
Raccontano che la superba cima dal 29 maggio del 1953 sia diventata il sogno e l’incubo di un numero incalcolabile di spedizioni. Che la paurosa montagna simbolo della frontiera più estrema si sia ingoiata non so quante vite. Che dal giorno della conquista da parte del neozelandese Sir Hillary e della guida nepalese Tenzing Norgay l’ambizione di raggiungere il tetto del mondo sia diventata sempre più smodata, anno dopo anno, corda dopo corda, tempesta dopo tempesta, record dopo record.
Raccontano che lassù siano rimaste tonnellate di materiali, di piccozze, di tende, di chiodi, di bombole di ossigeno, di tute colorate, di ganci, di scatolame, di rifiuti, di scarponi, di scale, di funi, di sacco a pelo oltre che a corpi congelati per sempre in qualche crepaccio o seppelliti da immani valanghe A fare compagnia a qualche dio misterioso del ghiaccio in nome di una forma di fede, spesso fanatica, pronta anche a sfidare la morte.

Raccontano che in certe stagioni erano la politica e l’orgoglio nazionalistico e colonialistico a spingere gli uomini in vetta, che in altre contava solo l’impresa sportiva e il salire leggeri come farfalle in segno di rispetto verso quella prova assoluta della natura e che nelle ultime l’Everest sia diventato soprattutto una moda e un fenomeno consumista del peggior marketing alimentato dai depliànts delle agenzie turistiche o da qualche ingordo sponsor.
Raccontano che nel 2019 quasi mille scalatori abbiano raggiunto la cima più alta del mondo, divenuta da luogo mitico e inaccessibile un posto piuttosto affollato, una torre di babele dove piantare una bandierina. Raccontano anche che uno dei più amati e più puri sfidanti della montagna sia stato l’italiano Reinhold Messner, il primo capace nella sua vita di conquistare in sedici anni tutte e quattordici le cime sopra gli ottomila metri senza l’utilizzo dell’ossigeno e di liberarsi solo così dalla sua ossessione e probabilmente dal dolore di aver perso su una di esse, in una tragica spedizione sul Nanga Parbat, suo fratello.

Raccontano che, con grande orgoglio, a stabilire nei tempi più recenti un nuovo strabiliante record sia stato ancora un nepalese d’acciaio, Nirmal Purja, arrampicatosi sopra le nuvole sui 14 ottomila in soli 189 giorni!!!
Raccontano che, con meno orgoglio, nei campi base alle pendici dell’Himalaya ormai arrivino sempre meno puristi e sognatori alla ricerca del viaggio che li trasforma o di una qualche trascendenza e che si crei invece quassù ogni primavera un clima pacchiano di festa con manicaretti gustati al ritmo della disco music. E che a tali quote si avventurino sempre più esploratori inesperti e impreparati, tecnicamente capaci ma poco allenati, nei casi più ridicoli arroganti uomini d’affari che inseguono la gloria o tipi qualunque che sognano un giorno di visibilità e di ribalta mediatica. E che spesso questa inadeguatezza sfoci nell’errore, nella superficialità e nella tragedia che significa purtroppo una cosa sola: la perdita di vite umane.

Raccontano che sulle nevi eterne dell’Himalaya si nasconda dal lontano 1921 l’abominevole uomo delle nevi, lo Yeti, un uomo brutto e peloso, feroce come una belva, grande come un orso, forse metà uomo e metà orso, forse solo un gigantesco plantigrado che ha lasciato segni, ossa, resti di pelliccia, impronte enormi, animali sbranati, una lunga ombra della notte che ha impaurito gli abitanti dei villaggi e dei monasteri più estremi, come fosse il retaggio di una paura primitiva e ancestrale.
Raccontano che in fondo l’Everest e i suoi fratelli sono il loro esclusivo regno. E degli Yeti misteriosi e tenebrosi. E degli Yak in bilico sui pendii. E dei monaci più asceti e isolati che spiccano nel grande bianco per le loro tuniche color porpora e le bandierine colorate delle loro preghiere. E di nessun altro.


A raccontare tutto questo sono gli eredi del fenomenale Tenzing, diventato eroe sia a Katmandu che nel Darjeeling indiano dove visse gran parte della vita dopo la sua impresa. Lo raccontano nelle cronache ufficiali delle scalate sull’Everest, nei ritagli di giornale, nelle piazze polverose, nelle notti fredde, nelle povere bettole e negli umili villaggi del Tibet e del Nepal gli ultimi sherpa, quelli che ancora oggi si spezzano la schiena per portare in cima alla montagna i materiali e le corde dei ricchi occidentali. Hanno la pelle color del rame, vengono da un popolo di fede buddhista, di antenati capaci di compiere viaggi incredibili, abili e resistenti come nessun altro nel condurre le carovane di pelli, salgemma, riso, stoffe e spezie nei luoghi più inospitali del pianeta, tra ghiacciai, burroni, venti gelidi e climi impossibili.

Lo raccontano mentre accompagnano uno yak al pascolo, mentre gustano o offrono alla troupe televisiva di turno in cerca di nuove storie e di nuove sfide il latte, il burro, il formaggio e la carne essiccata del peloso bue himalayano, mentre bruciano il suo sterco per riscaldarsi o mentre si caricano le spalle di ceste destinate a contenere l’impossibile. Per riprendere ancora una volta il sentiero che arriva più in alto di tutti, fino alle dimore degli dèi. Per incontrare lassù a mo’ di ricompensa qualche spirito della montagna. Per accompagnare inevitabilmente, dietro il compenso medio di 15.000 dollari a salita a persona, qualche gruppo di alpinisti ambiziosi e rumorosi, atletici e muscolosi.
Ma mai muscolosi come loro, questi eccezionali nomadi delle montagne più alte del mondo, delle grandiose solitudini, che mi immagino nascondano una grande forza dietro la traccia di un sorriso enigmatico, simile a quello del Buddha. L’unico che serve per affrontare, vincendola, l’aria sottile.

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