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Storie dal mondo

Berlino, la parola al Muro

Se volete, chiamatemi storia.

All’inizio ero solo una linea. Traballante e contorta, tracciata su una mappa dai quattro vincitori, con mano decisa. Ero una divisione immaginaria. Separavo le luci occidentali di tre nazioni occupanti dal preteso egalitarismo di una quarta potenza. I Rossi temevano il “fascismo” o forse ancora di più la contaminazione culturale dei primi tre paesi, nonostante lo avessero combattuto tutti insieme, appena pochi anni prima. I tre occupanti temevano di essere invasi dal quarto, da cui erano circondati.

Fu allora che decisero di farmi nascere.

Berlino, la parola al Muro

Non so come accadde. So che tanta, troppa gente, prima che mi costruissero, scelse di saltare il fossato, di varcare la mia linea invisibile, di rischiare il salto fra le prime vedette e il filo spinato. Avevano paura, avevano fretta, erano inarrestabili e sancivano la vittoria di una parte e la sconfitta dell’altra.

In quel periodo gli uomini chiamavano Guerra Fredda tutto ciò che non era accettabile.

Fu allora che decisero di dividere il cielo.

Nacqui il 13 agosto 1961. Era una calda notte estiva e bastarono rotoli più consistenti di filo spinato. Ero basso e lungo. Come un recinto che cresceva insaziabile, divorando terra e asfalto. Dividendo strade e parchi, amici e famiglie, destini di persone. Separando per chissà quanto tempo stazioni ferroviarie e linee della metropolitana. Dove arrivavo io, il paesaggio diventava lugubre e grigio, sembrava abitato da fantasmi, sembrava che anche l’anima dovesse vivere una lunga notte.

sembrava che anche l’anima dovesse vivere una lunga notte

Ero guardato a vista, notte e giorno, da uomini armati. Chissà se ne chiedevano il senso.
All’inizio era abbastanza semplice eludere la loro sorveglianza, saltarmi, o scivolarmi sotto, passare dall’altra parte. E anche chi doveva impedirlo era tentato di andare. Tentato dai colori di là, dalle luci, dai consumi di là…?

Tentato dai colori di là, dalle luci, dai consumi di là

Il primo a farlo fu un soldato che si chiamava Konrad. Aveva diciannove anni e probabilmente guardava lontano. Tastò la mia spinosa consistenza, saggiò la mia ridicola altezza, prese la rincorsa e, buttando il fucile, scomparì dall’altra parte. Fu fotografato e fu il primo a rendermi celebre, mentre ero ancora in fasce. Fu imitato da ottantaquattro colleghi nelle mie prime sei settimane di vita.
Decisero allora di rinforzarmi. Mi regalarono un’ossatura tristissima di cemento armato, vicino a un enorme parco dove non già non correvano più i bambini, perché i bambini le cose tristi le annusano. Era uno slargo di centinaia di metri, attraversato da una strada che agevolava il passaggio di macchine e pattuglie e accompagnato da lugubri torri di controllo.

A tutti quelli che volevano andare dall’altra parte, verso dove tramonta il sole, il solo raggiungermi era una chimera, l’oltrepassarmi il sogno. E le pallottole che fischiavano erano lì ad evitarlo.
Sulle miserie di una città bombardata, da un lato vedevo crescere case alte, tutte uguali, vestiti grigi, volti corrosi dalla paura, gente che si spiava. Mi accorgevo del raggiungimento di una certa uguaglianza, ottenuta al prezzo della povertà di molti, dell’arricchimento di una casta di privilegiati, sotto la colonna sonora di parate militari eseguite al passo dell’oca.

Dall’altra parte arrivarono i colori, i rumori, automobili moderne anziché scatolette di latta.

Iniziarono a dipingermi. Bianco da un lato, tatuato di colori vivaci e scritte dall’altro. Da quei quartieri sentivo arrivare discorsi politici, manifestazioni, concerti rock, proteste, e la vita correva a un ritmo frenetico, e allo stesso ritmo aumentavano inesorabilmente, le disuguaglianze. Dai due lati si parlava la stessa lingua, ma non erano mai stati così lontani.

Per separarli meglio mi rinforzarono in fretta. Decisero di sfruttare elementi già presenti sul territorio. Così la Sprea, il fiume che vedo scorrermi accanto, fu parte delle fortificazioni, confine invalicabile. Altrove toccò a dei palazzi che si trovavano sulla linea del fronte. Succedeva che l’edificio era il confine stesso. Ma aveva finestre da due lati… Così, prima che fossero tutte, inesorabilmente, murate, gli abitanti iniziarono a buttarsi sui materassi posti al suolo dalla gente che viveva dall’altra parte. Un’anziana che chiamavano Ida mancò il materasso e morì in seguito alle fratture multiple riportate. Fu la prima a morire a causa mia, dicono.

Iniziarono a dipingermi. Bianco da un lato, tatuato di colori vivaci e scritte dall’altro

L’ultimo, invece, riuscì ventotto anni dopo a oltrepassarmi in mongolfiera, ma precipitò e morì.

In quei primi giorni di vita, in molti non si mossero, perché credevano in quel che, attraverso me, si stava costruendo o, semplicemente, perché non credevano che potesse essere vero. Quando capirono che ero la realtà, era ormai troppo tardi e dovettero trovare un modo.

Alcuni tentarono semplicemente di scavalcarmi, ma nel frattempo le guardie erano aumentate, la sorveglianza si avvaleva di ritrovati elettronici. Raramente ci riuscivano. Peter fu lasciato morire dissanguato ai miei piedi perché, una volta colpito, si rifiutarono di inviare prontamente i soccorsi. Alcuni uomini e donne, mossi dalla disperazione, tentarono di attraversare il confine a nuoto, qualunque fosse la stagione, altri di sfondarmi con macchine blindate, autobus, bulldozer. Altri ancora passarono sottoterra, scavando tunnel e ricordo che una volta riuscirono ad oltrepassarmi in cinquantasette. Ci fu chi dirottò battelli, chi costruì una mongolfiera, chi un piccolo aereo, chi una macchina volante, chi una teleferica, chi un sottomarino in miniatura. Chi, semplicemente, usò il suo ingegno creando documenti falsi, inventando divise militari rispettabili, trovando nascondigli impossibili in pertugi rimediati nei bauli di automobili, in una vacca finta da esibizione, a mo’ di cavallo di Troia.

E ogni singola persona creava un effetto buono e uno cattivo. Buono per sé, perché la libertà veniva prima di tutto, cattivo per tanti altri perché ognuno che riusciva a fuggire rafforzava purtroppo i meccanismi di sorveglianza, fino a renderli impenetrabili.

I miei padroni volevano imparare dagli errori. E, nonostante ogni singola goccia di sangue versata ai miei piedi fosse vista con disgusto dal resto del mondo, incentivavano l’uso delle armi per arrestare i tentativi di fuga, offrendo agli improvvisati controllori e delatori soldi, permessi e giorni extra di ferie.
In moltissimi provarono a fuggire. Tanti vi riuscirono, ma morirono anche in troppi, donne e anziani, ragazzi e bambini. Io guardavo, imponente e impotente.

Poi un giorno arrivò, da dove sorge il sole, un uomo strano, piccolo, con una voglia originale spalmata sulla fronte. Doveva essere per forza uno originale, diverso, non troppo omologato. Parlava una lingua cui non ero abituato. Le cose iniziarono a cambiare. E mentre nascevano alcuni miei fratelli, a Cipro e a Belfast, parecchio più a sud, le fortificazioni che avevano il mio stesso scopo iniziarono a tremare, traballanti, e fiumi di gente iniziarono a guardare, a non tremare più, a passare.

fiumi di gente iniziarono a guardare, a non tremare più, a passare

Fino a un giorno in cui Günter, un uomo indeciso, o che forse aveva capito male, o che forse parlò semplicemente troppo presto, disse che i permessi non erano più necessari e che chiunque sarebbe potuto passare. Alla fine di una conferenza stampa, come fosse un PS, una nota a margine. Così, in un lampo. Non fecero in tempo a correggerlo.

Una folla incredula mi circondò. Vissi una notte indimenticabile quel 9 novembre del 1989. Migliaia di persone mi salirono sopra, cantando e urlando. Le cullai leggero, incurante del peso. Mi feci prendere a martellate, in fondo le capivo, in fondo non mi facevano male.

Donai nel delirio, nel caos, nell’eccitazione di una specialissima notte tedesca pezzi della mia pelle come ricordo di qualcosa che ero stato e che nessuno avrebbe dovuto dimenticare. Non sapevo che sarebbe diventato un affare, e che, anni dopo, due centimetri del mio corpo sarebbero stati messi in vendita anche a sei euro.

Passarono attraverso i miei varchi le scatoline di latta, le Trabant verniciate nei colori più spenti, che all’improvviso stipate di gente sembravano adesso luccicare. Accolte dalle risate, dalle urla e dalle lacrime di quelli che vivevano dall’altra parte e che rivedevano amici, conoscenti, o festeggiavano totali sconosciuti.

Passarono attraverso i miei varchi le scatoline di latta, le Trabant verniciate nei colori più spenti

Sapevano che sì, sarebbe stata dura, ma che per l’ennesima volta sarebbero riusciti ad essere fenice, a rinascere dalle proprie ceneri.
Mi demolirono, inesorabilmente, metro dopo metro, torretta dopo torretta. Chirurgicamente, mi estirparono migliaia di denti con ruspe e scavatrici.

Eppure sono ancora qui.

Decisero di lasciare una traccia di quella che fu la mia presenza. Una striscia di mattoni sull’asfalto che taglia ancora in due la città. E qualche pezzo qua e là. Targhe commemorative, croci, lapidi, tombe, foto.

Una striscia di mattoni sull’asfalto che taglia ancora in due la città. E qualche pezzo qua e là. Targhe commemorative, croci, lapidi, tombe, foto

E mi lasciarono sopravvivere fino ad oggi, in 1300 metri di colori splendenti. Fui diviso come una terra da coltivare in lotti e sì, un giorno arrivò un popolo rumoroso e scapigliato, armato di bombolette a spray, e iniziò a dipingermi, a tatuarmi di mille colori.

Riprodusse le scatolette di latta che mi attraversavano, l’oceano di folla che urlava, il bacio mortale che quei due uomini di un’era ormai glaciale si diedero in mia presenza, il concerto rock con i pupazzoni giganti alla fine del quale un mio collega, alto e bianco, crollava fragorosamente, mattone dopo mattone.

Riprodusse le scatolette di latta che mi attraversavano, l’oceano di folla che urlava
il bacio mortale che quei due uomini di un’era ormai glaciale si diedero in mia presenza

Tutto fu dipinto dal lato che neanche poteva essere avvistato, quello che una volta era bianco, forse a memoria della sua inavvicinabilità. Nell’ottobre del 1991 arrivò un ragazzo. Tirò fuori una penna dallo zainetto, si chinò, e all’interno di uno dei mattoncini del murale del concerto scrisse: “E’ questo il destino dell’inter-railer. Correre e scappare via dai posti che si amano. E per andare dove? Solo per continuare.”

Fu preso in giro per mesi per quella frase. Forse non lo sapeva allora, ma era solo l’inizio di un viaggio molto più lungo. Sarebbe tornato qui, quasi vent’anni dopo, sotto un’impietosa e malinconica nevicata, e avrebbe notato che la sua scritta era scomparsa, nel restauro del murale commissionato dal comune.
Ma tornò a guardarmi, dipinto dopo dipinto, con la stessa emozione e con maggior senso storico. Non quello della maggior parte dei visitatori odierni, che scattano foto-ricordo, ridendo, esibendo segni di vittoria, non sapendo su chi o su cosa. Tornò con una specie di peso sul cuore, sapendo di avere di fronte colui che rappresentava ciò che, per anni, anche se appena adolescente, non voleva o non poteva sapere.

Oggi tutto è cambiato. Ho passato i settant’anni di vita e sopravvivo banalmente. Non divido più gli affetti, né il cielo. Non faccio più paura. Non alimento sogni, speranze, preghiere. Sono circondato da mostri di vetro e acciaio, coprono quello che fu il mio parco privato e che qualcuno chiamò “striscia della morte”.

Scavatrici, gru, polvere: sono un eterno cantiere. Non riesco a dormire in pace. Per far spazio a nuovi palazzi vorrebbero privarmi di un altro pezzo del corpo. Hanno iniziato pochi giorni fa, ma sono stati interrotti dalle proteste di chi non vuole dimenticare. Di chi un pezzetto di me lo vuole lasciare vivo.

Mi devo abituare. Sono visitato da cacciatori di souvenir, da pullman in sosta lampo, da macchine fotografiche con gli occhi a mandorla. Sono la tigre dietro le sbarre dello zoo: innocua.

Non fraintendetemi ma rimpiango quasi il silenzio di quando fui importante, di quando determinavo il destino di due mondi inconciliabili che, tuttavia, si controllavano e riuscivano nel compito reciproco di controllare le aberrazioni più grandi. Oggi tutto sembra più fluido e veloce, non sempre migliore.

Ora sono in qualche pagina di un libro di storia, in tanti, tantissimi libri, nell’ignoranza delle nuove generazioni e nella memoria di un popolo, di nuovo potente, che non vuole dimenticare. Mentre in molti, in troppi, hanno dimenticato.

E tu? Tu che ti chinasti a scrivere del tuo inter-coso, che senza di me non avresti viaggiato nelle terre una volta proibite? Che probabilmente neanche staresti lavorando, che sicuramente non scriveresti così tanto, o leggeresti altro?

Almeno tu, non pensi che dovresti dirmi grazie?

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