Il pueblo nascosto
L’ho ammirato tante volte nelle tavole di Tex, il fumetto che da 50 anni appoggio sul comodino: quel pueblo nascosto poeticamente e ostinatamente nella fenditura di un canyon, quei cubetti di argilla chiara quasi camuffati nella roccia bianca del grande e piatto tavolato, quelle semplici Kivas, le capanne rotonde coi tetti fatti di tronchi e di fango, costruite nel sottosuolo e usate per le cerimonie più sacre da compiere intorno al focolare domestico, e poi i vecchi pozzi, le torri di vedetta, le scalette di legno per salire sui terrazzi, le pitture rupestri rimaste misteriose e affascinanti a segnare le pareti delle grotte. E poco lontano, a completare il quadro, l’ululato di un coyote. O la silhouette di un guerriero, sporgente e fiero su un alto sperone, a invocare Manitou.

Chi erano gli Anasazi?
L’idea che mi sono fatto delle tribù indiane più antiche e pacifiche riguarda molto da vicino gli Anasazi, quella loro vita umile e raccolta, nascosta dai clamori del mondo, soggetta alla sete della roccia e del deserto, ai pochi soffi di vento che muovono ancora oggi i radi cespugli, alle notti scure degli altopiani sconfinati dove pregavano la luna o qualche dio della natura.
Dalle cavalcate, dai misteri, dalle avventure di Tex, ho imparato che questo popolo aveva tesori e segreti nascosti, aveva sviluppato forme evolute di arte e architettura, sapeva immaginare, sapeva costruire.
E amava guardare il cielo, perché era ossessionato dalla volta celeste, dal bagliore delle stelle, dalle tempeste, come dalle energie della Terra che faticosamente coltivava. Un popolo che parimenti decorava vasi e anfore con motivi geometrici a zig zag, lasciava impronte di mani e figure stilizzate di animali in quelle che erano scene di caccia per decorare l’interno di parecchie cavità intorno al Chaco Canyon, in una vallata lunga una ventina di chilometri, il suo rifugio nel cuore polveroso dell’America.

Il regno nella roccia
La scoperta del loro sito più famoso, Pueblo Bonito – per alcuni studiosi un enorme villaggio-convento destinato a ospitare la potente casta sacerdotale – avvenne per caso e per merito di due solitari cow boys nel 1888. Impegnati a inseguire delle mucche fuggite tra i canyon e le foreste di ginepro scoprirono l’incanto senza tempo di The Cliff Palace, la meraviglia indiana nascosta nella roccia.
E da allora l’enigma degli Anasazi è più che mai vivo.
Da alcuni studi si è risaliti al fatto che in questo sito vivessero un migliaio di indiani, specializzati nel campo dell’astronomia, nei raccolti di zucche, cereali e legumi, nella costruzione perfetta di ceste che non facevano perdere neppure una goccia d’acqua, nella costruzione di 300 chilometri di strade, forse meglio dire di piste, che solcavano altopiani deserti senza condurre per davvero in nessun luogo, indiani probabilmente cannibali (nelle ceneri delle Kiva si sono trovati resti di ossa svuotate fino al midollo o sottoposte a cottura, nelle vecchie pentole di coccio idem…) e inspiegabilmente scomparsi un brutto giorno del 1220 d.C da Pueblo Bonito. Dopo oltre 800 anni di storia.
Il grande mistero
Cosa successe a quel popolo rispettato e avvicinato in più occasioni da Tex? A quelle casupole in cui lui e Kit Carson trovarono a volte un rifugio, a volte un agguato, altre volte ancora la compagnia di un vecchio stregone capace di offrirgli un saggio consiglio, una visione oscura o un calumet della pace?

Forse il territorio già arido di Chaco Canyon subì dei notevoli cambiamenti climatici, causa di gravi carestie e siccità. Forse la terra già povera e secca smise proprio di veder scorrere i torrenti e di far crescere i frutti e di nutrire il bestiame. Pare che le prove del grande caldo si siano rintracciate nell’esame dei tronchi degli alberi della zona, caratterizzati da anelli molto più sottili che quelli di altri alberi ritrovati in periodi più umidi. O forse gli Anasazi, liberi e visionari, danzatori e sciamani, decisero semplicemente di scoprire nuove terre in esodi guidati dal corso delle stelle… Sembra che dal loro Sun Temple i genitori dei Navajos arrivarono 600 km più a sud, seguendo lo stesso meridiano, nell’attuale stato messicano di Chihuahua: sarebbe la prova di un cammino miracoloso!!
O magari furono invasi e distrutti da tribù nemiche e me li vedo lì, nomadi nel grande deserto oppure asserragliati nella roccia spaccata color ocra, a scagliare le ultime frecce dai fortini, a salire in fretta le scale di legno per ripararsi sui torrioni, a lanciare i tomahawk dai pozzi e dagli spalti, a pitturarsi il viso per l‘ultima lotta, per l’ultima volta…

“In quella piccola città di pietra, addormentata, immobile come una scultura, che osserva il canyon più sotto con la calma dell’eternità” (Willa Carther, scrittrice americana appassionata di culture indiane)

L’avventura di Tex
Nel volume storico “Il Segreto degli Anasazi” Aquila della Notte segue una spedizione archeologica sulle tracce del popolo scomparso. Ma la cupidigia dei bianchi nel voler trovare a tutti i costi la camera sacra col suo magico tesoro (chiaro il riferimento a una grande kiva scavata nel terreno e in comunicazione con le energie telluriche del sottosuolo) scatena l’ira di un giovane capo che rifiuta l’idea di vedere le tombe dei propri antenati calpestate e invase e che rischia quindi di compiere un massacro per evitare tale oltraggio. A Tex il compito come sempre di rispettare gli indiani, placare i ribelli, non far scorrere inutilmente il sangue. E di avvicinare con rispetto un’antica cultura.

Chi non è appassionato di fumetti li legge in modo veloce, lo so bene, con alcuni fumetti che giudico più banali capita spesso anche a me. Ma queste tavole perfette in bianco e nero che ritraggono una delle regioni più misteriose del Far West, i mulinelli di polvere, le notti inquiete, gli animali nel deserto, i cervi nei boschi, le aride Mese di Wetherill e di Chapin, i campi coltivati raggiunti dopo aver scalato duramente con funi o su pioli di legno provvisori delle alte pareti lisce, gli indiani con le loro tuniche, i loro monili, i loro cortili, i loro archi e frecce, assomigliano proprio a un’opera d’arte.
Le strisce di Tex ti fanno rivivere i riti e i miti di questo popolo ancestrale, antenato degli Hopi, destinato a popolare per primo e per ultimo quel punto di mappa geografica dove si incrociano il Colorado, lo Utah, l’Arizona e il New Mexico. E tra pueblos addormentati, reperti archeologici e sentimenti rivolti al cielo la fantasia galoppa con loro. O in quello che è rimasto di suggestivo e di intatto nel Parco Nazionale della Mesa Verde che comincia poco dopo Durango, che soprattutto una volta era la tipica cittadina da western, e finisce sotto i contrafforti del Mont Taylor, un centinaio di km prima di Albuquerque. A ovest le mitiche dita di pietra della Monument Valley non sono affatto lontane e quindi dal fumetto al viaggio l’emozione e la bellezza crescono ancora.
Quello che penso

Esiste un immaginario più libero e selvaggio della Mesa Verde degli Anasazi? Lontana dalle città, dalle modernità degli Usa? Dove una volta neanche si avvicinavano le diligenze o si costruivano le Ghost Town basate su miniere e saloon?
Esiste nel nuovo continente un villaggio come Pueblo Bonito che sembra fermo al neolitico o simile ad alcune zone della Cappadocia? Dove con un foro nel terreno si sperava di raggiungere le forze della Terra e di entrare in comunicazione con gli spiriti degli antenati?
Esistono altrove delle cliff dwellings, dei villaggi sorti nei crepacci, come questi??
Esiste un’idea dell’America più profonda, più ignota, più autentica di questa?
Esistono in tutto il West tribù che sono rimaste così affascinate dalle eclissi, dalle tempeste, dalle comete, dai solstizi e dagli equinozi? Capaci forse di anticipare gli stessi Maya coi loro studi? Di aprire vie verso sacri pinnacoli (famoso quello assai ardito di Ship Rock, che domina sul deserto, “la roccia con le ali” abitata da mostri alati secondo i Navajos)? Di raggiungere coi loro sentieri laghetti, montagne, altopiani e sorgenti anche solo per celebrare un rito o nascondere un tesoro? Di produrre tesori artigianali migliori dei loro vasi, delle loro brocche, delle loro collane (ancora ben conservati nel Museo all’inizio della Ruins Road Drive)?
Esistono in tutto il West delle rovine di pietra più mute di queste? Un mondo perduto a tal punto? Un suolo più sacro, più spirituale? Una terra più rossa?
Una roccia più roccia, un’acqua più acqua, un cielo più cielo di questo?
Tex riportami là!
Non importa se non ti incontrerò, troverò un motel, un emporio, un silos abbandonato, dormirò sul retro di un camioncino, con una coperta navajo addosso. Procedendo verso il giallo altopiano.
P.S
E non vi commuove almeno un po’ l’idea che almeno 60.000 manufatti degli Anasazi (“gli antenati diversi da noi” secondo la traduzione del termine Navajo) siano stati trafugati dalle suggestive rovine del Cliff Palace rannicchiato sotto la rupe o lungo il Chaco Canyon e ospitati nei musei di New York? E che per uno scherzo del destino o un disegno divino prima del comparire dei grattacieli fossero proprio nella Mesa Verde gli edifici più alti d’America?

Non ci sono Commenti