Menu
Album

Cambogia, diario dal sogno e dall’orrore – seconda parte

Fuori dalla pista, fuori dal tempo

Dopo la fantastica alba vissuta ad Angkor Wat (vedi articolo nel topic “Luoghi Magici” de “Il grillo viaggiante”) percorriamo una strada sterrata e arriviamo a un imbarcadero lungo un piccolo fiume. La strada è interrotta, ancora sommersa dalle acque, nonostante la stagione sia quella secca. O forse è il ponte ad essere crollato. Tutto in Cambogia molte volte sembra provvisorio. In ogni caso dobbiamo proseguire in barca. Salgo sul tetto della lunga lancia e mi ustiono per benino le braccia durante la navigazione. Vedo il mondo dall’alto, ne assaporo in pieno il silenzio se la giungla tra echi e versi produce un silenzio.
Andiamo verso il Tonle Sap, il più grande lago dell’intera Indocina. Lo so, Indocina è un nome retaggio dell’impero coloniale francese, ma lo ritengo più evocativo di Sud Est asiatico.

Andiamo verso il Tonle Sap, il più grande lago dell’intera Indocina

Il livello del lago è estremamente variabile ed è questo il motivo per cui le case che incontriamo sono palafitte in legno, sopraelevate anche di sei o sette metri. Dipende dalla stagione. Durante quella umida, ovvero quando i monsoni scaricano l’acqua e gonfiano i fiumi, il Mekong si ingrossa incredibilmente. A Phnom Penh incontra il Tonle Sap, fiume che nasce dal lago verso cui siamo diretti e, clemente, perché sa di essere e portare vita, non prosegue verso valle, limitando così le sue inondazioni, ma risale il corso dell’affluente, fino ad arrivare al lago e ad alzarne il livello delle acque in maniera considerevole, fino a quadruplicarlo di volume.
Quando poi le acque si ritirano lasciano terre ricche di limo, fertilissime per risaie e ortaggi. Il limo nell’antico Egitto, come il limo nella moderna Cambogia: provvidenziale!

Il villaggio sulle palafitte

Normale quindi che Kompong Phluk sia un villaggio interamente di palafitte, normale vedere come sull’acqua si svolga tutto: la pesca, il mercato, le funzioni religiose, i funerali (nella stagione delle piogge non possono seppellire i propri cari e li lasciano sospesi sugli alberi!), i trasporti, i giochi dei bambini.

normale vedere come sull’acqua si svolga tutto: la pesca, il mercato, le funzioni religiose, i funerali, i giochi dei bambini

Il fiume diventa sinuoso in un panorama urbanizzato in maniera atipica, palafitte e lance-mercato coperte da tetti di paglia, così come le pareti di alcune abitazioni, poi si rituffa in una natura selvaggia e si allarga, circondato da una foresta alluvionata e da dedali di mangrovie. Infine arriva al lago, di cui non si scorge l’altra sponda, come nei grandi laghi dell’Africa centrale, anche se è tutt’altra cosa. L’unica cosa in comune sono i cadaveri che anche qui i corsi d’acqua, per anni, hanno trasportato a mucchi. I corpi massacrati dai khmer rossi in Cambogia hanno viaggiato per chilometri sul letto dei fiumi…
Non appena sbuchiamo nel lago, di un color marron-verdastro e per nulla mosso, mi guardo col mio compagno di viaggio preferito e l’intesa è fulminea: via la maglietta, via i pantaloni, si resta in mutande e ci si tuffa in un lampo con la sorpresa di chi al piano di sotto del battello non se lo aspettava. La corrente è forte e l’acqua calda. Una sensazione bellissima che ripetiamo dopo pochi minuti, tanto il sole picchia talmente forte da asciugarci in fretta.
Sbarchiamo al villaggio delle palafitte, risalendo il fiume. Stagione secca, main street arida, tra due file di case sopraelevate, di legno e di latta, il non plus ultra del provvisorio. Al piano superiore i contadini cambogiani tengono gli orticelli di erbe e spezie, al riparo dalla furia delle piene.

Al piano superiore i contadini cambogiani tengono gli orticelli di erbe e spezie, al riparo dalla furia delle piene

Purtroppo la strada è sporca di rifiuti e buste di plastica. La povertà è evidente, i bambini di un posto del sud del mondo come sempre riescono a ridere e giocano con poco, a piedi nudi. E’ un piacere vedere che il pozzo del villaggio è stato donato dal proprietario del nostro hotel. Diamo soldi a chi li ridistribuisce. Ma non sarà sempre così e avremo brutte sorprese appena il giorno seguente.

Per la strada del paesino c’è una pesante puzza di pesce secco, quello che viene utilizzato per la produzione della salsa di pesce, il nam pla, che da queste parti è un succedaneo del sale e che quando in Italia lo uso in cucina per preparare il pollo al curry verde e latte di cocco dopo devo aprire le finestre per un paio d’ore. Donne timide e bambini mezzi nudi vendono ovunque questo pesce secco e serpenti di mare affumicati e arrotolati ma non ho il coraggio di assaggiarli. No, stavolta no. Mangio però una squisita Tom Yam, zuppa rovente al pesce con galanga, lemon-gras, peperoncini e foglie di lime. Il sapore agrodolce, delizioso, assieme a quello di una birra scura mi resterà in bocca fino a cena.

bambini mezzi nudi vendono ovunque questo pesce secco e serpenti di mare affumicati e arrotolati ma non ho il coraggio di assaggiarli

Il pasto dei pesciolini

Al ritorno, terza fuga in città. Lungo il corso di Siem Reap ci sono grosse vasche con dentro centinaia di piccoli pesci che assomigliano alle nostre mormorine, quei pesciolini chiari di sabbia con le strisce verticali scure. Vengono utilizzate per un massaggio particolare, mi dicono, importato l’anno precedente dalla Thailandia. Se si tratta di affari non c’è nemico che tenga: “it’s business” – mi dice il padrone del locale, mentre mi porge una birra ghiacciata. Funziona che ti tiri sù i pantaloni, ti levi calzini e scarpe di una giornata lunga e afosa, ti siedi sul bordo e infili i piedi in vasca. Non appena lo fai vieni assalito dalle creature che, se fossero pirañas, lascerebbero solo le ossa. Ti mordono, letteralmente, qualunque parte del piede, su, fino alla caviglia. All’inizio la sensazione è di fastidio, anche un po’ di timore, un solletico forte e continuo. E se guardi non vedi i piedi, ma solo l’affollamento dei pesci. Poi ti ci abitui e lasci loro fare lo sporco lavoro di divorarti, un morsetto dopo l’altro, la pelle morta sotto la pianta dei tuoi stanchi piedi, immortalati con due foto curiose. Ne esci con la pelle liscia e morbida di un neonato e con la sensazione di aver lasciato nelle loro delicate fauci una parte di te non necessaria. Meglio di mille pietre pomice.

Flipper cambogiano

Quindi un salto in centro. Sono due strade che convergono dalle parti del mercato vecchio e le vie, formate da case di tipo francese coloniale e cinese, sono piene di locali vivaci. Bevo un ottimo frullato di frutta fatto con cura davanti ai miei occhi, vago per il mercato dove compro il composto di spezie per il Tom Yam e mangio da solo degli splendidi noodles in agrodolce con pezzettini di manzo, annaffiati da due ABC, stout corpose e fortine che danno un po’ alla testa. Per arrivare in tempo all’appuntamento in albergo prendo un tuk tuk che si destreggia come un folle slalomista nel traffico, guida contromano, sale sui marciapiedi, prende migliaia di buche che mi fanno risalire per il gargarozzo birra scura e salsa di soia, sorride, dice sorry, sorry staminchia penso io. Un vero flipper cambogiano!
Nell’autobus di notte verso il mare, destinazione Sihanoukville, mi addormento a fatica complici i racconti volgari di un deficiente del gruppo finito a letto con una disinvolta cambogiana. Se gratis o meno non faccio fatica ad immaginarlo.

un tuk tuk che si destreggia come un folle slalomista nel traffico

Spiagge e fuochi

Kampong Son, alias Sihanoukville è la località di mare principale della Cambogia

Kampong Son, alias Sihanoukville è la località di mare principale della Cambogia. E’ il posto dove è avvenuta l’ultima battaglia della guerra del Vietnam, durante la quale gli statunitensi tentarono di liberare una nave sequestrata dai khmer rossi e lasciarono sul campo le loro ultime 18 vittime, su un totale di 58.209, gli ultimi nomi che, negli States, si possono leggere sul loro personalissimo muro del pianto della disfatta in Vietnam.
Il centro della città si adagia su un promontorio ed è un confuso ammasso di case attraversate da un ampio vialone dove sfrecciano auto, bici, risciò, bus, moto, tuk tuk e qualunque veicolo abbia ruote, senza rispetto apparente di nessuna forma di codice stradale: un intreccio di rumori e suoni, anarchico e ribelle.
La prima spiaggia che visitiamo è quella di Occheuteal, pranzando con spiedini di seppioline alla brace conditi con una salsa piccante e con un gustoso frullato di frutta tropicale. Ci tocca rassicurare anche due turiste venete, preoccupate da un messaggio in inglese incerto dalla polizia locale per essersi sistemate su un pezzetto di spiaggia libera: “la gente esce fuori dalla boscaglia (due alberi due) armata di coltello per rapinare e accoltellare i turisti”. Mi sa tanto che era una scusa, in accordo coi proprietari degli stabilimenti, per farle sistemare pagando da brave occidentali un comodo ombrellone e un lettino in affitto. E sicuro si intascheranno una tangente.
Noi andiamo avanti sogghignando, e vediamo che il litorale si allarga e si trasforma e che la gente del posto, non più turisti, si prepara al capodanno locale, occupando gli alberi dietro la lunga spiaggia bianca con amache, teli, cucine da campo, giochi e allegria. Stanno attrezzando rumorose discoteche e ci sono pullman che vi portano studenti in gita che, come d’uso in quasi tutta l’Indocina, fanno il bagno vestiti.

arriviamo a una spiaggia paradiso, Otres Beach si chiama,

La spiaggia finisce, usciamo in strada, saliamo su una collinetta, scendiamo pochi gradini, arriviamo a una spiaggia paradiso, Otres Beach si chiama, e stendiamo i nostri teli vicino a un albero piegato e triste, indispensabile per regalare un po’ di ombra vitale. L’acqua è tiepida e trasparente, non c’è neanche un’onda. Dopo svariati bagni ceniamo con un delizioso pesce al cocco, cucinato col curry giallo, il più delicato tra le misture indocinesi. Sulla via del ritorno ecco i fuochi d’artificio del veglione, seguiranno balli in riva al mare per tutta la notte. Anche la Cambogia si merita un po’ di spensieratezza!

A Victory Hill veniamo avvicinati da splendide modelle asiatiche, purtroppo non ci resta nessun dubbio sul loro mestiere. Si trovano vicino al localaccio gestito da un miliardario mafioso russo che si è inventato un ristorante dove i clienti mangiano sopra teche di vetro che contengono disgustosi serpenti velenosi, ovviamente vivi. Tutto il contrario dell’albergatore capace di donare il pozzo alla sua comunità.
Ma è la notte della festa ad ogni costo e sul barcone affittato per il ritorno dobbiamo sopportare la vista di qualche bavoso vecchio europeo che stringe a sé delle quasi-bambine cambogiane. Probabilmente siamo saliti su un bordello galleggiante, ce ne accorgiamo dal via vai e dagli occhiolini che i bavosi si fanno tra di loro, come a dire “è andata bene”.
Ci spostiamo allora sul ponte terrazzato evitando ogni minima complicità con questo schifo e guardando il cielo stellato riflettiamo un po’ sulle miserie umane. Fortunatamente lo spettacolo dei fuochi d’artificio è un sogno e caccia via questi pensieri sordidi. Strisce di fuoco partono senza soluzione di continuità dai chilometri di spiaggia che abbiamo percorso oggi per due volte. Sembra un’allegra e variopinta contraerea. Finalmente un bombardamento innocuo in un paese che ne ha vissuti fin troppi di veri sulla sua pelle. Ai fuochi più impegnativi la gente assiepata in spiaggia esplode in boati d’approvazione, non lo so perché ma mi ricordo le parole dei miei nonni quando in Italia arrivò la tv a colori. Vorrei tuffarmi, andare in spiaggia, e mischiarmi con loro, turisti o locali che siano. Fino a che al momento del brindisi scopro che uno dei bavosi è italiano e mi tocca un braccio: “Auguri fratello” – “Non sono tuo fratello”.

Vorrei tuffarmi, andare in spiaggia, e mischiarmi con loro, turisti o locali che siano

Acque dal sud del mondo

Dormo poco, mi alzo, scendo in spiaggia. A un’altra giornata piena di mare e di sole preferisco la gita al parco naturale di Ream, distante una ventina di chilometri. Ci metto poco a saltare sul rimorchio di un pick up in compagnia di due coppie di canadesi e di due studentesse tedesche. Arriviamo a un imbarcadero circondato dalla giungla e tutto il parco è un vorrei ma non posso. Le strutture, infatti, sono poche e modeste. Ma le intenzioni di salvaguardarlo, soprattutto dalla strada che vorrebbe collegare le sue spiagge a Sihanoukville, sono lodevoli. Chissà per quanto tempo le sue spiagge deserte sopravviveranno all’urbanizzazione selvaggia.

Seguiamo un ampio fiume, affollato da raccoglitori di ostriche e da pescatori che tirano su le reti. I marinai sembrano i tigrotti di Salgari, sotto cappellacci di paglia celano uno sguardo duro e misterioso che si allarga in insospettabili e solari sorrisi. I barcaioli ci raccontano che alla foce, proprio accanto all’isola che è il primo lembo di Vietnam, si intravedono spesso i delfini di mare (non quelli di fiume, rimasti solo nel vicino Mekong) ma non per noi. Ai due lati una muraglia verde di palme e di mangrovie. Un tempo c’erano le tigri, oggi solo qualche serpentello, orsi dal collare, grossi felini difficili da vedere, nidiate di zanzare, insetti e uccelli. Qualche aquila pescatrice volteggia in alto, in cerca di facili prede sotto il pelo dell’acqua.

Arriviamo a una spiaggia spettacolarmente bianca e vuota. La percorro respirando a pieni polmoni. In seguito facciamo una piccola ed agevole marcia nella “giungla”, sentieri larghi e battuti, secchi ora, allagati durante il periodo dei monsoni. Arriviamo a un villaggio di palafitte che sembra la Mompracem di Sandokan. E’ abitato da guaiti di cani, ciuffi di lemongras, reti appese ad asciugare. Mangiamo insieme ai guardaparco un delizioso barracuda alla griglia, poi mi perdo lungo la spiaggia, ad annusarne gli odori e ad ammirare le barche tirate a secco. Infine, sulla via del ritorno accostiamo presso una delle due rive per inoltrarci su una passerella che taglia in due la foresta di mangrovie, fino ad arrampicarci su una cadente ed altissima torre di legno per l’avvistamento degli uccelli.

un altro villaggio di palafitte e pescatori, dove la meglio gioventù gioca a pallone e suda su corpi troppo magri e snelli

Il giorno dopo salterò almeno su cinque moto per visitare un affollatissimo mercatino del centro città, che si sviluppa su strade anguste. Passo lo zainetto avanti per sicurezza, cammino lentamente tra venditori di spezie, abiti, pollame vivo e morto, frutti di mare, granchi e pesce. Nessuno sembra badare alla mia presenza. Poi mi faccio portare alle spiagge mancanti. Victory Beach, la perla all’ombra che non avevamo potuto gustare, proprio lì, accanto al locale famigerato del russo, e Sokha Beach, la più bella e bianca, troppo ampia per non cedere alle lusinghe della privatizzazione. Le rivedo tutte dal barcone che ci porta ad un’escursione giornaliera a un’isola lontana due ore dalla costa: snorkeling, impronte vergini lasciate sulla sabbia, un altro barracuda grigliato, un altro villaggio di palafitte e pescatori, dove la meglio gioventù gioca a pallone e suda su corpi troppo magri e snelli. La fine è segnata da un tramonto rosso fuoco indimenticabile.

L’autobus ci porta in cinque ore a Phnom Penh. Arriviamo che è buio. Il pugno allo stomaco si avvicina a grandi passi.

(segue e termina nel topic “Metropolis” con l’articolo Gli incubi di Phnom Phen)

Offerte e prezzi

Non ci sono Commenti

    Lascia un commento

    Iscriviti al Grillo Viaggiante e Caesar Tour Clicca qui

    Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

    Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

    Chiudi