foreste e da enormi dune di sabbia. E’ un paradiso per le foreste e per gli animali. Si trova sulla rotta migratoria di diversi uccelli e numerosissime colonie ne popolano le spiagge, dove è facile trovare pezzi di ambra: ecco che ammiri i gabbiani, i cormorani, anche le aquile pescatrici. I boschi pullulano di cinghiali e il cartello attraversamento alci è il più frequente da incontrare.

I boschi pullulano di cinghiali e il cartello attraversamento alci è il più frequente da incontrare

La prima cosa che noi incontriamo è un enorme pezzo di pietra, scolpito in maniera sofferta, a ricordare i caduti sovietici durante l’ultima guerra.
In seguito giungiamo a un piccolo villaggio invaso dagli uccelli mentre diversi pescatori, dallo stesso molo, approfittano della laguna ormai quasi completamente sgombra dal ghiaccio.
Silenzio nell’aria. Voli di uccelli migratori. Il vento che soffia tra i rami di pini e betulle.

C’è chi è appena uscito da una strana costruzione a forma di botte di legno sistemata in modo panoramico sul Mare: ha fatto una sauna.

una strana costruzione a forma di botte di legno sistemata in modo panoramico sul Mare: ha fatto una sauna

(continua…)

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