Il senso della Giordania
La Giordania percorsa finora ha un senso perché nel cuore del deserto più rosso ti attende la sua favola di pietra, Petra. Dopo le colline caotiche di Amman, le città romane con teatri e colonne, i castelli assaltati dai crociati, i languori del Mar Morto e di Aqaba, le dune rosse del Wadi Rum ecco uno dei miei sogni da bambino, ecco un sito archeologico degno delle avventure di Indiana Jones, ecco il motivo del viaggio: Petra, La Bella, costruita fin dal III secolo a.C e giunta alla sua massima fioritura tra il I secolo a.C e il II secolo d.C.

Piccola Petra
Lasciamo il silenzio del Wadi Rum per arrivare al caos di Wadi Mosi, la porta turistica di Petra, diversi chilometri più a nord. Dopo un pranzo a base di spiedini che iniziano ad annoiarmi, visitiamo la Piccola Petra. Mi godo il sito in silenzio, chiedendomi il perché di tutte quelle scalette che si arrampicano sulla roccia, ai due lati del canyon. Ammiro le grotte, dove la gente un tempo viveva, e le tombe rubate alla roccia. Salgo una ripida scalinata che consente di arrivare in cima al canyon per godere un panorama selvaggio, lassù la breve compagnia di due beduine. Una giovane, dagli incredibili occhi azzurri e dall’ottimo inglese, l’altra anziana che si alza dal suo giaciglio offrendomi un tè fatto su un fuoco acceso lì per lì. Le donne vivevano qui, come altre famiglie proprio vicino a Petra. In cambio dello sfratto, hanno ricevuto abitazioni più dignitose e il permesso di fare affari all’interno dei siti archeologici, vendendo fruste e cappellacci manco fossero Indiana Jones.
Ma l’eco di Indy ci aspetta a Petra, la grandiosa città reale, con le sue monumentali tombe rupestri scolpite nella pietra rosa del deserto, vera gloria di un popolo nomade, quello dei Nabatei, abitante per oltre mille anni della arida Giordania del sud e divenuto ricco e potente grazie al commercio dell’incenso e delle spezie, ai traffici sulle vie carovaniere e alla grande abilità messa in mostra nelle tecniche di irrigazione e nella produzione della ceramica.
La magia del Siq
Petra è davvero bellissima, da togliere il fiato. La visiti, se vuoi, in asino o sul cammello o su rumorosissimi carretti trainati da muli. E, a volte, ce ne sarebbe bisogno, perché i chilometri da fare sono tanti, quanto il caldo. Ma ogni passo spinge il successivo, come verso una promessa, come verso un miraggio, come verso un’oasi tanta è la bellezza finale.

Si entra da un discesone sterrato che cede il passo al canyon reso celebre nei tempi moderni dal film con Harrison Ford. Niente di inventato. Il canyon, il siq, è lungo quasi due chilometri e ha pareti altissime, fino a 70 metri, che spesso non lasciano passare la luce e trascinano la tua voce lontano.
Il vento ha giocato magnifici scherzi a queste rocce rosse, tormentandole, perforandole, scoprendone splendidi arcobaleni grigi, rosa, ocra, gialli e rossi. Si potrebbe passare una giornata a fotografare le pareti del siq coi cambi di luce e a formare uno stupendo album artistico e geologico.
Con una delle mie solite prudenti tecniche di estraniamento riesco a visitare il siq in solitaria, in una specie di bolla spazio-temporale che mi scavo nella distanza tra due grossi gruppi. Impedendo ad altri di raggiungermi e forzandomi, dallo stupore, di non sentire il caos che mi circonda. Urla di turisti, di bambini, rumorosi carretti, guide invadenti. Cerco invece di immaginarmi la forza del vento, dell’acqua e dell’uomo che hanno creato la Tomba degli Obelischi e il Triclinio barocco (una grande sala da banchetti) lungo la parete rocciosa ma soprattutto quella meraviglia che sto per vedere.
La tomba nella montagna
Quando il tesoro, ovvero la Tomba del Faraone che ti accoglie a Petra alla fine della spaccatura nella montagna, compare tra le due pareti oscure del siq, come una visione, sembra una dama bianca e splendente e l’emozione è grandissima.

Vi arriviamo nell’intervallo mattutino di due ore durante il quale la luce riesce ad illuminarlo e mostra tutto il suo candore. In altre ore della giornata assume tonalità più gialline, marroni, rosa, a seconda della luce e dei capricci delle nuvole. Trova spazio in una piccola piazza, completamente circondata da pareti rocciose, e la facciata del tesoro per più di 40 metri di altezza è strappata alla pietra con grazia, violenza e maestria. Sembra ancora parte della montagna cui appartiene. Un suo ingresso. O un ingresso a qualcosa, probabilmente al sepolcro del Re nabateo Areta III, vissuto nel I secolo a.C. Talmente bello da suggerire a esploratori, archeologi o tombaroli di nascondere davvero un tesoro dentro la grande urna che sormonta le colonne del tempio e da essere addirittura mitragliato per questo da gruppi di banditi beduini, per frustrazione o cupidigia. Per distruggere l’urna e portarselo via.
Al suo cospetto negozietti, dromedari, muli, sciami di turisti, più o meno invadenti e rumorosi. Per pericolo di crolli la tomba è chiusa, l’accesso è interdetto. Quindi la fantasia può volare in alto, immaginandone l’interno, in genere insignificante. Meglio così, meglio pensare che dentro vi alloggi il respiro sapiente e solenne di dio, una ricca mummia nabatea e magari un crociato millenario a protezione del Sacro Graal.

In alto come le capre
Dopo aver percorso parte della main street di Petra, circondata da tombe e abitazioni, ci inerpichiamo, sul lato destro, per ripidi scalini che ci offrono panorami bellissimi di tombe, case rupestri e rocce dagli incredibili colori e, man mano che si sale e che la fatica aumenta, il panorama diventa più sconvolgente, la gente diminuisce e quel che riesci a sentire aumenta. Già dopo il Grande Teatro che al culmine della civiltà nabatea poteva ospitare 10.000 spettatori, arriva il silenzio che cercavo, quello creato da viaggiatori, numerosi ma complici, che vogliono che l’incanto continui, che riescono a lasciare solamente le impronte. Ci arrampichiamo come capre silenziose per vedere obelischi, colonnati, piattaforme cerimoniali ornate da obelischi, altari sacrificali, resti di palazzi reali, resti di templi una volta splendidi come quello dei Leoni Alati, resti di mercati, tombe monumentali, bassorilievi di animali fantastici, case scavate nella roccia, montagne brulle in cui ogni grotta cela una storia.
Si scende, visitiamo altri incanti scavati nella roccia, ci fermiamo all’ombra per un pasto frugale. I colori virano al rosso quando visitiamo le tombe dei re. La scena si ripete. Facciate rubate all’arenaria. Il respiro sacro e immenso del luogo. Tuttavia il paesaggio non stanca, semmai continua a stupire.

Lungo il cardo romano e durante la salita di 800 gradini all’ultima tappa odierna, il Monastero, il sepolcro dell’ultimo re nabateo, così chiamato per le croci incise in cima alla roccia da monaci nel V secolo, ecco comparire due beduine che fumano mentre tentano di venderti tè, bibite e oggetti di artigianato. Quanto è grande la differenza tra le donne beduine e quelle arabe: le prime fanno quel che vogliono, alle seconde è proibito tutto e, il più delle volte, sono invisibili. Il complesso appare all’improvviso sulla tua destra, sessanta metri di altezza scavati nella roccia, ed è un qualcosa di inatteso e colossale che vale ogni singolo ricordo narrato, ogni singola lacrima di sudore versata lungo la maledetta scalinata. Appena un po’ più su, un ultimo sforzo regala un altro panorama da urlo. Qui in genere se si è in gruppo scatta spontaneo l’abbraccio.
Il ritorno è lungo e faticoso. Sfuggiamo alle offerte di carretti, asini, dromedari e cavalli. I solerti tassisti di Petra non sono in concorrenza tra loro, ognuno ha in gestione il trasporto dei turisti stanchi in un tratto specifico del sito. Gli asini per le salite, i cammelli per le strade piane, il carretto lungo il siq, i cavalli alla fine. Il costo totale per non camminare un’ora e mezza corrisponde a una cifra astronomica. Ceniamo seduti a gambe incrociate, in uno spazio che è la riproposizione di una tenda beduina, isolati dagli altri commensali. Ci portano spiedoni di carne e birre ghiacciate e poi spuntano delle girandoline come di quelle che usano i bambini a Capodanno. Piccola sorpresa per il mio compleanno, mi fa felice.
Le voci della pietra
La fine del viaggio si avvicina. Tuttavia, Petra regala ancora grandi emozioni. Il motivo principale è che, il giorno seguente, con una sveglia feroce, ci troviamo alle 5.50 all’entrata del sito. E siamo solo noi. Con uno scatto da centometrista infilo il siq, buio, tenebroso, che ancora nasconde i colori. Arrivo al tesoro e stavolta è veramente il “mio” tesoro. Non c’è nessuno.

Due beduini dormono sui tavoli all’esterno dei loro negozietti di souvenir. Un cane e un gatto si affrontano in duello. Il resto è silenzio e atmosfera. Nessun finto soldato, carretto, mulo, dromedario, turista distratto o viaggiatore incantato. Nessuno. Solo io e l’incanto di quel che ho davanti. La lama di luce che illumina il tesoro tra le nove e le undici è ancora lontana ma il rosa della pietra arenaria ti entra gentilmente e definitivamente negli occhi. Scendo per la strada principale, vuota anch’essa e mi inizio ad arrampicare ovunque. Di fronte al teatro di roccia rossa, si aprono nella roccia tantissime abitazioni.

Alcune sono caratterizzate da archi corrosi dal vento, altre da pareti e soffitti con pennellate di rosa, giallo, grigio, incredibili tonalità di azzurro. Sembra quasi che Van Gogh sia venuto a fare uno stage a Petra prima di dipingere le sue magie. In alcuni casi ti sembra di essere osservato da occhi enormi. Salgo fin dove arrivano le scale scavate nella roccia e, quando sembra che il cammino sia finito, ne compare un’altra che ti spinge ancora più in alto, ancora più lontano, fino a sperare di ricollegarmi al sentiero maggiore che dovrei percorrere. Molte di queste scale portano a vecchie cisterne per l’acqua e sulle casette più in alto, ovviamente in rovina, si intuiscono resti di canalizzazioni. Perché Petra – oggi non ce la fai ad immaginarla così – era verde e ricca d’acqua. A questo punto immagini le voci di chi c’era una volta, dei bambini mezzi nudi a giocare, dei fedeli a pregare, dei beduini a fare mercato, focolare, comunità. Del viaggiatore svizzero Johann Ludwig Burckhardt che nel 1812 riscoprì le rovine di Petra dopo secoli di abbandono. Dei successivi archeologi coi loro “oooohhhh” di meraviglia. Della troupe di Indiana Jones con le sue grida avventurose.

Costretto dai tempi del viaggio a tornare a valle, raggiungo gli altri su un faticoso scalone che ci consente un altro sogno: osservare il tesoro dall’alto. Vinco il mio terrore del vuoto e, almeno un po’, mi avvicino al precipizio per ammirare la facciata perfetta, lentamente raggiunta dalla lama di luce. Per il ritorno stavolta cedo al fascino del cavallo e alla corsa imperfetta del cammello. In albergo mi “premio” con un bagno turco. E’ Abdul, un giovane siriano, a massacrarmi nell’hammam la schiena, i polpacci, i polpastrelli, le dita e facendomi, a più riprese, scrocchiare il collo e individuando qualunque punto del corpo possa ospitare un nodo o una tensione nervosa.


La vista di Petra a liberare l’immaginazione.
Il bagno turco a liberare il corpo.
Ciao Giordania.

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