Le scoperte

L’ananas cresce dalla terra, orgogliosa come un carciofo. Quindi è inutile cercarla in alto, appesa a una palma. Le scimmie rosse della foresta di Jozani sono fra le più dispettose del mondo, quindi è meglio tenere d’occhio la macchina fotografica o non slacciarsi la collana.
Le lingue di sabbia in mezzo al mare turchese sembrano scie di borotalco, appaiono e scompaiono con le maree, chiamano al tuffo e alla pura contemplazione. Le stesse maree giocano con la natura e quando il mare si ritira escono dai villaggi le donne in saari a cercare alghe e conchiglie per le loro zuppe.
Sul bagnosciuga restano bellissime stelle marine e anche paguri giganti, inevitabili vittime dei giochi dei bagnanti stranieri: “Lo prendo io quel conchiglione per la corsa che vale un aperitivo!”
Il reef selvaggio all’orizzonte con le vele che non osano avvicinarlo.
Lo stregone del villaggio accanto al Club dove lavoravo come Assistente Turistico aveva un metodo originale per dichiararti la sua amicizia e insieme la sua forza: poggiare la fronte sulla tua e spingere come fanno i cervi, anche se i cervi a Zanzibar non sanno neppure chi sono.
Ripetere più volte quella bizzarra sfida, ovviamente tra la polvere e le mosche del villaggio e non sui prati all’inglese del mio Resort: non sarebbe mai venuto.

I bambini locali… che bambini!
Allegri nonostante poveri, generosi nonostante sfortunati, pronti a correre sulla spiaggia appena avevo la mia ora di pausa per giocare insieme a pallone o con tre bastoncini o con dei bidoni di latta o con dei sassi in una specie di backgammon tropicale.
Vederli sporcarsi con l’arena bianca i loro corpi d’ebano.
Osservare le loro silhouettes spensierate stagliarsi sui colori arancioni e viola di un tramonto.
Affacciarmi alla loro scuola, una capanna appena più grande delle altre, e ammirare lo zelo con cui scrivevano, con cui riponevano due matite e due quaderni in una vecchia cartella, con cui alzavano il ditino per intervenire.
Assistere alla corsa della campanella, in braccio alle mamme venuti a prenderli e loro con una capretta al seguito o un’anfora in mano. O vederli leccarsi le dita dopo aver gustato del pollo fritto.


L’emozione delle donne locali quando gli portavo i turisti a visitare il loro improvvisato negozietto etnico, dove vendevano foulard, oggetti in cocco e spezie come la noce moscata e la vaniglia tra mille sorrisi. La conoscenza di queste spezie nelle piantagioni, nelle lunghe passeggiate tra piantagioni e foreste, a stupirsi dove si incontrava o odorava un tipo di cannella o di pepe.

Le spezie che ritrovavi sui banchi del mercato, nei vicoli della città vecchia, chiamata Stone Town per le sue costruzioni in pietra. I volti curiosi, bellissimi, di ragazze come di vecchi, che ogni tanto spuntavano da dietro i quasi 600 pesanti portoni intagliati in legno, capolavoro degli artigiani locali. Le balaustre, gli arabeschi, i chiostri nascosti degli stessi artigiani.

La crudezza dei macelli in pubblico, carcasse di animali con le budella penzolanti, comprate così dalla popolazione locale. Per contrappasso il retaggio dei sultani, vissuti in palazzi eleganti che ancora guardano il mare. Percepire il lusso e la lussuria nel Palazzo delle Meraviglie dove si aggiravano ben 99 concubine per soddisfare il sovrano e poi le storie di mare, commerci, difesa dagli spalti del Forte arabo.
Difronte al porto ecco la sagoma di Prison Island con le sue storie di dolore e di schiavi venduti. Le tartarughe giganti che ancora vivono su quest’isola e che si chiamano con uno sforzo enorme di fantasia 1, 2 e 3 perché col gesso hanno quel numero scritto sugli enormi gusci!
Tartarughe e scimmiette, un bel derby a Zanzibar. Insieme ai delfini sono gli unici animali endemici di quest’isola, per vedere i grandi mammiferi africani bisogna necessariamente spostarsi nel continente e organizzare un Safari nella Riserva di Selous in Tanzania.

E poi i tramonti, a incendiare il cielo di tanti colori, a chiamarti a una pausa di riflessione. I mesi senza turisti, in tarda primavera, quando arrivano vento e pioggia, quando l’Africa si impossessa più di te perché è fatta di spazi silenziosi. E andare a Nakupenda equivale a un viaggio in paradiso.
La cronaca della mia Zanzibar potrebbe assomigliare a questa, un insieme di ricordi, di frammenti, di incontri, di esperienze, di paesaggi: “Tu chiamale se vuoi, emozioni…” Battisti è utile per riassumerla.


La vita in un Club
Per il resto posso raccontarvi finché volete la vita dentro un villaggio turistico, il privilegio di vivere nell’all inclusive di un albergo perfetto, con la spiaggia da sogno, la piscina tra le palme, le camere in stile etnico e col letto a baldacchino e coi mobili scuri, la cucina d’oriente e speziata mista ai piatti di pasta italiana che la gente comunque pretende, i giochini e gli spettacoli, i tornei sportivi… Potrei anche raccontarvi delle diverse sensibilità incontrate, il turista “compratutto”, il turista “voglioilmioparadiso”, il turista “incontroglialtri”, il turista “amatricianaekaraokeforever”. Ma penso che vi importi poco.

Il volto più autentico di Zanzibar
Forse invece sapere che le notti stellate qui sono gigantesche, che i delfini ti nuotano accanto nella baia di Kizimkazi, che le piccole vele dei dhow possono raggiungere ogni costa di Zanzibar, che le maree cambiano completamente gli orizzonti, che gli intagli in legno sulle porte rappresentano la prosperità e la salute della famiglia quando appare l’immagine della palma da dattero, del fiore di loto o dell’uva o dei fiori e che invece motivi come pesci, aquile e leoni indicano la fertilità e il potere sociale, che i zanzibarini sono gente da sempre orgogliosa e che si sente indipendente dalle Madre Tanzania trasformando ogni elezione dal 1963 in poi (data di distacco dall’influenza inglese) in un aspro confronto può essere più interessante.


Come scoprire le tracce di Freddy Mercury in città, nato e cresciuto qui fino agli 8 anni, come imparare a riconoscere la forma e il profumo dello zenzero, del cardamomo e dei chiodi di garofano e più nomi possibili dei pesci della variopinta barriera corallina. Come passare un’ora in una moschea locale a capire il senso di preghiere diverse dalle nostre o sentire l’eco della tratta degli schiavi nella centrale Piazza Kelele dove nel punto in cui sorge oggi la chiesa anglicana si vendevano 10.000 disgraziati l’anno…

Come ricostruire la storia di Zanzibar in qualità di crocevia commerciale che interessò anche India e Cina, conoscere i lasciti delle colonizzazioni portoghesi, arabe e persiane o del protettorato inglese nel cuore di Stone Town dichiarata per questa ricchezza di stili patrimonio culturale dall’Unesco.

Come raggiungere Nungwi, il paesino sulla punta nord dell’isola, per vivere una serata tra musica e cucina locale, senza il programma tipico dei Club. O passare una giornata in escursione nell’atollo-paradiso di Mnemba a contare quante sfumature possono avere il bianco e il celeste, a scoprire Nemo e i suoi fratelli con meravigliosi momenti di snorkeling.
La mente in quel posto
Ma non c’è niente da fare, pur consapevole di tutto l‘incanto, di tutta la storia, di tutte le spezie, di tutte le spiagge, la mia mente se ripenso ai 6 mesi vissuti a Zanzibar ritorna soprattutto a quel piccolo villaggio di Pingwe che sorgeva a un chilometro appena dal mio resort, sulla costa sud-est dell’isola.

Saranno state 200 persone al massimo, molto riservate, molto discrete. La cosa che mi stupiva di più all’inizio era rendermi conto che uscivano in spiaggia soltanto quando la spiaggia poteva essere tutta per loro, ovvero all’alba, dopo pranzo e al tramonto. In pratica quando i turisti riposavano, mangiavano o si divertivano. Ecco che quei momenti per bambini come Thiso e Lailathi, per lo stesso capo villaggio con una testa enorme che spingeva invariabilmente indietro la mia in queste gare assurde che mi furono concesse dopo un centinaio di giorni di “contatto” con la comunità, si trasformavano in ore speciali: davanti al loro mare, alla loro natura, alla loro eterna e povera libertà. Senza il traffico di costumi succinti, di partite di beach volley, di acquagym, senza l’odore di creme abbronzanti, senza la vista di gente in fila per l’ennesimo buffet.


I turisti li guardavano sempre da lontano, un po’ incuriositi, un po’ impauriti, un po’ ammirati. Non erano di quelle comunità che chiedevano penne o caramelle, durante le ore centrali del giorno non si mischiavano volentieri a loro, rimanevano sotto le palme e le capanne del villaggio, però, coi mesi che scorrevano, si erano abituati alle mie passeggiate, verso le 10.00 e verso le 17.00 infatti organizzavano per bene il loro negozietto, gli faceva tanto comodo quel giro puntuale di economia turistica e negli occhi profondi percepivo dei grazie sinceri e quasi commossi.
Ma non mi chiedevano mai nulla, sapevano che arrivavo, gli bastava.

L’ora del gioco
Poi c’era l’ora del gioco ed ero io che diventavo l’ospite.
Un’oretta prima di cena con gli ospiti a fare la doccia e a prepararsi per la cena, io sceglievo il solito calzoncino blu e la solita maglietta bianca per mischiarmi volentieri in una partita di calcio, in un’acchiapparella difronte all’Oceano Indiano. Se andavo là con le maglie del resort o con quelle da calcio li abituavo a desiderare qualcosa di troppo, era meglio di no.
“Rafiki” mi chiamavano, “Amico”, oppure “Popobawa” il nomignolo di uno spettro locale, di uno spirito bonario o malvagio a seconda della luna e delle maree, che loro temevano, amavano e rispettavano.
Mi sono divertito tanto con loro, le foto con quei ragazzi sono rimaste appese nel mio studio, ogni tanto riguardo i ricciolini impertinenti di Thiso, le pose eleganti della principessa Lailathi, il pancione carismatico dell’unico stregone che mi ha sfidato a testate in vita mia.
E devo dirvi che mi sentivo speciale quando arrivavo da solo sul tratto di spiaggia del loro villaggio e si spargeva la voce e dieci, venti, trenta bambini in un attimo correvano felici intorno a me.


La mancanza
Quando lasciai Zanzibar furono quelle le ore che mi mancarono di più: vedere come si agghindavano per andare a scuola, come preparavano la cena, come intagliavano il cocco, come riconoscevano le spezie, come imparavano le poche parole in italiano, come giocavano senza pensieri. O con troppi pensieri, che è una forma diversa di non averne neppure uno.
Lontano da Zanzibar per me ha significato soprattutto stare lontano da quel polveroso villaggio, che era vicino ai delfini, alle scimmie rosse, all’ananas che cresce come il carciofo. Che profumava di cannella. Altri mari stupendi li ho visti, persone così semplici e così diverse da me mai più.


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