Le isole come metafora
“Voi volete dire allora che il mondo intero è la metafora di qualcosa?”

Con una delle sue frasi più belle e più ingenue l’attore e l’uomo Massimo Troisi nella sua ultima, sofferta e commovente interpretazione ci fa amare per sempre il postino che tramite un tardivo amore per la poesia cerca di raccontare le bellezze dell’amore, della vita e della sua isola.
Che in realtà sono due isole, anzi qualcuna in più.
La prima isola è quella tratta dal libro di Antonio Skàrmeta: Isla Negra, uno sperduto e bellissimo villaggio cileno, poco lontano dalla città di Valparaiso e luogo di esilio volontario di Pablo Neruda.
Il poeta di “Canto General” trovava ispirazione per i suoi versi davanti alle scogliere dell’oceano, circondato da verdi paesaggi e da gente semplice. Là batteva forte il suo cuore come la sua passione politica: alla fine del mondo, tra i fiordi gelidi del Sudamerica.


La seconda isola è quella dove Troisi decide di ambientare col regista Michael Radford la trasposizione cinematografica del romanzo nel 1994 ed è a questo punto che l’isola si sdoppia e coglie la magia e l’essenza di due perle del nostro Sud: Procida e Salina, ritratte con tutto il loro incanto e la loro luce in un film che le farà conoscere in tutto il mondo.

In verità Neruda visse in esilio tra Ischia e Capri ma la produzione del film ha scelto di puntare su questi due territori puri, incontaminati, dove sgorga naturale la poesia, dove la vita è lenta e contemplativa.
L’elemento di fantasia che dona il tocco lieve e decisivo alla storia che arriva sul grande schermo è la metamorfosi del ragazzo timido che da povero pescatore qual è cambia vita, mestiere e pensieri per consegnare ogni giorno la posta al poeta, arrancando tra le coste, i viottoli, le salite, con la sua bicicletta.
Due modi di essere poeti
Tra i due nasce qualcosa più di un’amicizia, un sentimento che spazia dall’ammirazione sconfinata al dolce paternalismo e che atterra potente nella sfera dell’affetto. Un’anima elevata e un’anima semplice, un uomo che sapeva usare le parole come nessuno sull’isola e un cuore puro in cerca dello stesso linguaggio, della stessa capacità di esprimere le emozioni: per una donna, per il mare, per le fatiche e per le bellezze del posto. Per il vento e per il cielo stellato. Per un figlio che verrà.
Grazie al poeta, Mario il postino scopre la letteratura, il brivido della scrittura e dei versi. Manifesta la sua sensibilità in poesia, lui stesso. Troisi ci lascia così, con la sua prova più delicata, col suo volto già emaciato e il suo corpo già malato, con uno sguardo triste che riesce però a raccontare con estrema dolcezza tutto il suo mondo che sta per finire. Perché anche recitare è una forma d’arte e poesia.


Troisi compianto
«Fu amore a prima vista. Stavamo sempre insieme. Vedendolo nel Postino ho pianto. Era come un volo senza ali, il suo corpo smagrito fluttuava sopra lo schermo, magicamente» – questo il ricordo di Roberto Benigni. Un altro mostro sacro come Sean Connery dichiarò in un’intervista: “Il Postino è il più bel film che abbia mai visto. Mi avrebbe fatto piacere girare un film con Troisi”. La sua musa nel film, la Cucinotta: “La forza di Massimo si sente ancora. Devo tutto a Troisi e a quel film che ha una magia”.

Una storia semplice
Tra le due isole delle Eolie e del Golfo di Napoli la storia si sviluppa in modo felice: 1952, Italia del Sud, Troisi è il postino Mario incaricato di consegnare la posta al poeta Neruda finito laggiù in esilio.
Rimane affascinato dalla sua personalità, dal suo modo di usare le parole, di amare le donne e di essere da loro amato, proprio mentre lui cerca di entrare goffamente nel cuore di Beatrice, la bella ragazza impersonata da Maria Grazia Cucinotta che lavora in una locanda del porto.
Ci riuscirà recitandole le poesie del cileno, interpretato magistralmente da Philippe Noiret.
I due diventano amici, girano l’isola, parlano in riva al mare di metafore, di donne, di passione, di amore, di rivoluzione e il miracolo del film sta nel rendere questa chimica possibile, la chimica fra un intellettuale e un ragazzo del popolo.

Tra rivelazioni poetiche, una natura stupenda (alcune riprese in bici sono state fatte anche nella selvaggia Pantelleria) e la crescita di una nuova consapevolezza succede che Mario si sposa con Beatrice e che il poeta ritorna in Cile e da lontano i due restano uniti grazie alle lettere e ad altre poesie. Ma la vita scorre… Inevitabilmente si perdono, il destino li divide, perché Neruda viaggia, è lontano, recita discorsi, riceve premi, combatte per la libertà e il risveglio delle coscienze nel suo paese, dimenticando fatalmente l’isola dei suoi giorni felici, quando scriveva guardando il mare. Mentre il ragazzo resta là, come l’ostrica attaccata allo scoglio della morale di Verga.
Ritorna a pescare, a condurre la locanda con Beatrice, ma allo stesso tempo Mario Ruoppolo prova nostalgia, segue da amico fedele le gesta di Neruda e in omaggio alle sue idee in lui germinate conosce anche il senso dell’impegno politico.
La scena madre
Uno dei momenti più belli del film è quando il postino per colmare il distacco registra i suoni della vita sull’isola e la racconta al poeta: “Numero uno: onde alla cala di sotto. Numero due: onde grandi. Numero tre: vento della scogliera. Numero quattro: vento dei cespugli. Numero cinque: reti tristi di mio padre. Numero sei: campane dell’Addolorata, con prete. Numero sette: cielo stellato dell’isola. Numero otto: cuore di Pablito”.
Il testamento
Neruda dopo cinque anni ritorna sull’isola ma scoprirà troppo tardi la poesia dell’amico postino, dove compare anche quel concetto di metafora che all’inizio l’impacciato Mario ignorava: “reti tristi di mio padre”. Questo perché intanto Mario è morto, ucciso dalla polizia durante una manifestazione.
Incontro a Neruda vanno Beatrice e il piccolo Pablito, chiamato così in suo onore. Come un’onda l’emozione del ricordo commuove il poeta: Mario e l’isola ora gli resteranno dentro per sempre.
Raramente si è visto al cinema un testamento spirituale più intenso di questo: Troisi morì dodici ore dopo la fine delle riprese del film, forse era scritto che il suo addio fosse unito a quello di Mario.
La spiaggia del Postino

Se c’è un posto di Salina che rimane più impresso in questo film è la spiaggia selvaggia di Pollara.
Qui conversano il poeta e il postino, anche di Dante, lanciando i ciottoli nel mare di colore blu cobalto.
Qui sopra pedala Troisi tra i fichi d’india, sopra la costiera verde a strapiombo, fino alla Casa Rosa che ospita Pablo Neruda. In quel patio, spesso a distanza reverenziale, Mario ascolta la saggezza di Neruda e comincia a entrare nel circolo seducente delle metafore.
Oggi questo luogo magico sta rischiando di scomparire, a causa dell’erosione del mare e degli approdi abusivi delle barche a motore. Per il rischio di frane inoltre l’accesso alla piccola battigia è ormai vietato al pubblico, come se l’ultima spiaggia vissuta da Troisi volesse conservare per sempre e in silenzio il suo ricordo. Arrivare a Pollara, odorare i cespugli di cappero e finocchio, aspettare il tramonto dietro Alicudi e Filicudi è comunque una scena che da sola vale il viaggio. Magari con la splendida colonna sonora di Luis Bacalov a ricordarci tanta malinconica leggerezza.
Visitare Salina
Una vacanza nel cuore verde delle Eolie significa salire anche sulle due cime gemelle, alte quasi mille metri, la Fossa delle Felci e la Fossa dei Porri, poste in modo scenografico una accanto all’altra.
Da quassù lo sguardo segue in verticale i boschi di castagni e pioppi, i vigneti, gli orti e i fichi d’india, fino a tuffarsi nel mare cristallino. Felci umide e poderi isolati, vento, uccelli, barchette di pescatori, spiagge di ghiaia: un vero quadro.
L’isola è adatta a un turismo lento, ai trekking, ai percorsi naturalistici ed enogastronomici.
A Malfa si soggiorna in un tipico paesino con vicoli, fiori, dimore eleganti con giardini, trattorie, a Rinella l’atmosfera è quella del borgo di pescatori e le grotte nella roccia fungono da rimessaggio per le barche, a Santa Marina si visitano le chiese suggestive e il corso di casette colorate e poco lontano c’è un ultimo incanto, quella che era la salina di… Salina!
Il laghetto di “Caro Diario”
Bisogna arrivarci al tramonto quando la sagoma del vecchio faro si specchia nelle sue acque verdastre. Bisogna osservarlo dai tavolini di un bar, gustando il pane “cunzato” (condito: con ogni ben di dio dell’isola, olio e olive, pomodori e capperi, mandorle e acciughe, ricotta e origano, mozzarella o tonno) o una granita al gelso o al limone di Salina.
Oppure passeggiarci intorno, con calma, su quello che una volta era il campo di pallone spelacchiato di sabbia nera, come faceva Nanni Moretti in una scena iconica di “Caro Diario” dove Salina è quell’isola surreale popolata da famiglie con figli unici viziati e prepotenti, fissati con la tv e coi versi degli animali, padroni dei telefoni, così mammoni che ancora si ficcano nel lettone dei genitori quando arriva l’ora del lupo. Moretti la ritrasse con disincanto e ironia: lui che affidava al suo diario e ai suoi viaggi “la cura” delle nevrosi cittadine romane (la periferia anonima di Spinaceto, quella finta di Casalpalocco, quella malinconica e abbandonata dell’idroscalo col tragitto in vespa che sulle note di “The Koln Concert” di Keith Jarret raggiunge il monumento a Pasolini tra le sterpaglie e le reti metalliche) trovava in questo puntino nel verde e nel blu le prove che la società moderna produce ovunque le sue stranezze, le sue solitudini, i suoi guasti.


Il laghetto salato di Lingua è un luogo adatto al silenzio e al vento e a guardare il mare in tempesta, circondato da casette coi muri screpolati, da una natura essenziale. Un luogo provvisorio come quella sottile striscia di terra, di lingua, che lo separa dal mare che in inverno da queste parti ruggisce fragoroso. Un luogo poco incline al turismo di massa, infatti Salina fa parte delle Eolie più vere, non di quelle mondane. E’ un giardino tranquillo del Mediterraneo, un’isola da passi lenti, un’isola sottovoce, un’isola che diventa un rifugio dei sogni e un richiamo di libertà.
Da Salina a Procida
Meraviglie possibili soltanto al cinema: Troisi si affaccia a una finestra e vede la spiaggia di Pollara, scende tra la gente del porto e si ritrova nella piazzetta di Corricella a Procida. Pedala sui pendii di Salina o di Pantelleria e tra i viottoli delimitati dai muretti a secco di Procida. Sente la poesia conquistarlo ovunque, poco importa che si trovi nella più verde delle Eolie o nell’isola più tipica e colorata del Golfo di Napoli, guarda le onde e i ciottoli nella spiaggia che scompare ogni giorno di più a Salina o su quella nera di Pozzo Vecchio a Procida. “Il Postino” fa venire una voglia urgente di visitarle entrambe e se si ha avuto la fortuna di farlo, di tornarci, per cogliere ancora un’atmosfera, una suggestione, un ricordo, un panorama, uno stato d’animo di quelli che riesce a trasmettere il film. Troisi in fondo non poteva non amare Salina ma non poteva neanche non trovare un luogo magico nella sua terra campana e Procida lo ispirò per le emozioni che sapevano regalare i suoi paesaggi e la sua gente.
L’acquarello

Marina Corricella è il borgo che in Italia somiglia di più a un acquarello. E la storia “di popolo” del postino si svolge qui, sul mare, tra le reti da pesca e le barche tirate a secco, le taverne e i vicoli, i lenzuoli stesi e il vociare delle donne, le corse dei bambini e le bancarelle di ortaggi e limoni. Un piccolo villaggio di pescatori disegnato, letteralmente, coi colori pastello che ricoprono i cubetti delle case e le cupole delle chiese. Il panorama dal parapetto mentre si sale a piedi alla frazione di Terra Murata che conserva i resti del Castello e della Prigione di Palazzo d’Avalos lascia davvero senza fiato: si guarda e si riguarda, si contano i colori che pitturano il borgo, si immaginano le stanze, le scale, le vite, le voci, si ammirano i riflessi del mare e del sole. Una poesia incredibile per un film che sulla poesia vive.

Le locations del film
Le tracce del postino si possono seguire facilmente e l’emozione durante il breve itinerario si fa sentire. Al civico 43 di Marina Corricella c’è la locanda di Beatrice, quella dove Mario sente battere il cuore tra un bicchiere di vino e una partita al biliardino… sulle pareti foto e citazioni, lo sguardo dolce di Troisi, in un angolo la sua borsa di cuoio stile anni ‘50; l’ufficio postale è quello in Piazza dei Martiri 8; la chiesa inquadrata nella processione quella della Madonna delle Grazie; il cinema dove Mario segue l’annuncio dell’arrivo del poeta in esilio è quello in Via Principessa Margherita; la spiaggia del postino è quella scura di Pozzo Vecchio, poco lontana dal capoluogo, un arenile selvaggio sotto la falesia che si scopre dopo un percorso tra stradine e canneti. Molto bello nuotarci fuori stagione, molto belli i suoi fondali. E così scoprire gli altri arenili di Procida: Chiaia, Chiaiolella, Silurenza, la riserva naturale di Vivara. Tra una memoria e l’altra, un bagno e l’altro, l’obbligo morale di provare la squisita cucina di pesce dell’isola.


L’isola di Arturo
Procida così tipica, così piccola, così colorata è oggi minacciata dai mali moderni del turismo, come il traffico, l’abusivismo, la cementificazione, i rumori. Va preservata e difesa da tutto questo.
Va ripensata come l’isola dell’adolescente di Elsa Morante, Arturo, che qui tra i limoni, le vigne, le campagne, le spiagge e le casette dei pescatori trascorse la sua giovinezza e la trasformò tumultuosamente in vita.
Tutto è descritto nel capolavoro “L’isola di Arturo” (Premio Strega 1957), un romanzo di formazione, uno sguardo sull’essere giovani, sui tormenti del cuore, sul bisogno dei miti e delle radici, sulla voglia prepotente e improvvisa di amare, di crescere e di partire.

Un piccolo Robinson
Arturo è un orfano di madre e per questo motivo l’isola gli diventa cara come un grembo materno. Nelle prime pagine descrive in ogni dettaglio le sue strade e le sue chiese, il porto e le botteghe, l’oscuro penitenziario dove scoprirà i torbidi segreti del padre.
Sembra un piccolo Robinson Crusoe (definizione coniata dalla stessa scrittrice) destinato in un ambiente circoscritto a scoprire tutte le cose per la prima volta, le cose belle come le cose brutte. Come capiterà più tardi al Postino anche lui amava il limpido mare di Pozzo Vecchio.
Il nido felice
Arturo è felice nella sua realtà da favola, mitizza la figura del padre giramondo che passa solo ogni tanto a trovarlo, si nutre di fantasia, non lega troppo con le ragazze a meno che non siano le protagoniste regali delle sue letture, ma piuttosto con la natura e coi simboli di quel luogo sereno: l’isola gli basta.
Per la Morante quell’isola è Procida, un microcosmo che anticipa l’affresco dei quartieri romani descritti benissimo nel romanzo “La Storia”.

Lo scompiglio dell’amore
Le cose cambiano con l’arrivo della giovane sposa del padre, Nunziatella.
Prima non la sopporta per quel suo difetto di misoginia ereditato dal padre, poi se ne innamora ed ecco che l’adolescenza emerge come una marea, come un ‘onda, con tutti i suoi dubbi, i suoi scarti d’umore, i suoi desideri cocenti o messi ancora poco a fuoco.
L’adolescenza raccontata in modo magistrale in queste pagine come l’età della confusione, dell’incomprensione, della crescita difficile, a cui neanche l’isola riesce a dare riparo.

Procida fino ai 16 anni di Arturo aveva assolto alla perfezione alla sua funzione di nido, di terra prediletta, di luogo felice e sereno, capace di donare tutte le emozioni necessarie, ma con la scoperta acerba dell’amore ecco che quell’architettura protettiva crolla e Arturo diventa scostante, scopre il disordine, il turbamento, il granello di sabbia nell’ingranaggio perfetto.
In più la scoperta dell’omosessualità del padre corrisponde alla caduta finale del mito, alla fine della fanciullezza e di conseguenza all’uscita dal paradiso: per amare e per crescere Arturo dovrà fare delle nuove scelte e la prima è quella di dover lasciare l’isola, come se ciò costituisse un doloroso rito di passaggio.
Fuori, il mare aperto
Procida coi suoi giorni spensierati e felici, col suo incanto primordiale svanisce all’orizzonte, per Arturo, per il Postino e metaforicamente per ognuno di noi. Fuori ci aspetta la vita vera, il mare aperto.


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