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Metropolis

Il Cairo, l’antichità e il caos – seconda parte

I tesori del Museo e di Tutankhamen

Il ricordo del museo egizio di Torino è recente ed è ottimo. Ma quello che lì passava per reperto eccezionale qui è la normalità. I sarcofaghi sono accatastati lungo le pareti, come libri sugli scaffali di una biblioteca. Mummie di faraoni a dozzine, di animali, due coccodrilli giganti di sei metri. E alla fine sono tutti uguali, dei, semidei e bestie, anche Ramses II è incartapecorito, al pari di gatti e agnelli. Non è cenere, non è polvere alla polvere, ma poco ci manca.

I sarcofaghi sono accatastati lungo le pareti, come libri sugli scaffali di una biblioteca

Nelle varie sale si intravedono mummie dell’Alto Nilo, pelle nera nubiana, nasi importanti, improbabili capelli crespi. Ma è Tutankhamen a farla da padrone. Se lui, in soli nove anni di regno, aveva tutta quella roba scintillante ammucchiata nella tomba, cosa fu per gli altri? Cosa a chi regnò per 67 anni? Tutto rubato, o altrove: Londra, Parigi, Berlino, case misteriose di ricchissimi collezionisti privati.
C’erano tre casse nella tomba del giovane faraone, a scatole cinesi, tre sarcofaghi, uno dentro l’altro – pietra, legno e l’ultimo 110 chili d’oro massiccio. Incredibile a vederlo, pensi sia una favola. Ti rendi conto che solo guardando dal vivo ti fa capire. E allora pensi alla faccia di chi lo ha scoperto a Luxor. A quando, aprendo il sarcofago, ha trovato la maschera d’oro di 11 chili che è di una perfezione assoluta, quella che è su tutti i libri di storia, levigata come il più perfetto dei marmi. E poi carrozze, bighe, cibo, gioielli, utensili, un mondo di vestiti dentro la tomba, cibo per la vita eterna e gli schiavi, anche loro, ma come statue. Non sia mai, merce preziosa, serviranno qualcun altro. Meglio farli morir di fatica che di morte violenta assieme al loro dio-padrone.

la maschera d’oro di 11 chili che è di una perfezione assoluta

La guida del museo ci porta in un negozio di profumi e di unguenti dove ovviamente si meriterà di soppiatto (neanche tanto!) la sua commissione. Ci riporteremo in Italia un profumo stendi-donne che non useremo mai, uno sciroppo magico per ogni malanno che rimarrà ovviamente dentro la bottiglietta, i cristalli da respirare per il raffreddore invernale. Quelli sì, li userò: prodigiosi!

La mangiata e la Cittadella

La mangiata e la Cittadella

Terzo taxi per il quartiere di Ibn Tulum. Non entriamo nella moschea perché lo stomaco reclama urlando, son quasi le tre, e per cercare un posto decente ci allontaniamo troppo, seguendo la via in salita verso la cittadella fortificata, meta successiva. Sembra quasi che gli egiziani non mangino: a Istanbul ti si litigavano. Qui il cibo da strada sembra essere poco o scadente. E’ necessario trovare un mercato popolare per scoprire quanto sia basso il costo della vita, quanto costino poco guaiave e datteri, si parla di piastre, non di pound, una miseria, e per infilarci da El Kairum, che ha esposti fuori dal negozio invitanti spiedini e girarrosti. Catturati dalla tela del ragno, una volta dentro non vorremmo più uscire. Ci offre un sottaceto che facciamo finta di mangiare, troppo scortese rifiutare. Difficile uscire perché dentro c’è ogni ben di Dio, al di là delle apparenze modeste, mangiamo di tutto e l’atmosfera è allegra. “Facciamo uno spuntino”, così siamo entrati: un pollo arrosto, melanzane ripiene, buonissimo ful, ottimo sfornato di fave al sugo con cipolle, patate fritte, thè lla menta e biscottini finali. Conto ridicolo, sette euro a testa e padroni soddisfatti e sorridenti – ci avranno fatto pagare due volte tanto rispetto al cliente standard, ma chi se ne frega, siamo stati benissimo.
La salita alla Cittadella ci aiuta a digerire.
Arriviamo alla fortificazione che domina Il Cairo e oltre, col sole basso. Lo smog rende tutto grigio ed ovattato ma dietro i grattacieli sbucano inconfondibili, nonostante tutto, ancora loro, le piramidi. Il traffico caotico non rompe l’incanto, neanche le case brutte del centro, né la moschea, che dentro è banale e fredda, come quasi tutte le moschee che ho visto, e da fuori – se ne lamentano gli stessi egiziani – sembra un enorme rospo acquattato.
L’ultimo tassista della giornata, è buio ormai, ci riporta in albergo. Filo dritto coi miei amici in uno dei locali che vedi ovunque. Dove i poveri lucida-scarpe finiscono la giornata lavorativa e, come se andassero al pub, fumano la shisha e sorseggiano lenti il tè rovente. Ci porta un bicchiere pieno di menta e con i fondi quasi mi strozzo. Stupendo. Dentro la gente gioca a carte, a backgammon, fuma, ride, urla. Nel locale accanto si agita guardando una partita di calcio, un tipo grassoccio col segno della cenere spalmato sull’ampia fronte ulula di dolore e sbatte i pugni sul tavolo per un autogol. Non mi piacerebbe incontrarlo in uno stadio come tifoso avversario…
Avrei gradito un bel finale con un bagno turco. Benedette Tunisia, Turchia e Marocco che ancora lo usano quotidianamente: qui ormai è roba di turisti, quartieri VIP, hotel a cinque stelle. Almeno negli alberghi trovi anche le donne egiziane che fumano la shisha, raramente per le vie della città.

Almeno negli alberghi trovi anche le donne egiziane che fumano la shisha, raramente per le vie della città

Dopo averci camminato dentro un’altra lunga giornata il caos, il disordine e la sporcizia del Cairo li senti ancora di più. Città che ti ingoia e ti sputa via. Difficile muoversi, attraversare la strada assomiglia a un suicidio, guidarvi a un azzardo. Si respira a fatica, ho i pori otturati, il viso nero, i capelli crespi.

un’altra lunga giornata il caos, il disordine e la sporcizia del Cairo li senti ancora di più

Il thè mi purifica, mi rilassa e una partitella a backgammon con un egiziano ci starebbe veramente bene. E’ uno dei modi, come con il bao in Tanzania o con il truco in Nicaragua, per conquistare la loro fiducia, per far capire loro che di te si possono fidare, perché sei dalla loro parte. E in una vacanza di sei giorni momenti del genere sono troppo rari e brevi. La cena è tipica, in hotel, e si chiacchiera. Il lounge bar sembra uno di quei posti-isola dove giornalisti ed intellettuali si ritrovano a parlare, mentre fuori c’è la rivoluzione. E l’islam è lasciato fuori dall’uscio.

Il cacciatore di spezie

Il giorno del Souk. Ci entriamo quando inizia a vivere, c’è molto più movimento rispetto a ieri. Non tutti i negozi sono aperti, c’è chi se la prende comoda. Cerco subito le spezie. C’è un negozio di spezie ed erbe medicinali che mi stura definitivamente il naso. La galanga che, come la curcuma compro intera, provoca starnuti in rapida successione. Non conosco molte erbe, strano, la prima volta che mi capita, e mi sono ignote diverse miscele di spezie. Sarà anche che è tutto scritto in arabo ed io non posso aprire tutti cassetti del negozio e sniffarne il contenuto, né parlare per secoli con il pur disponibile addetto alla vendita. Un mio amico fa il carico di incensi, un altro di pistacchi, un terzo di lanterne colorate.

Un mio amico fa il carico di incensi, un altro di pistacchi, un terzo di lanterne colorate

Ci perdiamo nelle stradine strette e tortuose fino ad arrivare al tanto celebrato Caffè degli Specchi. Bello, accogliente e decadente. Pieno di gente che fuma shisha e, come noi, beve tè alla menta, mentre decine di venditori ambulanti passano per i tavoli: ti propongono l’acquisto di scarabei sacri, sono lucida-scarpe, è un’umanità brulicante che vedi moltiplicata dal gioco degli specchi, alcuni incrinati, piazzati sia dentro che fuori il locale, nel vicolo angusto. Fumare la shisha può essere un’attività infinita, secondo me procura pure stordimento, assuefazione. Nel caffè sotto l’albergo un vecchietto rugoso ha continuato a farlo per cinque ore di seguito. Quando siamo tornati dal souk era ancora lì, che spippettava, nella stessa posizione. Sembrava una statuina di un presepe. Una candela che si stesse consumando, piano piano.
Il souk non è enorme, non quanto me lo aspettavo, né molto vario, devo dire. E’ parecchio carente nell’offerta di prodotti di artigianato mentre c’è troppa paccottiglia turistica, shisha, gioielli, lavorazioni in pietra. Manca l’odore del cibo. Solo in pochi carrettini cucinano riso e ful. I negozianti sembrano portarsi il cibo da casa. Ci fermiamo ad acquistare qualche oggetto in pietra e dei bei cuscini. Io compro tre scodelline in onice dove, finalmente, dopo anni, tenterò di mettere la sabbia multicolore di vari deserti africani ed asiatici che tengo a casa in buste dall’aspetto preoccupante. Poi ci separiamo, mi serve un po’ di tempo per seguire l’istinto del cacciatore di spezie e per far due chiacchiere con i ragazzi delle botteghe. Ma ho solo mezzora.
Trovo la parte antica del mercato, dove i turisti non arrivano quasi mai, vicoli laterali scuri e nascosti, e dove le spezie son comprate soltanto dal popolo.

Trovo la parte antica del mercato, dove i turisti non arrivano quasi mai, vicoli laterali scuri e nascosti

Nonostante ciò lo zafferano iraniano, quello vero, costa un occhio della testa. Ne compro comunque un po’ insieme ad un altro po’ di tipo egiziano; faccio scorta di macis, la scorza della noce moscata che è droga – mi dicono. Appena la mastichi un po’ – verificato – rende insensibile la lingua. Poi, ovviamente, è un insuperabile afrodisiaco. Non c’è mercato al mondo dove non ti propongano di usare una spezia come viagra naturale, mi fa proprio ridere questa cosa! Al lettore immaginare i gesti eloquenti, essendo carente il suo inglese, effettuati dal venditore col bacino.
Compro l’allume, come da tradizione la maglietta da calcio della nazionale egiziana, un po’ di ressa, gomitate e dopo le botteghe delle borse siamo fuori.
Scansiamo i tassisti truffaldini e ci affidiamo ad un vecchietto che sembra il Santiago de “Il vecchio e il mare” di Hemingway: baffi bianchi, pochi denti, sorriso solare e mani callose. Evita un ciclista per un pelo, lo maledice al suo Dio, di cui conserva una copia del Corano appena sopra il cruscotto.
Sistemiamo i bagagli e mangiamo shish kebab, zuppa, piccione ripieno di riso e hummus di ceci in un locale dietro l’angolo, dove non c’è ombra né di turisti né di viaggiatori solitari. La vera città la scopri e la apprezzi anche in momenti del genere.

Ultime ore al Cairo

Sperimentiamo la metropolitana dai due vagoni centrali per sole donne. Quattro fermate con studenti ululanti per arrivare al quartiere copto, ovvero quello dove ebrei e ortodossi si sono ghettizzati dopo la conquista araba. Ma anche dove si rifugiò la “sacra famiglia” in fuga da Erode. C’è una cripta ed una chiesa del II secolo sopra la casa di Gesù. E lì accanto si fermò Mosè a pregare, e apparve il profeta Elia. Tutto lì, nel raggio di cinque metri? Mmmmh, puzza un bel po’.
Ci sono chiese ortodosse, cimiteri greci, sinagoghe, tombe cristiane, mura romane e San Giorgio contro il drago raffigurato un po’ ovunque. In più c’è un interminabile negozio di souvenir a prezzi fissi: mobili intarsiati, backgammon a misura di gigante, alabastro, gioielli, maschera di Tut in mille salse. Tutto ciò che si trovava nei souk è qui, a prezzi maggiori. Tranne le spezie, assenti.

Mercatini di frutta e di ricambi per auto, uno accanto all’altro, strano abbinamento. Zamelek, quartiere “in” sull’isola del Nilo: cambiano i negozi, cambia la gente. Locali per i nuovi ricchi del Cairo, un pasto veloce, più caro e meno buono degli altri.

Manca solo lo sguardo finale dall’alto, stavolta impressionante, perché all’arrivo era notte: eccola la città infinita, la città alveare, la sagoma eterna delle piramidi e della sfinge, il Nilo che si snoda come un nastro nel chiarore giallastro del deserto.

Manca solo lo sguardo finale dall’alto, stavolta impressionante, perché all’arrivo era notte

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