L’arrivo ad Angkor Wat

La città cambogiana dove si atterra per visitare il monumento religioso più grande del mondo si chiama Siem Reap. Wikipedia mi dice che il suo nome significa “la sconfitta del Siam”, ovvero della Thailandia, il nemico storico, e ricorda un bagno di sangue celebrato in diversi bassorilievi dei monumenti di Angkor.
Al controllo passaporti tredici persone, omaggio al concetto fordista di catena di montaggio, per spillarmi qualche dollaro, guardarmi in faccia, anzi scrutarmi, esaminare il documento, registrarne gli estremi, passarlo alla persona accanto, fotocopiarlo, archiviarlo, apporre timbri e firme come esige la prassi, riconsegnarlo. Rapidi ed efficienti. Io, sorpreso, ad attendere l’esito.
All’uscita dell’aeroporto una folla di persone che aspettano, guidatori di tuk tuk e tassisti, scrocconi e procacciatori di affari, eroi dello street food preparato in condizioni impensabili e ambulanti chiassosi e precari: il classico e brulicante sciame asiatico. Quello che era un villaggio di contadini e pescatori si è trasformato in una grossa cittadina trafficata, piena di ristoranti e agenzie che propongono servizi turistici, inevitabilmente riguardanti la visita agli incredibili tesori di pietra, che si trovano appena a sei chilometri di distanza.
Al sito archeologico più famoso dell’Asia insieme a quelli birmani ci andiamo la mattina successiva e all’ufficio biglietti c’è un’efficienza sospetta per uno dei paesi più poveri del mondo. Foto fatte seduta stante con una webcam per ottenere un abbonamento di tre giorni valido per tutta l’area, da non lasciare in hotel né perdere per nessun motivo. Una cinquantina di dollari per rimanere a bocca aperta.
Vanna, la nostra guida minuta dal sorriso triste, ci dice, a denti stretti e a voce e occhi bassi, che Angkor Wat è in mano commercialmente ai Vietnamiti, così come i campi di sterminio a Phnom Penh sono in mano ai Giapponesi. Per lui è una sorta di vergogna nazionale: vendere la storia, gloriosa o orrenda che sia, al miglior offerente.
Le pietre parlano

Il primo sguardo al tempio dei sogni è un fossato, attraversato da un lungo ponte, in cui si specchiano torri mozze accanto ai colori cangianti dei fiori di loto. Non appena si entra nel complesso si riescono a scorgere, oltre il prato e le palme, le torri del mio immaginario. Sono cinque: dall’ingresso ovest se ne vedono solo tre, ma sono sufficienti a togliere il fiato.
Con uno scatto improvviso inizio una visita solitaria. Troppe parole sprecate da Vanna sulla storia, fermi a cuocere sotto il sole sul ponte lì fuori, quando posso leggerle sulla Lonely Planet. E allora ascolto quelle essenziali: “Maestoso mausoleo funerario voluto dal Re Suramayan II, costruito negli anni 1112-1152 in un’area di 400 Kmq da 300.000 operai che caricavano i blocchi di pietra su 6.000 elefanti, l’esempio più fulgido dell’arte e dell’orgoglio cambogiano, diventato l’icona del paese, il suo centro spirituale e politico, a rappresentare il Monte Meru, il Monte Olimpo degli Hindù, in cui dimoravano le antiche divinità”. Per poi andare ad ascoltare da solo le voci della pietra, come ho fatto in Myanmar o nella giordana Petra.
Mi perdo quindi letteralmente nella giungla di verde e di pietra di Angkor, a guardare centinaia di bassorilievi dalle scene violente che sembrano quasi, come osservava Tiziano Terzani, una profezia di quel che sarebbe accaduto secoli dopo, e cortili più o meno nascosti, disposti simmetricamente al corpo centrale, percorsi da turisti in bermuda e da bonzi in accesissima tonaca arancione.

Cerco di distinguere gli animali mitici, gli asceti, le divinità, le scene della corte imperiale e le oltre 3.000 figure di ninfe delle Apsara, le danzatrici celesti, scolpite nella pietra. Di indovinare quelle che erano le sale dedicata a Buddha, le biblioteche, le vasche rituali. Mi fermo con rispetto davanti alla torre più grande che simboleggia il Monte Meru, penso agli Hindu che vollero rappresentare i continenti conosciuti con le torri e i cortili più piccoli e il grande oceano con lo spazio del poetico fossato. Apprezzo la simmetria, la magia, la creatività, la purezza, i colori della giungla.
Non sento il rumore della gente, che pure è tanta, sono troppo concentrato sulle voci della pietra. Mi aspetto di vedere file di teschi da un momento all’altro, perché Angkor Wat è un edificio tetro che ricorda alcune atmosfere del film “Apocalypse Now”, le follie di Marlon Brando nei panni del Colonnello Kurtz, la vacca uccisa a colpi di machete con la musica di “The End” dei Doors.
Forse sarà perché i colori che lo ricoprivano sono stati mangiati dalla giungla che per secoli ne ha celato l’esistenza, perchè la pietra è corrosa, scura e tormentata, ma fa sensazione sapere che Angkor era sangue, di colore rosso sangue. Ti dà l’idea della forza assoluta dell’Asia, religione, spiritualità, saggezza o natura che sia.
Dall’alto della torre centrale fotografo khmer in vestiti tipici, dalle facce annoiate e truccatissime, pronti a spettacoli di danza per turisti affamati di folklore. Quando esco, dopo tanto girovagare, faccio un giro esterno e mi imbatto in un gruppo di scimmiette curiose che si arrampicano sui miei pantaloni. Mi fermo ai negozietti, ed è un assedio di bambini che vendono libri, tutti sul terribile genocidio cambogiano operato da Pol Pot, cartoline, acqua, ombrelli contro il sole.

Sono appena oltre la grande vasca dove tutte e cinque le torri riescono a riflettersi, insieme al rosa dei fiori di loto e alle palme eleganti. La visione è spettacolare, è un quadro esotico, è un tributo al paesaggio e alla cultura indocinese, ed è già tutto quello che potresti attenderti da Angkor Wat, quello che consideri possa ripagarti il lungo viaggio, dopo solo un giorno, dopo solo uno sguardo.
Testimone del tempo

Si avvicina un signore, 78 anni di pelle rugosa, sguardo acuto, e ormai solo un paio di denti in bocca. Ha vissuto i tempi della colonia francese, il governo fantoccio americano, il periodo del terrore, l’invasione vietnamita, le insicurezze totali del dopo. E’ un fiume in piena, parla solo francese e io capisco ben poco. Ma non è difficile intuire che sta parlandoci della sua storia e il nome di Pol Pot, o quello delle khmer rouge, non possono sfuggirmi. Si aiuta scrivendo con il dito, sulla polvere per terra, delle date: l’indipendenza dalla Francia, la conquista di Phnom Penh. Per il resto è la mia amica a tradurre.
Lui continua, ispirato, emozionato, doloroso.
Ci racconta come in un flusso di coscienza, come sotto l’effetto di una febbre tropicale, che ha finto di non parlare il francese sotto Pol Pot, che si è lasciato credere ignorante durante quella che chiama guerra civile, in cui ha perso la moglie e due figlie e che, ogni giorno, cammina verso Angkor Wat, in cerca di turisti a cui va di chiacchierare.
A me ricorda pietosamente il vecchio marinaio di Coleridge, condannato ad espiare i suoi peccati con chiunque incontrasse, inchiodando l’astante ad ascoltare con lo sguardo magnetico. Il suo peccato non è quello di aver ucciso la natura, l’albatros, ma di essere più semplicemente un povero cambogiano e di aver assistito in pratica inerme al genocidio del suo popolo e di gran parte della sua famiglia.
Finisce chiedendoci due spiccioli. Non esitiamo a darglieli perché non abbiamo dubbi nel credergli. E se anche se ci avesse raccontato una balla la sua storia finta sarebbe quella vera di milioni di cambogiani.

Fuori le rovine ecco le scimmiette dispettose ed ecco i tipici banchettini alimentari di queste parti, dove gli odori degli spiedini di qualunque cosa abbia le zampe arrivano dritti alle narici, e di lì fino al cervello. Siamo, insieme a quasi tutto il resto del gruppo, tra i pochi turisti a scegliere pollo e riso, pesce e rane, direttamente dalla griglia. Da qualche parte ci sono anche spiedini di animaletti non facilmente identificabili, credo topini di fiume. Preferisco rinunciare…
Paghiamo una miseria, due dollari a testa: servono a farci capire il reale costo della vita da queste parti.
Un’alba e un tramonto
Due giorni dopo, prima dell’alba, torneremo ad Angkor Wat soltanto in quattro, il resto del gruppo ha preferito la piscina e il rassicurante ristorante occidentale dell’albergo. Ci sveglieremo alle quattro e mezza, sfidando addirittura un’arietta fresca con un tuk tuk contattato la sera prima, che ci riporterà fino in albergo a fine visita. Ci sarà ancora una volta tanta, troppa gente, mentre le cinque torri sorgeranno dal buio e con mille colori si specchieranno nella vasca che si vede in tutte le foto più belle. La folla coi suoi “ooohhhh” non riuscirà a cancellare un’emozione forte, seguita da una visita ulteriore del sito, quando è ancora vuoto, quando si sente ancora di più.

Nel pomeriggio ci rechiamo ad Angkor Thom, antica città khmer, situata a pochi chilometri di distanza. Vi si accede con un ponte, attraverso un fossato, ai lati del quale sono erette decine di teste di pietra. Al tempio di Bayon secondo me inventarono il Grande Fratello. L‘effige del sovrano, sempre un nome incomprensibile formato da infinite sillabe (del tipo sur-ya-var-man), sparate a mitraglia da Vanna che sembra recitare il nome di una mossa di Kung Fu, e seguite da “number two”, “number seven”, ti guarda da ogni posizione col suo faccione sorridente.
A Bayon ci deve aver fatto un salto Stalin prima di costruire le sette sorelle, o Orwell prima di aver scritto “1984”. Il suddito non può scappare, il potere sa tutto. Ma che differenza con Mosca, la tetra. Qui la pietra è immersa nel verde della giungla, non sparata in un anonimo cielo grigio, ed è un sottile piacere sentirsi osservati. Si sente anche, senza conoscerlo o studiarlo, qualche strano afflato spirituale. Col luogo, col tempio, col faccione che ricorda quello serafico di Buddha.

Lo stesso verde assale i templi seguenti, di cui non ricorderò mai i nomi. Nel primo riusciamo ad entrare prima della chiusura, per vedere due bonzi percorrerne il lunghissimo viale di ingresso, come modelle invidiate, chiazze arancioni tra il verde e la pietra, ed intuire sul muro posteriore la figura di un Buddha sdraiato. Nel secondo scaliamo una piramide dai gradini piccoli e ripidi per camminare poi su terrazze panoramiche e antiche tribune per eventi di massa, dove sono rimasti scolpiti elefanti e sovrani.
Fa caldo, tanto caldo umido e appiccicoso, mentre saliamo su una collina per vedere il tramonto. Sono ostacolato nelle mie foto da migliaia di persone che fanno la stessa cosa, alcuni a dorso di elefante! Dalla cima del tempio si vede soprattutto foschia, un inferno verde, e si sente troppo rumore per un tramonto asiatico. Preferisco allora scendere di corsa, “in direzione ostinata e contraria” canterebbe Fabrizio De Andrè, verso un’oasi di pace silenziosa, accanto al ponte dei faccioni. Vedo il tramonto in compagnia di discreti barcaioli che rispettano la mia voglia di silenzio, lungo il fiume dalle acque tinte di rosso. Si sente solamente il rumore delle poche onde.
Questa è l’Asia che calma l’anima dell’uomo e che appare indissolubilmente legata a un ritorno alle origini, alle cose prime. Mi vengono in mente dei passaggi dei diari di Hermann Hesse in Asia: l’autore a cui ho dedicato la mia tesi di laurea sul suo rapporto con l’acqua sentiva che l’Asia era all’inizio di tutto.

Al ritorno in città mi scelgo apposta per massaggiatrice una anziana donna khmer che sapeva solo dire ok?, pain?, sorry e finished. Non volevo finire in equivoci del tipo: “Bum Bum? 50 dollari plllego”.
Il giro dei piccoli templi e i diversi modi di tradurre Bum!
Secondo giorno di templi, templi minori e più lontani, appartenenti al grande circuito – quindi, teoricamente, meno affollati. Il primo, Banteay Srei, è una piccola magia rossa isolata nel verde. Arriviamo la mattina presto a questo esempio di armonia, dopo un viaggio in pullmino attraverso poveri villaggi e palme di noci di cocco. Una volta si viaggiava su una strada sterrata e Terzani ci arrivò, scortato dai militari, per evitare agguati e mine. Ma erano altri tempi, in cui il reporter riuscì addirittura a vedere l’alba ad Angkor Wat in compagnia solamente dei due figli e di due bonzi…
All’uscita del tempio come in tanti altri posti, suona un’orchestrina i cui componenti rimasti sono mutilati dalle mine anti-uomo. Ne furono disseminate milioni dai B-52 americani, come bombe a scoppio ritardato, e anche dagli stessi khmer rossi negli anni del terrore. E’ stato stimato che nel territorio cambogiano vi siano ancora fra 4 e 7 milioni di mine, e che una persona su 236 abbia subito mutilazioni. Bum! Bum! Ancora oggi le maledette mine mietono vittime. Le ultime 14 tutte insieme, dei poveri contadini: prima di partire leggo su internet che un trattore, per risparmiare tempo, ha tagliato il percorso principale, attraversando campi evidentemente ancora non del tutto bonificati dalle squadre di sminatori. E Bum, addio… !
Anche qui Emergency, negli ospedali di Battambang e Samlot, due tra i più minati distretti del paese, svolge il suo compito silenzioso. Ora che scrivo ripenso all’immensa generosità distribuita nel mondo da colui che solo in Italia abbiamo avuto il coraggio di criticare: Gino Strada.
Nei pressi di un secondo tempio, decorato con elefanti di pietra, mi gusto la dissetante acqua di un cocco dopo aver evitato l’assedio delle bambine che ridendo, dopo aver tentato di vendermi di tutto, mi chiedono se voglio fare “bum bum” con loro. Cristo santo, lo dicono scherzando, anche perché sono davvero delle bimbe, ma quel verso che le offende a vita lo hanno comunque già assimilato chissà se dalle sorelle o cugine o amiche più grandi e allora mi assale un senso di infinita tristezza, anche perché so che, da queste parti, e me ne renderò conto molto presto, c’è chi non esita a dire di sì.
Un laido sì.

Un terzo tempio è situato su una piattaforma circolare in mezzo a un laghetto dalle acque verdissime, probabile habitat di serpenti da film del terrore; il quarto è un ex ospedale khmer che sta sfuggendo all’assalto di alberi che tentano di soffocarlo. La struttura è ripetitiva, sempre quella. Torri ovali simmetriche, bassorilievi e decorazioni rozze ma evocatrici, faccioni sorridenti scolpiti nella pietra, cortili concentrici. Il quinto, visitato dopo un ottimo pranzo a base di noodles, è enorme, diroccato e deserto e lascia che rami di alberi enormi si intreccino al suo interno e che enormi radici si impossessino delle sue mura, piegandole con il loro peso immenso.
Il sesto e il settimo sono templi gemelli, divisi solo dalla strada, e iniziano ad annoiare, così come il penultimo, su cui non salgo, scale ripidissime e diroccate che risentono dell’effetto assuefazione e di aver visto, probabilmente sbagliando, Angkor Wat per primo. Per carità a Baphuon, Preah Ko, Preah Khan sono ancora bellissime le viste di scalinate e terrazze che finiscono nella giungla, di gallerie e bassorilievi e di elefanti in pietra, di torri che svettano in cielo ma è come vedere “Il cacciatore” con Robert De Niro e poi tutti gli altri film sul Vietnam.
L’albero divoratore

Ma l’ultimo tempio, di cui non posso scordare il nome, Ta Prohm, è un vero sogno di legno e pietra. E’ quello che le autorità archeologiche hanno deciso di lasciare in pasto alla giungla, così come lo hanno trovato, dopo secoli di oblìo. Poi è una finta, nel senso che si tratta di giungla curata, che non ti puoi perdere nei suoi meandri e devi seguire un percorso, obbligato e affollato, a qualunque ora del giorno, perché il sole non picchia, perché il tempio è in ombra e perché è finito su troppi depliànts o nel film “Tomb Raider” con Angelina Jolie.
Ovvio: è invaso da giganteschi fichi strangolatori che abbracciano con radici immense le mura e sembrano tentacoli di piovre aliene, filamenti di medusa che in un punto, circondano e nascondono la piccola faccia di un Buddha, che fa cucù nel piccolo spazio rimasto a sua disposizione per guardare la luce del mondo. Le radici dell’albero mi fanno pensare a quelle antichissime dell’Asia.
Legno e pietra a Ta Prohm non sembrano lottare per il predominio ma vivere in armonia, condividersi gli spazi pacificamente. Fino al punto che pensi che questo tempio sia sempre stato così, sia nato così. E che il legno sia arrivato prima della pietra, ad abbracciarla, a proteggerla e ora quasi a mangiarla! La natura riconquista straordinariamente lo spazio che gli abbiamo rubato.
Bambini
Attorno all’albero divoratore campeggia solo la miseria. Basta uscire un attimo dal percorso turistico e i bambini – leggo sulle guide di parecchi orfani – hanno stracci indosso, niente scarpe. Come un altro mondo, tagliato fuori da quello lucente delle macchinette fotografiche e delle telecamere e da quello tetro e bellissimo dei mostri di pietra. Mi ci perderei un po’, non per compatirli o regalargli qualcosa ma per parlarci un po’ con questi bambini scalzi e soli, anche a gesti. Mi rendo conto che coi tempi più o meno obbligati di un viaggio ne siamo esclusi, ma temo che questo di un’infanzia minacciata sia l’aspetto fondamentale della Cambogia, quello che non riusciremo a vedere in così pochi giorni.
Proprio un mondo a parte, così come la vita e i problemi dell’orfanatrofio presso il quale lavora, da mesi, la ragazza italiana che ho conosciuto stamattina all’alba a colazione. Proprio come quello dei villaggi di fango e di fogne a cielo aperto dove ha vissuto per un anno un’amica di mia moglie, finita in Cambogia nell’ambito di un progetto equo-solidale, finita a giocare coi bambini sotto le enormi foglie gocciolanti umidità, finita a curarli, ad educarli, a prepararli se possibile all’impatto con la vita di Phnom Penh o di qualsiasi altra città del mondo che li vedrà arrivare, così incerti, così umili, così esili.
Acquisti
Dopo gli intensi sguardi dei bambini cambogiani di Angkor entriamo in un mercatino dove acquisto finalmente una busta intera di foglie di lime e lo sapevo che qui le avrei trovate! Ora sono veramente il re delle spezie, ne ho circa 100 nei barattolini della mia dispensa e chi entra a Roma a casa mia sente subito l’odore di certi viaggi, che a me piace, agli altri non so! Compro nuovamente con quasi un anno di anticipo, il regalo di Natale per mio cognato, che si è meritato le peggiori stranezze incrociate sulle bancarelle del mondo. Questa volta si tratta di una piccola bottiglia triangolare, riempita di whisky e con una sorpresina: un cobra imbalsamato in posizione eretta. Al gusto dell’orrido non riesco a trovare fine: auguri amico mio!

La sera faccio parte della fronda ribelle che non ne vuol sapere dello spettacolo tipico e delle danze cambogiane, probabilissima trappola per turisti con proposte di bum bum finale. Guido quel che resta del gruppo in un ristorante indiano, dove ci ingolfiamo di curry, chapati e nan, senz’altro meglio del peggior abisso morale che ti possa capitare in un quartiere coi night club Cambogia.
Nb
Per scoprire tutto l’itinerario cambogiano vi invitiamo a leggere i prossimi articoli in uscita su “Il grillo viaggiante”, più precisamente nel topic “Album” – Cambogia, diario dal sogno e dall’orrore / prima e seconda parte, e nel topic “Metropolis” – Gli incubi di Phnom Phen
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