L’orso europeo

Scrivere di Mosca adesso, in questo tempo complicato. Ora che l’Impero ha un colpo di coda e inquieta di nuovo l’Europa e il mondo. Ora che il suo gas sembra essere la cosa più importante, più dei morti giornalieri in Ucraina, più dell’orrore di tante cronache e della paura dei suoi stessi soldati.
Provarci con la mente sgombra, rilassata, ricordando solo il suo spirito, la sua gente, la sua folgorante piazza centrale, le anse del fiume, il suo cibo particolare, la sua metro spettacolare, le cupole rosse e di mille colori che sembrano uscite da un libro di favole orientali o nordiche, fate voi. Ripensare a quando ero nella tana dell’orso, un ottobre già gelato, tanto per sentire gli echi della Rivoluzione.
Mosca e la Russia di cui nei viaggi e per lavoro ho visto più che altro le emanazioni: politiche, come il comunismo a ondate intermittenti di alcuni paesi est europei; paesaggistiche, come la Carelia in Finlandia; sociali ed economiche, ciò che ne resta in Bielorussia (tantissimo, forse ne resta più che nella Russia stessa), Lituania ed Estonia (poco, nelle Repubbliche baltiche il ruggito dell’orso ormai è praticamente assente). Ma anche nelle Budapest e Praga, nei cambiamenti che hanno subito in tutti questi anni di corsa, più o meno sfrenata, verso il capitalismo.
Ecco quindi che ripenso a quando mi sono ritrovato per la prima volta qui, nella tana dell’orso, dove tutto questo è nato. Ora che spero di ricordare, un po’ di capire, di indagare nel passato, di cercarne i resti, intuirne l’evoluzione. E rivivo quel film.
Betulle, palazzoni, neve
All’inizio sono betulle, milioni di betulle, c’è la taiga fitta e siberiana alle porte di Mosca. Poi alzi la testa e, sopra di loro, vedi apparire alberi di altro tipo, di cemento, molto più alti, quindici, venti, venticinque, trenta piani di finestre fitte e alienanti. Migliaia di edifici bruttissimi ti chiudono l’orizzonte, sono loro il vero benvenuto a Mosca, ciò che resta del grandioso movimento edilizio che è passato alla storia dell’incubo con il nome di costruttivismo.
Sopra di loro un cielo grigio e triste, piatto, freddo. Un po’ ovunque la prima neve cristallizza i boschi, le periferie, talvolta i pensieri.
Matrioska, metafora dell’anima russa?

Il piazzale della stazione è una consueta babele con visi però diversi. Non si vedono emigrati africani o asiatici in giro. Chi vende paccottiglie è russo, magari dell’Asia Centrale: ognuno in piedi, con la sua merce in mano, o seduto su minuscoli banchetti, o accosciato con un lenzuolo come tavolo per i suoi abiti usati, o per le matrioske di pessima qualità. Eccole subito le bamboline di legno colorate dal sorriso materno e col faccione contadino che si incastrano l’una dentro l’altra, quasi a rappresentare un’indagine dell’anima russa, fatta a strati, di misteri, di profondità, di diversità.
Quell’anima che quando pensi a questa immensa città, a questo paese, non sai mai se può avere di più il volto di un profeta ascetico come Tolstoj, di un militare dalla scorza dura e pura, di una modella che ti fa svenire se la incroci in un locale o a sorseggiare una vodka in un bar.

Mi venne così il pensiero: le matrioske messe in fila, uguali alle sorprese, ai mille volti russi, i più ispirati, i più seducenti, i più illuminati, i più torbidi. Una delle tante possibilità, delle tante facce, delle tante mosse possibili, come in una partita di scacchi in fondo (altra gloria locale).
Ci sono matrioske di ogni tipo, colore e dimensione. Purtroppo anche con ogni faccia possibile e immaginabile, anche con quelle che a migliaia di chilometri dall’Italietta vorresti dimenticare. C’è quella classica, rossa, gialla e verde, quella con una bambolina un po’ più curata, ci puoi trovare Elvis, Michael Jackson, Lenin, Obama, Sarkozy, la Merkel e, purtroppo, il Berlusca, col suo sorriso magico (sarà uscito da una dacia con Putin in bella compagnia…?) che chissà chi si è appena ingoiato nella matrioska più piccola! Preferisco non aprirla.
La Metro delle meraviglie

Ma non appena lasciamo i bagagli in un deposito nelle viscere della stazione e scendiamo nei sotterranei della metropolitana, il disordine edilizio, il grigiore e la tristezza eppur caotica, diventano un sogno incredibile. La metropolitana di Mosca è un’opera d’arte, patrimonio dell’Unesco, ma uno di quelli con accanto cinque stelle. Iniziata nel 1935, oggi conta 14 linee per 203 fermate, la prima al mondo per numero di passeggeri trasportati ogni giorno, oltre 9 milioni!! Una enorme linea circolare e le altre che si diramano a raggiera verso l’immensa e anonima periferia, tagliando il centro a fette piccolissime, con metro che passano ogni minuto.
E’ un’opera del regime staliniano, e che opera. Abbellita da marmi, stucchi, ori, vetrate stile liberty. Ogni stazione è tematica. Alcune sono dedicate ai partigiani e hanno enormi statue in bronzo di combattenti, altre agli scienziati, ai lavoratori, agli operai, ai contadini; una ha un enorme murale con la tavola chimica degli elementi, in un’altra, quasi banalmente, c’è un immenso busto di Lenin e ovunque pendono, nei lunghissimi androni, dai soffitti a volta, lampadari enormi ed elegantissimi, che potrebbero stare tranquillamento appesi nei saloni di ricevimento degli ambasciatori.
Contrasti frastornanti
Fuori, per strada, baracchette che vendono souvenir per turisti. Colbacchi sintetici, o di pregiato pelo di volpe o di castoro, tutti decorati, immancabilmente con la falce e martello; ci sono alcune magliette atroci, che ritraggono Lenin che mostra il dito medio, altre con disegni della vecchia propaganda sovietica: niet bere, dice un uomo vestito elegante facendo il verso con il dito (non mi pare abbia funzionato molto); la peggiore, la più triste: una contadina, con foulard in testa, sguardo serio, severo, occhi di ghiaccio, indice davanti alle labbra dice: “Stai attento. Di questi tempi ascoltano anche i muri. Chiacchierare o fare un pettegolezzo può significare tradire la patria. Niet parlare, non parlare”.
Ci sono anche, vicini e contrastanti, il raffinato Teatro Bolscioj nobilitato dai più eleganti ballerini, e il temibile edificio del KGB, abitato in tutte la storia moderna da infide spie. I viali alberati e il traffico incredibile, la ricchezza di musei e fontane, la cultura delle università e delle pinacoteche e la tristezza e la vita magra dei sobborghi. Mosca è anche in tutti questi contrasti, ristoranti di lusso dove si pasteggia a caviale, tartine, salmone, selvaggina e vodka e file di gente davanti ai fast food americani (oggi saranno ancora aperti??). Una metropoli davvero frastornante, eclatante, eccitante.

Introduzione alla Piazza Rossa
Finisci la fila dei negozietti che, per inciso, si trovano nell’immensa Piazza della Rivoluzione, giri l’angolo e pensi di avere le traveggole. In un pastrano grigio e slabbrato che arriva fino alle caviglie, orgoglioso dei suoi due baffoni altrettanto grigi, c’è Stalin che sorride. No, sorride. Quindi non può essere Stalin. E’ accanto a uno che somiglia moltissimo a Trotski, allora ti levi ogni dubbio. Ti volti e dall’altra parte c’è Lenin, con il vestito tipico, tipo Eskimo, cappelletto da marinaio bretone, barba e pizzo. Si tratta ovviamente di gente che è lì per farsi fare foto con i turisti, come i centurioni al Colosseo. Fanno comunque una certa impressione. Li oltrepassi e ti accorgi di avere accanto un edificio rosso enorme, tutto in mattoni, con due archi che portano da qualche parte. Ti inchini, e sotto uno di quelli vedi, distante settecento metri, quanto è lunga la Piazza Rossa, con la stupenda cattedrale di San Basilio.

Eccola la chiesa delle fiabe, tutta rossa, ad ambienti sovrapposti, torri a forma di pigna, altre a forma di cipolla dai colori più accesi. L’obbrobrio architettonico costruttivista che era alle sue spalle è stato fortunatamente abbattuto ed ora, più di tutto il resto, riesce a dare alla piazza un’anima, il colore, la vita. Perché per il resto è immensa, bellissima, ma freddina.
Il palazzo rosso in mattoni che la chiude da uno dei lati corti è il museo storico. Alla sua destra, sul lato lungo, c’è il Cremlino, con le mura, rosse anch’esse, le torri, le chiese dalle cipolle dorate, i palazzi del potere. Sotto, raggiungibile dalla piazza, il mausoleo di Lenin, una serie di rettangoli sovrapposti neri e rosso scuro, con il suo nome inciso sopra. Freddo, serio, razionale, geometrico. Alla sinistra del museo un’altra cattedrale ortodossa, demolita da Stalin per farci passare più carri armati per le sfilate e ricostruita recentemente da Putin. Di fronte al mausoleo di Lenin il Gum, un immenso Mall, dove a seconds delle epoche storiche la gente semplice di Mosca affollava i piani in cerca di cibo e merci o sciupava i rubli a più non posso. Scriverò di tutto questo più in là, intanto mi godo la veduta di insieme, sorseggiando una birra.
Chiese e piscine

Ci rinfiliamo nei tunnel della metropolitana, qualche altro tunnel, qualche altra stazione spettacolare, e siamo di fronte alla Chiesa del Cristo Salvatore, che merita qualche riga. Quel bel tipo di Stalin modificò radicalmente la skyline di Mosca costruendo quelle che vengono colloquialmente chiamate le Sette Sorelle. Si tratta di edifici giganteschi, disposti più o meno a cerchio, costruiti in uno stile che viene definito gotico-staliniano, che di bello hanno ben poco e che ospitano ministeri, università, ecc… Colpiscono le dimensioni colossali, (trecento metri di altezza forse?) l’aspetto imponente, lugubre, che fa pensare ai peggiori film di fantascienza. Si dice che Stalin avesse sparso la voce che uno degli scopi per cui procedette a questa opera monumentale, fosse che ogni cittadino moscovita, in qualunque parte della città si trovasse, ne potesse vedere una, almeno la cima. E potesse essere visto a sua volta. Un grande fratello degli Anni Trenta, anche se l’uomo di ferro riuscì a vederne conclusa solo una, poco prima della morte.
Salto al 1812. Che c’entra? Ci arrivo, grazie a un libro di Kapuscinski, profondo conoscitore dell’Impero dell’Orso. Napoleone, sconfitto dal Generale Inverno, dopo aver conquistato Mosca, fugge dalla città e va incontro al massacro. “Ringraziamo Dio – urla Alessandro I – Il mio ringraziamento verso il Figlio di Dio è tanto grande quanto il santuario che farò erigere a Cristo Salvatore”. Ci vorranno 71 anni e quattro zar per completarla in tutta la sua grandezza. Tutto l’oro che c’era dentro, i candelabri, trenta piani di gloria che recavano incise i nomi delle battaglie dove l’esercito zarista trionfò, trenta piani di marmi, trenta piani di icone. E nel 1931 arrivò Stalin: “buttiamola giù”. Immaginabile sprecare un patrimonio del genere? Neanche lontanamente. Ma si era in guerra contro la religione, si propugnava l’ateismo, lo zar era il nemico passato. Settimane per svuotarla di tutti gli ori e marmi, giorni per tirarla giù pezzo per pezzo, a colpi di dinamite, candelotto per candelotto.
La San Pietro dei moscoviti, dei russi, demolita, senza che il popolo dicesse nulla. Era un po’ pericoloso dissentire a quei tempi, lo abbiamo visto. E per far cosa tutto questo? Per costruire il Palazzo dei Soviet. Stile gotico-staliniano, ovviamente. Dimensioni? Sei volte quelle dell’Empire State Building – perché il nemico era ormai quello a stelle e strisce, e bisognava superarlo, nell’industrializzazione, negli armamenti, nei simboli. Altezza? 415 metri, comprensivi di una statua di Lenin colossale posta in cima, il cui solo dito indice era lungo sei metri. E perché lì? Perché ovunque, in Unione Sovietica, le sedi del Partito si trovano sopra le vecchie cattedrali. E Dio era lo Zar, e lo Zar il nemico. Ora lì, nello stesso punto, si era costretti ad adorare il nuovo Dio.
Ma niente andò in porto. Arrivarono preoccupazioni maggiori, il nemico interno da domare, popolazioni intere da deportare, l’excalation verso la seconda guerra mondiale, quella che i russi chiamano, ancora oggi, la seconda guerra patriottica. La prima fu quella contro Napoleone. Della prima guerra mondiale si è perso traccia. Le fondamenta del Palazzo non furono mai gettate, la buca si riempì d’acqua, un altro genio pensò di farne una piscina enorme, all’aperto. Gelo fuori dall’acqua, acque riscaldate dentro, vapori di nebbia perenni, una sorta di gigantesca sauna cittadina.
Ultima puntata: esco dalla metro, mi volto ed è lì. Putin l’ha fatta ricostruire a simbolo della fede ortodossa, pietra su pietra. Non so quanto di quello che ci fosse dentro in origine vi sia stato riportato. So solo che è lì, in riva alla Moscova, bianca, enorme, ha un ponte d’accesso che sembra un’autostrada, giganteschi bassorilievi in bronzo sulle pareti, cupola dorata e all’interno tutti si segnano tre volte, in continuazione, si inchinano, sono in fila anche lì, abitudine difficile a perdersi qui in Russia. Le donne non sono truccate e, contrariamente al cattolicesimo, la messa è cantata, i capelli coperti da un velo. Ci entrerò solo l’ultimo giorno, poco prima di partire, richiamato da un suono di campane a morto abbastanza inquietante.
(continua…)
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