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Birmania: pagode, sorrisi e solitudini – prima parte

“Questa è la Birmania e sarà diversa da ogni altra terra che tu possa aver vissuto”
(Rudyard Kipling, Letters from the East)

“In fondo quello che stavo cercando così lontano, più che una religione era il luogo di provenienza di un sorriso”
(Christine Jordis, Passeggiate in terra buddhista. Birmania)

Birmania: pagode, sorrisi e solitudini

Una forma interrogativa

Da qualche parte ricordo di aver letto che la Birmania – oggi chiamata Myanmar per volere di un regime che ha voluto cambiare nome anche alla geografia per poter controllare meglio il suo popolo – con la sua sagoma panciuta a nord e fine a sud, ricorda graficamente un punto di domanda: quale lucente bellezza e quale profonda saggezza è capace di esprimere? Quanta umidità e quanta poesia domina il suo paesaggio? Quanta paura del passato e quanta speranza del futuro resta dentro la sua gente? Cominciamo questo piccolo viaggio geografico e letterario, artistico e umano, dall’immagine simbolo del paese, le sue mille pagode.

quale lucente bellezza e quale profonda saggezza è capace di esprimere?

Cosa fa il popolo birmano nelle pagode

Esse sono i monumenti dell’anima birmana e il tentativo splendido di elevarsi al cielo. Gli studenti e le famiglie, i fedeli e i monaci vestiti di amaranto si recano nelle pagode per le loro preghiere e i loro riti, per accarezzare le piccole o grandi statue del Buddha, lavargli la testa, regalargli dei fiori profumati o dei cibi cucinati con amore.

Ci vanno per stare insieme ai propri cari, anche solo in contemplazione di una stupa al tramonto, quando l’atmosfera di ogni tempio, nel traffico caotico delle città come nelle terre di rame o nelle giungle più fitte, diventa più mistica.

Materialmente la stupa è il pinnacolo lungo e ricoperto di lamine d’oro ma simbolicamente rappresenta il corpo, la parola e la mente di Buddha che mostrano il sentiero dell’illuminazione.

Nelle mille pagode birmane si accendono candele e bastoncini di incenso, si entra scalzi e umili, al massimo coperti da un pezzetto di tessuto locale chiamato longyi, e poi si esce più consapevoli, più equilibrati, più sereni. Prima della visita a un tempio sacro – e ognuno ha il suo preferito, come noi abbiamo una squadra di calcio (paragone blasfemo, lo so, ma vicino alla realtà) – ci si ferma nelle vicine botteghe artigiane per acquistare delle foglie d’oro con le quali si ricoprono statue, colonne, sfere, pinnacoli, per ottenere un merito che consentirà una rinascita migliore.
Sembra un ciclo immutabile: la visita periodica del tempio, il culto sentito del dio, il senso profondo del rispetto e il valore personale del sogno.

Nelle mille pagode birmane si accendono candele e bastoncini di incenso

Un giorno a Rangoon

In genere la scoperta delle prime pagode avviene a Rangoon (o Yangoon, sempre per la storia dei nomi rifatti…), la città principale del paese, così calda, afosa, caotica, vitale e insieme decadente che una sosta in una delle sue numerose pagode significa la conquista benefica di un’oasi spirituale.
Per asciugarsi le camicie dall’impressionante umidità, per distogliersi un attimo dai rumori perenni del traffico, per sostituire le trombe snervanti dei clacson coi rintocchi pacifici dei gong.

sostituire le trombe snervanti dei clacson coi rintocchi pacifici dei gong

Il fascino di Rangoon si può cogliere anche nei profumi e colori dei suoi mercati, nelle strade piene di bancarelle di libri (il popolo birmano dalla fine della dittatura nel 2012 è uno dei più curiosi e aperti sulle culture del mondo), nei vecchi edifici coloniali come le Poste, la Dogana, la Corte Suprema, l’Hotel Strand, la Aya Bank e soprattutto nelle sue sale da thè dove una volta tutte le chiacchiere erano ascoltate da spie governative. Particolarmente affascinante sarebbe trovarsi a Rangoon tra ottobre e novembre quando le due Feste delle Luci che celebrano la discesa di Buddha dal cielo e la fine della stagione delle piogge riempiono le strade e il cielo della città di poetiche candele e lanterne.

E’ indubbio però che dopo un giro tra i parchi verdi retaggio dell’influenza inglese o nella frenetica zona portuale, dopo i panorami dal treno della Circle Line, le merci, le stoffe, i gioielli e gli alimenti stipati sotto il padiglione del mercato Bogyoke, dopo aver contato i sorrisi contagiosi dei bambini, gli incontri con le donne che amano coprirsi il viso con la crema biancastra del legno tanaka o con gli uomini che masticano una radice locale per darsi energia, dopo aver soddisfatto la curiosità di farsi leggere la mano da un astrologo vicino al tempio di Sule, dopo il groviglio di chiese, moschee, incroci, mercati, venditori di riso o di grilli, cantieri e favelas, si voglia finire la giornata nel recinto sacro delle pagode dorate. Soprattutto in una.

 dopo il groviglio di chiese, moschee, incroci, mercati, venditori di riso o di grilli, cantieri e favelas, si voglia finire la giornata nel recinto sacro delle pagode dorate

Il miracolo di Shwedagon Paya”

“Da ogni punto di Rangoon si vede il santuario più sacro della Birmania, posto sulla sommità di una collina, con l’oro che luccica nella foschia sopra i boschetti di palme… quell’enorme campana con il lungo manico, patinata d’oro e di venerazione, il cui arco si innalza nel cielo…”
(Christine Jordis, Passeggiate in terra buddhista. Birmania)

“La guglia della pagoda emergeva dagli alberi, come una spada sottile dalla punta dorata”
(George Orwell, Giorni in Birmania)

“La sua atmosfera è impregnata dall’afflato religioso prodotto da generazioni di fedeli”
(Aung San Suu Kyi, Liberi dalla Paura)

Credo che le parole di una reporter di viaggi orientali, di un grandissimo romanziere del 1900 e di un Premio Nobel per la Pace possano descrivere meglio di ogni altra cosa il monumento-simbolo della Birmania, quello attorno a cui nacque la metropoli asiatica delle pagode.

ognuno fa un’offerta di acqua, di fiori, di incenso al suo giorno di nascita

Nell’umido caos di Rangoon Shwedagon svetta come un luogo senza tempo, e senza tempo sembra essere la sua costruzione, risalente addirittura a 2500 anni fa. Con una circonferenza alla base di 300 metri e una stupa alta quasi 100 metri sulla cui punta brilla un diamante da 76 carati, con gli 8 capelli di Buddha nascosti secondo la leggenda nelle sue fondamenta, con le sue 27 tonnellate di lamine dorate che la ricoprono e la sua corte di mini pagode che le stanno intorno come i figli di un villaggio a una Madre nel giorno di festa o di mercato, la grande pagoda illumina il cielo inquinato col suo sogno.

Il momento di raccoglimento a Shwedagon fedeli e turisti lo cercano presso una delle colonne planetarie che rappresentano i giorni della settimana: ognuno fa un’offerta di acqua, di fiori, di incenso al suo giorno di nascita. Sembra una riunione di famiglia, la scena di un’umanità devota e grata. Si respirano pace e bellezza. Specie coi riflessi dorati del tramonto.

Le altre pagode di Rangoon

La città ti svela poi altri incanti.

Per esempio la Sule Paya, posta in mezzo a una rotatoria, quasi a sottolineare la mescolanza continua che esiste nella moderna Birmania tra il sacro e il profano. Si dice che questo tempio sia sotto l’influsso degli spiriti bizzosi dei Nat (culto anteriore al buddhismo) nonché loro dimora, e siccome i Nat nella religione birmana possono essere sia benevoli che malevoli, hanno degli sbalzi d’umore, dei bisogni e dei desideri proprio come gli uomini, per questo nei dintorni tanti cartomanti predicono il futuro.

la mescolanza continua che esiste nella moderna Birmania tra il sacro e il profano

E’ ancora Aung San Suu Kyi a ricordarci che ci troviamo in un paese di tradizioni millenarie unite a spiritualità profonde e che secondo la dottrina buddhista:

“il destino personale è deciso esclusivamente dalle azioni del singolo ma pur accettando questa verità gran parte della gente trova difficile resistere alla necessità di affidarsi a poteri soprannaturali, particolarmente in circostanze difficili”.

il destino personale è deciso esclusivamente dalle azioni del singolo

Lo stupore non finisce qua. Ti attende lungo il fiume, dentro la Boutaung Paya, più che dentro fuori in questo caso, nel magnifico corridoio di ingresso tutto rivestito d’oro.

nel magnifico corridoio di ingresso tutto rivestito d’oro

Oppure nella Ngahtatgyi Paya, dove si visita e si onore la statua gigante di un Buddha bianco. In tutte e due le pagode come in tutti i templi birmani colpisce lo sguardo compassionevole, consapevole e distaccato del Buddha. Quel sorriso enigmatico che abbiamo imparato a conoscere e ad amare leggendo il “Siddharta” di Hermann Hesse, quell’intelligenza superiore, raffinata e imperturbabile che se conquistata con le mille prove e i passaggi che ogni vita impone, dona davvero l’equilibrio e il nirvana.

“Ha l’aria di aver visto tutto e tutto compreso, conosciuti i vostri tormenti e frustrazioni, Anche lui aveva predicato la compassione ma non aveva scelto come il Cristo di farsi carico perfino nella morte della sofferenza dell’umanità. Al contrario aveva dimostrato come liberarsene…”
(Christine Jordis, Passeggiate in terra buddhista. Birmania)

Negli ultimi anni l’Heritage Trust di Rangoon ha capito per fortuna che deve recuperare tutto il fascino e la storia di questa città puntando su accurati restauri, condannando semmai alla dimenticanza e alla solitudine la vacua rappresentazione del potere militare di Naypydaw, costruita in modo geometrico e anonimo 300 km più a nord. Una Brasilia più brutta, nel sud est asiatico.

La magnifica Valle di Bagan

E arriviamo al quadro.

Arriviamo a quel momento del viaggio birmano che va contemplato perché regala a piene mani magia e misticismo, grandezza e armonia, una sensazione di pace infinita.
Si può scegliere una bicicletta per studiare ogni angolo, ogni visuale, ogni luce, ogni pausa.
Si può optare per un pulmino o meglio un calesse, per essere dolcemente trasportati nella campagna bruna da chi ne sa più di noi e ti mostra col dito e con la voce gentile tanti coni di pietra o d’oro che spuntano dalla terra come nelle favole.
Oppure per una cifra che si aggira intorno ai 300 dollari a persona si può vivere una delle esperienze più belle della vita: un volo in mongolfiera, per ammirare all’alba il risveglio della valle delle mille pagode di Bagan. Coi colori che sembrano estranianti e la meraviglia là sotto che ottunde i sensi.

ammirare all’alba il risveglio della valle delle mille pagode di Bagan

A Bagan la terra è del colore del rame, il paesaggio è vasto e arido ma questa superficie di 20 kmq ha visto nel XII secolo nascere uno dei siti archeologici più belli del mondo, sicuramente, insieme a quello della giungla cambogiana di Angkor, il più importante e affascinante di tutta l’Asia.

Qui è nata con le pagode anche la stessa civiltà birmana, il primo impero che riunì i popoli del fiume, qui si ammira il paesaggio splendido e irreale dichiarato ovviamente dall’Unesco Patrimonio Culturale dell’Umanità.

Ci sono viste al mondo dinanzi alle quali uno si sente fiero di appartenere alla razza umana. Bagan all’alba è una di queste. Nell’immensa pianura, segnata solo dal baluginare argenteo del grande fiume Irrawaddy, le sagome chiare di centinaia di pagode affiorano lentamente dal buio e dalla nebbia: eleganti, leggere; ognuna come un delicato inno a Buddha”
(Tiziano Terzani, In Asia)

Il ricordo di Marco Polo

Uno dei luoghi più belli del mondo anche per Marco Polo che ne “Il Milione” racconta che qui arrivarono artigiani buddhisti da tutte le parti dell’Asia e che la valle di Bagan divenne arida e spoglia per il taglio degli alberi la cui legna serviva a far cuocere i mattoni destinati a innalzare tanto splendore.

Il problema a Bagan è quale pagoda scegliere

Ne furono innalzate circa 12.000 nel momento di massimo splendore, ne sono rimaste poco più di 2.000, ben conservate o diroccate, eleganti o malinconiche, ricoperte di foglie d’oro o di mattoni, quelle famose e quelle nascoste, da scoprire in bici o a piedi col tuo istinto o con un bambino che ti guida sui sentieri più lontani e polverosi.

ben conservate o diroccate, eleganti o malinconiche, ricoperte di foglie d’oro o di mattoni, quelle famose e quelle nascoste

Ce ne sono però almeno sette imprescindibili in tutta l’area: il Tempio di Ananda, il più sacro, il più suggestivo, con le quattro statue dorate dei Buddha al suo interno e quelle punte dorate e bianche che dovevano ricordare al sovrano le vette dell’Himalaya; il Tempio Dhammayangyi, il più grande, il più conservato, con le statue dei Buddha gemelli; il Tempio Thatbyinnyu, il più alto e il più bianco; il Tempio Shwesandaw con le sue splendide terrazze panoramiche; il Tempio di Shwezigon, il più luccicante, il più dorato, quello che più ricorda la grande pagoda di Shwedagon a Rangoon e la vita di Buddha grazie ai disegni e agli smalti; il tempio di Mingun con la campana più grande di tutte.

E infine il Tempio di Mahabodhi, la pagoda a spirale con 465 nicchie con le statue di Buddha.
Dopo tutte queste visite capisci che la Birmania è probabilmente il paese asiatico, insieme al Tibet, dove è più sentito il culto del Buddha.

E infine il Tempio di Mahabodhi, la pagoda a spirale con 465 nicchie con le statue di Buddha

Tre giorni a Bagan

Insomma per Bagan il consiglio è di fare un giorno di visita guidata e un secondo giorno di visita libera e sentimentale, per scoprire la stupa di Hsipaw con l’albero cresciuto dentro, qualche monaco solitario in preghiera, qualche scimmia o serpente o il tempio più piccolo e umile e coperto di erbacce che lascerà comunque una grande traccia dentro di sé.

Un terzo giorno potrebbe essere utile per togliersi l’umidità di dosso, guardare la scena della valle da sotto un ventilatore a pale, scrivere un diario o anche solo riflettere sulla particolarissima coincidenza che sottolinea per primo Tiziano Terzani nel saggio “In Asia”: i mitici re del passato d’oro una volta fatti costruire i templi di Andana e di Mingun non volevano vedere al mondo niente di più bello, di più bianco o di più grande e quindi fecero decapitare gli architetti e i fabbri responsabili di tali meraviglie! Per eternarle, per renderle uniche, bloccando così ogni tipo di ulteriore progresso artistico!!

Lo stesso miope e crudele atteggiamento avuto secoli dopo e per lunghi 50 anni dai generali birmani: reprimere nel sangue ogni richiesta di mutamento, ogni vento di libertà, ogni spirito critico, disfarsi dell’esempio coloniale inglese e cambiare tutto, restaurando valori retrogradi e controlli assurdi sulle persone e sulle parole. Perché nulla davvero cambiasse!!

La Birmania antica e moderna con lo stesso destino: paralizzata.

per Bagan il consiglio è di fare un giorno di visita guidata e un secondo giorno di visita libera

Mandalay, la città dorata

“Il mio disincanto comincia da Mandalay, in questa primavera caldissima e umida che appiccica la camicia alla pelle, senza un filo di vento a increspare la superficie dell’Irrawaddy, divenuto di bronzo fuso, immobile e dorato”
(Aldo Pavan, Birmania, sui sentieri dell’oppio)

Mandalay è senz’altro la capitale culturale, artistica e religiosa della Birmania

Mandalay è senz’altro la capitale culturale, artistica e religiosa della Birmania, fa pensare a un regno perduto e affascina da sempre per il suo splendore tropicale.

Qui trovi i templi e i monasteri, il teatro di marionette e l’artigianato di giada, la cucina più speziata e saporita e una forte presenza di abitanti cinesi attratti da tante ricchezze e da tante possibilità.
Molto tipico il Water Festival nelle date variabili del Capodanno Birmano dove riempirsi di secchiate d’acqua ha una funzione liberatoria contro i cattivi eventi e le cattive azioni. Tutti inzuppati, tutti felici per le strade.

Mandalay la puoi vedere maestosa e tutta intera dalla sua collina panoramica, che si raggiunge con la scalata di 1729 gradini: ma dal tempio custodito dalle divinità mitologiche dei leoni il tramonto sul fiume, sulle stupe dorate e le pagode, sulle risaie e sul Palazzo Reale è molto emozionante.
Mandalay la puoi sentire leggera e fluttuante, che si poggia sull’acqua, percorrendo il ponte di tek più lungo del mondo, l’U Bhein. Là sopra sei aria, sei acqua, sei una sensazione che a Buddha piacerebbe.

Mandalay è senz’altro la capitale culturale, artistica e religiosa della Birmania

Mandalay la puoi immaginare caotica, seducente e promiscua nei suoi 28 brevi anni di capitale imperiale (gli inglesi appena entrati nel paese spostarono il centro del potere a Rangoon), quando qui vivevano tutti insieme mercanti, monaci e prostitute.

Puoi cercare il suo splendore nel Golden Palace dove pare che il Buddha gigante fu trasportato da 10.000 persone (!), oppure nel santuario di Mahamuni, il secondo più sacro del paese dopo quello di Shwedagon, ritenuto dotato dal popolo di poteri soprannaturali e per questo Terzani nel suo grande affresco sull’Asia dei popoli, delle culture e dei paesaggi scriveva che i fedeli lo ricoprono perennemente di lamine dorate, perché in cerca del miracolo che gli guarisca i malanni o gli cambi la vita, se non quella attuale quella futura, la seconda, o la terza…

Puoi farti conquistare dalla sua umiltà ammirando le semplici architetture in legno di tek del Monastero Shweinin Kyaung o meglio ancora assistendo al pasto dei mille monaci nel Monastero di Mahagandayon, quando silenziosi, devoti, ordinati, aspettano la loro porzione nell’ultimo pasto del giorno, alle 10.15 (!!!), nella loro scodellina d’acciaio.

Puoi infine accostarti in modo millesimale ai misteri del buddhismo di Mandalay nella famosa Pagoda di Kuthodaw, facendoti spiegare da un monaco-guida qualcuna delle 729 pagine del libro in marmo più grande del mondo che contiene i precetti di Buddha. Si è calcolato che per leggere tutte le lastre ci vogliano “solo” 6 mesi consecutivi!!

Se non bastasse tutto ciò la seconda città birmana significa anche botteghe artigiane e mercati colorati, raccolte sale da thè e nascosti incanti orientali. Situato in pieno centro e circondato da un enorme fossato, meno attraente, almeno per me, il Mandalay Palace, ricostruzione del palazzo in tek dell’ultima monarchia birmana usato come fortino dai colonialisti inglesi e come base militare dai vari governi.

La vera Birmania è altrove.

Per esempio nei dintorni della stessa Mandalay dove si celebra un’altra festa tipica, quella della Danza degli Elefanti: due uomini entrano sotto le grandi maschere di cartapesta, stoffa e bambù (simili ai carri del Carnevale di Viareggio) ricoperte di nastri e luccicanti perline e devono imitare al meglio le goffe mosse dei pachidermi tanto amati in questo angolo d’Asia.

(continua…)

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