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Universo Uzbekistan – seconda parte

Sopra i tre mari

Il mio volo segue la tratta misteriosissima dei tre mari, che sorvola in sequenza il Nero, il Caspio e l’Aral e una miriade di paesi che una volta erano l’Unione Sovietica. Una volta in più mi sorprendo a pensare quanto fosse grande e diversa.
Oltrepasso Yalta e Grozny, conferenze di pace e teatri di guerra, mentre la luce dell’alba si intravede all’orizzonte, lontana. Mentre le nuvole si accalcano sul Caspio non chiudo occhio, aspettando l’apparizione del Mare d’Aral, bianco fantasma che inquieta da anni i miei desideri di viaggiatore. Perché mi attirano i posti dove è accaduto osta accadendo qualcosa di tragico? Il brivido di poterlo raccontare? Di arrivare alla fine della strada? Di potersi dire di avere fatto in tempo a vederlo? La voglia di indignarsi, sempre e comunque?

Passa il Caspio, pattumiera petrolifera, e prima della chiazza bianca c’è un’ostile terra di nessuno, flagellata dai venti, divisa tra Kazakhstan, a Nord, e Turkmenistan, a Sud.
La luce che viene da Oriente dipinge sullo spesso strato di nuvole una striscia sottile, chiara, rossastra

Passa il Caspio, pattumiera petrolifera, e prima della chiazza bianca c’è un’ostile terra di nessuno, flagellata dai venti, divisa tra Kazakhstan, a Nord, e Turkmenistan, a Sud.
Volo sopra terre flagellate dal vento, rifiuti nucleari, percorsi strategici di oleodotti, disastri ecologici, sopra tutto ciò che al ventre molle dell’Asia Centrale è stato regalato dall’Unione Sovietica in termini di pericoloso inquinamento industriale e indecente sfruttamento delle risorse.
La luce che viene da Oriente dipinge sullo spesso strato di nuvole una striscia sottile, chiara, rossastra, sembra quasi un’aurora boreale, sospesa dal suolo, tenue e magica. O è semplicemente il riverbero assassino che la pallida sabbia salata del Mare d’Aral proietta fino in cielo, a chiedere perdono a Dio e agli uomini.
E finalmente appare, l’alba me lo mostra di un arancione splendente, come un gigantesco Salar boliviano, letale nelle sue polveri, splendido nei suoi colori. Dall’alto, lontano dalle miserie degli uomini, sembra un paradiso.
Controlli di passaporto lunghi e pesanti, la flessibilità è un concetto che nei labirinti burocratici delle ex lande sovietiche non esiste.

I simboli di Tashkent

Tashkent assomiglia in parte alle altre capitali dell’Asia Centrale che ho già visitato. Ha gli alberi di Bishkek, lunghe file verdi in ogni strada, accanto ai canali per l’irrigazione che separano i marciapiedi dalla sede stradale, dove puoi annegare o romperti una gamba in un nanosecondo; ha alcuni dei palazzi bianchi di Ashgabat, come se il bianco rappresentasse purezza, potenza e potere, nonostante sia impossibile arrivare al livello delle follie architettoniche di Turkmenbashi e del suo successore Arkadag. Con i loro marmi risplendono lucenti, oltre file di case basse, ostentano simboli e vanagloria di potenza.

come se il bianco rappresentasse purezza, potenza e potere

E’ una città grande e girarla è piuttosto complicato, primo perché devi schivare di continuo automobilisti incapaci, secondo perché vaghi sotto gli implacabili 35 gradi del pomeriggio.
Le targhe con i nomi delle vie sono una rarità. Seguo l’istinto. Cammino lungo una strada dritta e monotona, circondata da palazzi orrendi ereditati dal passato sovietico, su marciapiedi inesistenti, cercando l’ombra e, al tempo stesso, di non essere investito. Scelgo allora la Metro.

La metropolitana di Tashkent non è come quella di Mosca ma ci si avvicina molto. E’ un simbolo della grandezza sovietica, un’opera d’arte da visitare. Le stazioni sono uno spettacolo. Quando il treno si ferma alla stazione Kosmonaut, guardo lo spazio rappresentato sulle sue pareti, navicelle che fluttuano nel nulla, e sono guardato da astronauti che ti spiano da enormi oblò. Magari è il ritratto di Gagarin, l’uomo sovietico alla conquista del cosmo.

Gli androni delle stazioni sono pieni di enormi lampadari, statue commemorative, presuntuosi stucchi, marmi sontuosi, quadri celebrativi, colonne neoclassiche, soffitti elaboratissimi.
L’umanità che popola Tashkent non sembra affatto orientale. Se i Kazakhi e Kirghisi sono nomadi dalle fattezze orientali, gli Uzbechi sono sempre stati più stanziali. In città la minoranza kirghisa ha tratti somatici mongoli, quella coreana, deportata da Stalin tre generazioni fa, ti fa sentire in Cina, ma per il resto sembra di essere in Europa e neanche gli abiti sono così variopinti, per lo meno nella capitale. Si intravede qualche velo, ma anche trucchi ostentati, tacchi alti e minigonne e, per tre giorni, non ho sentito nessun muezzin chiamare alla preghiera, né visto gente pregare. Bere sì, in tanti e tanto.

In un paese apertamente musulmano, ho visto un’enorme chiesa ortodossa, interamente dipinta d’azzurro e con le cupole dorate, ma neanche una moschea. Nella parte uzbeca invece ecco il grande mercato e i vicoli labirintici.
Uscendo dalla metropolitana mi ritrovo a Piazza Amir Timur, il grande slargo da dove, come raggi, partono le vie principali della città. Al centro, circondata da un giardino, una grande statua di Tamerlano a cavallo, la figura su cui, da qualche anno, si è voluta formare l’identità nazionale uzbeca.

una grande statua di Tamerlano a cavallo, la figura su cui, da qualche anno, si è voluta formare l’identità nazionale uzbeca

Qui, come nella Macedonia di Skopje, un condottiero a cavallo, di origine non nazionale – probabilmente greco Alessandro, turco lo zoppo – utilizzato per poggiare le fragili fondamenta di uno stato moderno su un passato glorioso. Accade negli stati giovani. Sventurato il popolo che ha bisogno di eroi…

I cambiamenti avuti nella piazza riflettono quelli della storia uzbeca.

Alla fine del 1800 c’era una statua che rappresentava i trionfi zaristi, due soldati che suonavano la tromba e festeggiavano la vittoria nel Grande Gioco piantando la bandiera col vessillo dello zar. La piazza era dedicata a Konstantin Kaufmann, primo governatore del Turkestan russo, colui che ai tempi del Grande Gioco conquistò Samarcanda, Bukhara, Khiva e Kokand. In seguito, con l’avvento dei bolscevichi, la piazza fu chiamata Giardino della Rivoluzione, ospitò obelischi, falci, martelli, busti di Lenin. Poi fu il turno di Stalin e, parecchio tempo dopo la sua morte, si tornò a un bronzo del testone di Karl Marx.

Tamerlano arrivò nel 1993, a cavallo, con il braccio destro levato. Anche Lenin indicava in avanti, mostrava il futuro. Penso che sia cambiata la faccia, ma i simboli restano quelli.
Sul piedistallo una scritta “Il potere è nella giustizia”. Era il motto di Tamerlano. Ma oggi? Qui? In Uzbekistan? Andiamo oltre, che è meglio.

Le strade intorno alla Piazza di Tamerlano sono otto, indicano i punti cardinali, tutto inizia da Lui. Sono diritte, prive di fantasia e scarse di negozi. Ospitano un fiume di macchine, inquinamento, caldo e palazzi del potere tutti, invariabilmente, bianchi.
Giriamo parecchio in macchina per Tashkent e intravediamo il resto della città dal finestrino. Ecco la grande Moschea ed ecco il grande monumento al terremoto del 1966, quando la città fu rasa al suolo e quando da tutta l’Unione Sovietica arrivarono volontari per la ricostruzione.

Ecco la grande Moschea ed ecco il grande monumento al terremoto del 1966

La piazza più grande si chiama Mustaqillik Maydoni, o dell’Indipendenza, ed era la piazza più grande di tutta l’Unione Sovietica. Si chiamava Piazza Rossa e una volta ospitava la cattedrale, distrutta dal terremoto, e la statua di Lenin più alta del mondo: 30 metri di granito volati via con l’indipendenza. Oggi l’entrata è trionfale e bianca, di una geometria rigida, intorno ovviamente altri palazzi bianchi, del verde e delle fontane, i simboli del potere in Asia Centrale.

La piazza più grande si chiama Mustaqillik Maydoni, o dell’Indipendenza, ed era la piazza più grande di tutta l’Unione Sovietica.

Gli stemmi delle Repubbliche sovietiche

E’ da un po’ che mi frulla in testa di capire la simbologia degli stemmi delle repubbliche dell’Unione Sovietica, i cosiddetti, coat of arms. Mi hanno sempre interessato il significato del braccio teso di Lenin, quelli dei bassorilievi nei monumenti agli eroi, ai caduti, ai padri della patria.

Nell’Unione Sovietica si andò a caccia di simboli e il suo stemma doveva essere unico. Non poteva rappresentare scudi, elmi, cimieri, tutto ciò che di feudale la Rivoluzione aveva distrutto. Lo stemma che fu concepito aveva la forma di una corona d’alloro, a ricordare i trionfi in guerra ma, al posto dell’alloro, c’erano delle fascine di grano che significavano il lavoro, la gente comune, i contadini. Il grano era avvolto in quindici drappi rossi su ognuno dei quali c’era la scritta “Proletari di tutti i paesi unitevi!”, nelle quindici lingue delle repubbliche che formavano l’Unione. Tra le due fascine di spighe il sole che sorgeva, quello dell’avvenire, il globo terrestre sul quale ovviamente gli Stati Uniti si intravedevano appena, sormontato da una falce e martello, simbolo dell’unione di contadini ed operai. In alto, tra le due fascine e sopra il mondo, una stella rossa a cinque punte con bordi dorati.

Ha diverse interpretazioni, leggo: le cinque dita della mano del lavoratore, i cinque continenti, le cinque classi unite dalla rivoluzione, giovani, operai, contadini, intellettuali e militari.

Gli stemmi delle quindici repubbliche ripresentavano, invariabilmente, quasi tutti i simboli politici dello stemma nazionale e, in più, erano arricchiti da ciò che delineava la propria particolarità, le caratteristiche geografiche della terra e quel che il suolo offriva. Li ripasso e intravedo uva e i due coni dell’Ararat sullo stemma armeno, il petrolio su quello azero, altra uva per quello moldavo, uva e un altro monte, l’Elbrus, su quello georgiano, intarsi musulmani e la catena montuosa del Tian Shan su quello kirghiso, il niente del deserto su quello kazako, pini su quello estone, querce sul lituano, mare (e un sole che tramonta invece che sorgere perché il Baltico è a Ovest) sul lettone, cotone per il tagiko, petrolio, cotone e simboli dei clan per il turkmeno, cotone, fascine di grano, il globo e il sol dell’avvenire su quello uzbeco…

Oggi nella versione più moderna spicca anche un uccello ad ali spiegate, che mi dicono essere la fenice, risorta dalle proprie ceneri. Questo stemma in Uzbekistan si trova ovunque: sui documenti governativi, per strada, sui monumenti, sui vagoni dei treni.

spicca anche un uccello ad ali spiegate, che mi dicono essere la fenice, risorta dalle proprie ceneri. Questo stemma in Uzbekistan si trova ovunque

Cena in una casa uzbeca

Dicono che l’ospitalità uzbeca sia la più calda del mondo. Ce ne accorgiamo non appena ci sediamo a tavola nel giardino del professore conosciuto al convegno. Sì, perché se le case uzbeche da fuori sono anonime, basse e bruttine, dentro nascondono sempre verde e acqua e uno spazio dove poter mangiare all’aperto, in genere all’ombra di qualche albero. Accanto al tavolo, un grosso piano rialzato pieno di tappeti e cuscini. Il nipote e il genero del Professor Alisher, che ci fanno da interpreti, ci raccontano che non è altro che il letto d’estate, per sfuggire all’afa che non dà tregua. Siede con noi anche Stella, la moglie, che ha nelle vene sangue uzbeco, russo, tagiko e armeno. Ridendo ci dice “questa era l’Unione Sovietica”.

Ci portano almeno una decina di deliziosi antipasti freddi, il classico pane a ciambella punteggiato di semi di sesamo bianco e nero e una montagna di manti, i tortellini di questo spicchio di mondo, ripieni di spezie e di diversi tipi di carne tritata, che si servono con della panna acida. Vino rosso francese, vino rosso dolce uzbeco: devi fare attenzione a non oltrepassare la metà del bicchiere, altrimenti viene riempito automaticamente e sono guai, anche perché sono stato bravo ad evitare la vodka di inizio pasto, ma alla fine non la potrò fuggire, pena la schiavitù, come ai tempi dell’emiro Nasrullah.

il classico pane a ciambella punteggiato di semi di sesamo bianco e nero

Ognuno deve fare un brindisi, a turno, ed è una cosa seria, un sigillo all’amicizia. E fino a qui tutto bene, tranne due imprevisti. L’ospitalità degli insetti uzbechi che mi mostrano il loro affetto, dall’inizio alla fine, scendendo in picchiata a dissetarsi nel mio bicchiere di vino, e quella degli umani che, quando crediamo che la cena sia già finita, portano a tavola otto tipi di spiedini. Di agnello, maiale, manzo, pollo, carni miste tritate, leggermente marinate con le spezie, che si sciolgono in bocca. Infine, prima di andar via: “E’ la prima volta che sei ospite nella nostra casa ed è nostra tradizione fare un regalo, perché l’ospite si ricordi di noi”. E mi consegnano un chapan, ovvero il soprabito tradizionale, lungo e nero, dagli intricatissimi bordi dorati. Io non so che dire e mentre sono ancora ammutolito, in parte dallo stupore, in parte dall’emozione, mi regalano anche un enorme piatto di ceramica da portata, decorato con le cupole verdi di Khiva. Che popolo… meno male che non c’era in programma l’agnello, altrimenti, da ospite d’onore, avrei dovuto ingurgitarne l’occhio, il boccone per loro più prelibato. Ecco, mi sa che quello non lo avrei tanto gradito.

La seconda cena effettuata a Tashkent, dopo una giornata di lavoro delirante, è stata ad un ristorante tradizionale. Il pilaf, una montagna di riso basmati condita con ogni ben di Dio, è qui l’orgoglio culinario nazionale. Il grande Avicenna nei suoi libri di medicina vi dedicò un intero capitolo, descrivendo pregi e difetti di ogni ingrediente. Ogni cuoco ha la sua ricetta e si dice che i segreti per cucinarlo bene si tramandino di padre in figlio. Quello che ho mangiato conteneva – vado a memoria di papille gustative – riso, ceci, carne e grasso di montone, cipolle, verdure, uvetta, cumino, spezie, mirtilli (!) e chissà cos’altro. Gli spiedini erano più semplici ma riconciliavano con tutte le grigliate di carne venute male e con tutta la carne senza sapore del mondo.

La terza cena si è aperta con l’inno di Mameli. Eh già, perché non abbiamo potuto evitare un ricevimento dell’ambasciata effettuato in occasione della festa nazionale. Visto che è il 30 maggio, immagino che anticipino il 2 giugno, ma dal discorso fatto in pompa magna dall’ambasciatore in inglese e tradotto in russo, capisco che si festeggia il 17 marzo 1861 con un po’ di ritardo. Evidentemente la notizia dell’unità d’Italia è arrivata a piedi lungo la via della seta!!

Ci sono due carabinieri, con i pennacchi, con i pennacchi che, sull’attenti, ascoltano anche l’inno uzbeco, insensibili al fatto che il loro ambasciatore abbia ringraziato in chiusura di discorso non solo il nostro Presidente ma anche l’illuminato Islam Karimov, dittatore sanguinario.

Scoliamo quindi gli ultimi bicchieri di vino, usciamo per strada e mentre ci passano davanti tre donne in abiti tipici davanti alla moschea alziamo un braccio. Sì perché, in Uzbekistan chiunque stia guidando è, potenzialmente, un tassista e chi non lo fa per mestiere offre tariffe, sempre da contrattare, più basse dei tassisti ufficiali. Con due dollari attraversiamo la città. E questo è il mio saluto a Tashkent.

ci passano davanti tre donne in abiti tipici

(continua con la puntata su Samarcanda, che sarà ospitata nel Topic “Luoghi magici”)

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