Il paesaggio da Tashkent a Samarcanda

Sveglia disumana. Dopo aver passato tre controlli di sicurezza, entro in stazione a Tashkent e parto in treno per una delle mie mete dei sogni: Samarcanda.
E’ da una settimana che il brano di Roberto Vecchioni mi risuona in testa come una galoppata cosacca. Parla del destino che non si può fuggire o è un invito a vivere la vita e quel che ti offre, senza farsi prendere da troppe preoccupazioni?
Il soldato avrebbe potuto continuare a ballare nonostante lo sguardo della nera signora, no?
Lascio la periferia di Tashkent, case sempre più basse che digradano fino a scomparire in immensità coltivate a cotone, ricchezza e dannazione dell’agricoltura uzbeca. Pochi trattori, molte schiene curve, e canali che si diramano dal Syr Darja che, quando lo oltrepasso, è poco più di un torrente in piena.
Il cotone ha radici profonde che vogliono tanta acqua, è una pianta carogna che consuma il territorio. In assenza di rotazione delle culture il risultato inevitabile è la desertificazione. Se ci aggiungiamo l’ambiente semidesertico, man mano che si procede verso ovest, l’uso di fertilizzanti chimici, il Mare d’Aral e le sue polveri assassine, il vento incessante, quel che si respira è sale, sale e veleno.
Tuttavia, tra Tashkent e Samarcanda questi effetti non sono ancora così evidenti, anche se il paesaggio lentamente diventa, da agricolo, stepposo, fino a che si passa attraverso una gola e si sbuca in una valle chiusa, a sud, dalla catena del Pamir Altai, da un muro di neve, dal Tagikistan insomma, le montagne da dove il ribelle Rambo islamista Namangani sferrava gli attacchi per poi sparire come un fantasma.
Perché Samarcanda è un sogno?
Forse è il suono della parola, la sua musica? Non aver saputo per anni dove si trovava se non in qualche angolo sperduto della grande steppa dell’Unione Sovietica ma sapere che esisteva?
Sapere che ci passarono sovrani, guerrieri, avventurieri, viaggiatori come Alessandro il Grande, Marco Polo, Gengis Khan, Tamerlano, Rasputin e Corto Maltese e che un giorno avrei voluto arrivarvi, nel mio piccolo, anch’io?
Dal 1991, da quando avevo saputo che era di nuovo raggiungibile e si trovava in uno strano stato chiamato Uzbekistan, non ho voluto vedere le sue foto. Ho letto tanto, tantissimo, ma mai sono andato alla ricerca di immagini, ho sempre voluto che restassero chiuse nelle mie fantasie per esserne sorpreso quando fosse mai arrivato il momento.
La parte russa
Alla stazione mi aspetta Denis, un ragazzotto dai capelli biondo-rossastri, occhi azzurri, carnagione pallida divorata dal sole. “Avrai capito subito che sono russo” esordisce in un ottimo inglese, “ma non vi sono mai stato. Ho vissuto tutta la vita qui, sono stato solo due volte in Tagikistan”. Ingegnere chimico, ha scelto la via del turismo che nell’alta stagione lo fa guadagnare bene. Mi mostra la sua agendina fitta di nomi, date e appuntamenti.
Gli accordi presi con Denis prevedono la visita guidata dei siti principali della città, spostandoci in macchina da uno all’altro. Ma prima di iniziare mi mostra un po’ della città russa. Sì, perché Samarcanda è come una scoperta archeologica, ha i suoi strati urbanistici. C’è la parte antica, quella che in pratica non esiste più, che fu distrutta ancor prima che arrivasse Gengis Khan, che si trova leggermente di fuori dal moderno centro abitato. Poco distante si trovano i templi e le tombe, ovvero le rovine (pesantemente restaurate) visitabili oggi. La città vecchia è un ammasso informe di vicoli che fanno pensare a una medina araba, a come una volta doveva essere.
Intorno, sviluppatasi a raggiera, come a Tashkent, la città russa, che tutto avvolge e circonda, come a sorvegliare i movimenti della Samarcanda che fu e a far da sentinella ai viandanti in ingresso.

Questa parte è costituita da vialoni abbastanza anonimi, marciapiedi dissestati, alberati per dare un po’ di sollievo da un sole che picchia forte nei mesi caldi, e punteggiati, di quando in quando, da palazzi imponenti, prepotenti forme neoclassiche per i palazzi del potere, buche ovunque, un paio di chiese ortodosse, una cattolica, tante case basse, un traffico pesante e altamente indisciplinato.
Della città russa Denis mi mostra qualche posto, che probabilmente cita ai torpedoni di turisti, che mi lascia completamente indifferente, qualcosa del tipo “università”, “istituto culturale”, “banca nazionale”. Poi si ferma presso la madre piangente, qualcosa che ho visto già più volte. Mentre a Minsk era un monumento corale e collettivo, commovente e doloroso, dedicato ai caduti in Afghanistan, e non troppo gradito ai Russi, a Tashkent e a Samarcanda è una madre che piange il proprio figlio caduto nella seconda guerra mondiale, in Russia e nelle sue vecchie province sovietiche chiamata grande guerra patriottica.
Timur, lo Zoppo

Iniziamo subito dalle cose più serie, come l’omaggio al Mausoleo di Timur lo Zoppo.
La grande cupola che lo riveste è di un colore turchese incredibile, visto in nessun altro posto al mondo. Ora, intendiamoci, osservando foto e dipinti antichi, è chiaro che tutto sia stato pesantemente restaurato, a volte fin troppo. Un’operazione effettuata soprattutto dopo l’indipendenza raggiunta dal paese nel 1991 che potremmo paragonare a far tornare in vita qualcosa come le Terme di Caracalla.
Ma se un tempo erano così, se i colori erano quelli, basta chiudere gli occhi un po’, isolarsi dal rumore, sostituire il cemento con la sabbia, le macchine con cammelli, ed iniziare a sognare.
Tamerlano morì anzianotto per la sua epoca, a 69 anni, e passò 45 dei suoi anni conducendo battaglie e campagne, nonostante fosse stato ferito a un braccio e reso zoppo in guerra. Conquistò una grande porzione del mondo conosciuto allora, arrivando in India, in Turchia, punendo i Russi, controllando il traffico e i commerci delle preziose vie carovaniere che, al tempo, garantivano ricchezza.
Conquistava uccidendo lo Zoppo, e non governava. Lasciava solo rovine dietro di sé.
Mentre preparava una campagna invernale contro la Cina, giustificata dal fatto che, allora, il Syr Darja era così grande che si poteva guadare solamente se ghiacciato, morì, di polmonite, nell’attuale Kazakhstan. Sembra che, al momento del trapasso morte abbia sospirato “sono gli dei” e che abbia ordinato ai suoi arcieri di oscurare con le frecce il cielo. Fu seppellito in un mausoleo che non era stato costruito per lui, accanto a parenti, al nipote prediletto Ulug Bek, che tanto darà a Samarcanda, al suo tutore e a parenti vari. Tutti in una cripta, cui il normale pubblico non può accedere, qualcosa di comune in Asia Centrale, probabilmente per proteggere le tombe da profanatori vari.

Le tombe sono nella stanza superiore, la principale del mausoleo, disposte nella stessa maniera. Quella di Tamerlano ricoperta dal pezzo di giada verde scuro più grande del mondo che, ovviamente, ha una storia da raccontare. Fu trafugato da un signore della guerra persiano, spezzato in due durante il trasporto e le sventure si accanirono così tanto sul ladro che dovette riportarla indietro.
Tamerlano pensava davvero al fatto che la sua tomba potesse essere in futuro profanata. Si narra che gli archeologi sovietici che ebbero da Stalin il compito di aprire la sua tomba e quella di Ulug Belek per verificare che fossero, rispettivamente, uno zoppo e l’altro morto per decapitazione, trovarono un’iscrizione, una specie di maledizione faraonica che recitava qualcosa del tipo “chi profanerà questa tomba dovrà affrontare nemico più potente di me”.
Dove c’era il Registan

Il sole picchia alto quando arriviamo al centro, al cuore della Via della Seta. Il Registan, che in tagico significa il posto sabbioso, era la piazza principale, dove tutto accadeva. Luogo di vita e di morte: vi arrivavano le carovane, vi trattavano i mercanti, vi si portavano i neonati, per la loro presentazione a Dio, e vi agiva il boia, di frusta, accetta, o per impalamento.
I libri d’arte dicono che un tempo era diverso, ma i terremoti e le incurie del tempo han colpito duro. Prima della loro distruzione c’erano un caravanserraglio al centro e due madrase, scuole coraniche di studi superiori, ai lati, disposte in maniera asimmetrica. Oggi dopo vari terremoti e restauri le due madrase si fronteggiano perfettamente e, in mezzo, è stata costruita una moschea.
Lo spazio, immenso, tra di loro, era ricoperto di sabbia, ed era il centro commerciale, probabilmente il bazar dove le storie e le leggende si intrecciavano, dove si apprendeva se la via era sicura, se i valichi erano aperti, se quel re era ancora sul trono.
Oggi c’è del cemento, ancora un sogno ma in confronto al suo passato secondo me fa volare meno in alto. A sinistra c’è l’unica delle due madrasse sopravvissuta alla furia dei terremoti. Bella, da mozzare il fiato. Stortignaccola, bisogna dire, ma incredibilmente affascinante. La facciata è, come le altre due, colorata di tutte le tonalità del blu e riporta delle scritte bianche in arabo, che uno si aspetterebbe rivolte ad Allah, mentre invece tessono le lodi degli architetti. Un esempio? “L’architetto ha progettato un arco così perfetto che il cielo stesso lo confonde con una nuova luna”.
Modesti, non c’è che dire…
Ai fianchi, due minareti, anch’essi entrambi storti. Dentro la madrasa si svela un cortile a due piani e una serie di porticine basse. In questi ambienti vivevano gli studenti e, ogni volta che entravano nelle loro stanze, dovevano chinarsi all’altissimo, fare un segno di sottomissione. Vi studiava chi avrebbe avuto, dopo una dura selezione, un ruolo di rilievo nella struttura statale, religioso o meno. Se lasciavano il ciclo di 15 anni di studi i prescelti venivano puniti severamente. Le pareti interne del cortile sono tutte un intarsio di maioliche blu, celesti, turchesi e verdi, e splendono alla luce del sole. Non raffigurano niente di particolare se non forme geometriche, come da dettami dell’islam.
Questi vengono però clamorosamente infranti dalla facciata della seconda madrasa dove in omaggio alla potenza del suo signore, l’architetto incaricato dei fregi stavolta fece raffigurare due tigri, o due leoni, o due animali mitologici e, sopra di essi, due facce racchiuse dentro il sole.

L’interno della moschea invece è un vero sogno d’oro che non ti stanchi di guardare. Luccica in modo impressionante e qui si sente tutto il peso della storia, della religione, del passato.
La scacchiera di Tamerlano
Intorno negozietti con esempi di artigianato abbastanza ripetitivo: dipinti, stoffe, qualche scacchiera, ceramiche e poco altro. Le scacchiere ricordano la passione principale dello Zoppo. Tamerlano infatti amava giocare a scacchi, aveva costruito delle scacchiere di 110 caselle e aveva inventato nuovi pezzi, come la giraffa, i cammelli, le macchine da guerra ad esempio, che si muovevano diversamente da quelli già esistenti. Da un genio della strategia, mai sconfitto sul campo, era il minimo che ci si potesse aspettare.
Confessarsi davanti a un pilaf
Chiedo a Denis di mangiare un pilaf in un luogo dove vanno i locali e dove non voglio vedere neanche l’ombra di un turista. Mi porta in un locale pieno di gente dove troneggia un enorme pentolone pieno di riso, fatto con carne e grasso di montone, cipolla, uvetta e carote gialle tagliate fine, una delizia del palato. A tavola è noto che dopo un paio di bicchierini le difese personali si allentino: la mia guida mi racconta che ha un figlio e che è sposato con una musulmana “troppo modernizzata” con cui è in lite perpetua e che, se non fosse per il figlio, lascerebbe subito. In Uzbekistan la poligamia non è consentita ma lui ha ben due amanti, tutte uzbeche, una delle quali di Tashkent, conosciuta durante un giro turistico. Confessa tutto da solo, io non chiedo niente.
Lo spazio vuoto
Dopo pranzo, lentamente, ci avviamo verso Afrosiab, la città antica. Denis maledice i Mongoli per averla distrutta. Era la città chiave della Via della Seta e, ogni paio di secoli, passava di mano. I tempi della sua fondazione sono incerti e scoperte archeologiche li spingono in un periodo ben precedente al quinto secolo avanti Cristo. Quel che è certo è che vi arrivò Alessandro dicendo che tutto ciò che aveva sentito su Samarcanda era vero, tranne il fatto che era più bella di quanto avesse immaginato. Oggi non ne rimane nulla. Prati, qualche rovina, campagna pura.
Nei suoi pressi si trova la “tomba” del profeta Daniele, caro sia ai cristiani che ai musulmani. Tra virgolette perché anche a Susa, in Iran, reclamano la sua tomba. Per mettere d’accordo tutti diciamo che qui vi è solo il braccio, portato da Tamerlano, e che cresce di anno in anno. Attualmente è lungo 18 metri, la pazzesca lunghezza del sepolcro, attorno al quale occorre girare tre volte ed esprimere un desiderio. Accanto alla tomba c’è un gigantesco albero di pistacchi, ritenuto sacro dai locali che lasciano dei som nelle pieghe dell’arido tronco.
Il luogo successivo che visitiamo è l’osservatorio astronomico costruito da Ulug Belek. Pare che la congiura ordita dal figlio, che terminò con la decapitazione del padre, dipendesse dai troppi interessi scientifici del padre verso i fenomeni celesti e dallo scarso attaccamento teologico.
La città dei morti
La tappa più attesa è presso Shah i Zinda, la città dei morti o, meglio, il regno del Re Vivente.

Una scala, sulla collina di Afrosiab, accanto al cimitero moderno e a quello dove un tempo tutti furono seppelliti dalla furia mongola, porta a una stretta via, circondata da tombe maschili e femminili, case dalle bellissime facciate blu che si fronteggiano, splendendo alla luce del sole. Alcuni interni sono incredibili, curatissimi: una mostra influenze cinesi, un’altra una delicatissima porta di legno intarsiato. In fondo a questa specie di canyon di tombe si apre un piccolo slargo e, sulla destra, si accede alla costruzione che ospita i resti del Re Vivente.
Altra tomba, altra leggenda.
Ma quante ne ospita questo territorio? Il Re Vivente non è altro che un cugino di Maometto, importante per aver portato l’Islam da queste parti e per aver perso la testa ad opera degli adoratori del fuoco, che non volevano intrusi di tal guisa. Decapitato, non si perse d’animo. Si rialzò, raccolse la testa, si diresse verso un pozzo, dove scese e dove ancora dimora, in attesa del trionfo della vera fede. Si narra che Gengis Khan, incuriosito dalla leggenda ordinò a due soldati di calarsi nel pozzo, che ne risalirono ciechi, impazzirono e in breve tempo morirono. Un pellegrinaggio da queste parti, vale un terzo di un pellegrinaggio alla Mecca.

La tomba non è visitabile, a meno che non si mostri qualche dollaro in più. Denis mi dice che potrebbe, che conosce fin troppo bene il custode, ma non mi sento di disturbare la gente in preghiera. Non sono un credente ma da sempre rispetto ogni forma di preghiera.
La moschea più grande
L’ultima tappa è la moschea di Bibi Khanim, e qui le dimensioni raggiungono il limite dell’immaginabile e, in proporzione, il numero delle leggende. Partiamo da quel che resta. Un arco gigantesco per entrare, cupole altrettanto gigantesche, i muri perimetrali che ospitavano i porticati, un ampio locale sul fondo, del tutto diroccato e invaso da crepe, cui non è permesso l’accesso.
Ma questo capolavoro iniziò a crollare già mentre veniva costruita. Troppa fretta, troppa approssimazione. Cose che Tamerlano non perdonava, mandando a morte gli architetti.
Su questa moschea i racconti sono interminabili…
Alle origini del velo
La leggenda ha molte varianti. La storia principale narra che la moglie favorita di Tamerlano, di origini mongole, Bibi Khanim per l’appunto, vigilò i lavori della moschea, che avrebbe dovuto essere dedicata a lei, mentre il marito era a spasso per l’India del Nord a mozzare teste e a bruciare città. I lavori andavano a rilento e lei non capiva il perché fino a quando non andò a parlare con l’architetto, uno dei migliori del tempo, fatto arrivare appositamente dalla Persia. Lui le disse che andava piano perché, innamoratosi di lei, non voleva andarsene e smettere di vederla. Le chiese un bacio per proseguire i lavori, che lei rifiutò.
Tempo dopo si sparse la voce che Tamerlano sarebbe tornato. La principessa, per far trovare al marito la moschea completata, cedette alla richiesta del bacio, che doveva essere casto, sulla guancia. Sulla guancia sì, ma tanto focoso da lasciare un segno indelebile, una specie di ustione. Per nasconderla si coprì il volto con un velo e ordinò che anche tutte le altre donne facessero lo stesso, per rispettare i propri uomini. Tamerlano tolse il velo, scoprì il segno, si fece raccontare tutto. Lei finì murata viva, dicono i più, mentre l’architetto riuscì a sfuggire dalla vendetta di Tamerlano gettandosi dall’alto del minareto con delle ali artificiali. Quello che ancora oggi fanno i delusi d’amore, andando a sfracellarsi al suolo, meno poeticamente.
Nel fiorire delle inevitabili varianti alcune fonti sostengono che anche l’architetto fu condannato. Che la voce della principessa si senta ancora, e che una delle sue maledizioni era che la moschea si sarebbe sgretolata, così come la sua pelle intrappolata nei muri, che la città sarebbe scomparsa, sommersa dalla sabbia. E che da allora Tamerlano obbligò le donne islamiche a portare il velo per rispetto al proprio uomo e per non essere di tentazione per gli altri.
La disputa per un Corano
Nel cortile della moschea c’è un enorme leggio, a forma di V, simile, nella forma, a quelli che si trovano, in legno, tutti uguali, nei negozietti di souvenir. Vi alloggiava il celebre Corano pesante più di trecento chili, macchiato del sangue del genero di Maometto e razziato ai mongoli da Ulug Bek. Lo portarono via i Russi, a San Pietroburgo; fu una delle prime cose che presero, dopo la conquista.
I simboli, privare un popolo dei propri simboli… Ora è nel museo di Tashkent, restituito agli uzbechi da Lenin. Denis mi racconta che l’Arabia Saudita avrebbe offerto due miliardi di dollari per averlo, ma che la risposta è stata “ci dispiace queste cose non sono in vendita”. Un po’ di orgoglio uzbeco, finalmente, dopo aver venduto il proprio territorio a Russi e Americani.
Fino a poco tempo fa si poteva assistere a uno spettacolo strano, ora non più, in quanto il leggio è recintato. Delle donne si avvicinavano e strisciavano sotto le gambe del leggio, dove lo spazio è poco, e bisogna contorcersi abbastanza per riuscire a passare. Era una cura, posso chiamarla animista? contro l’infertilità.
Nel sole del tardo pomeriggio, il cortile è in silenzio, e sedermi sulla panchina all’ombra, circondato dall’immensità delle cupole e degli archi infonde una grande tranquillità.

Al Gran Bazar
Appena accanto alla gigantesca moschea in rovina si trova il Gran Bazar, che riesce ad essere caotico anche all’ora di chiusura. Compro del cumino dei prati, rarità dalle mie parti, di cui sto finendo le scorte. Vi tornerò l’indomani, dopo aver chiuso la giornata con una meritata sosta in albergo, dopo essere tornato al Registan al tramonto, quando le cupole assumono tutto un altro colore.
Il mercato di ogni città orientale ha sempre sua vita, i suoi colori, le sue urla, i rumori e gli odori inconfondibili. Le spezie, la frutta impilata, fresca e secca, i venditori che ti rincorrono, chi vuole cambiare una tonnellata di spiccioli da un euro che nessuna banca al mondo gli cambierà in som, i cappelli pelosi dei briganti turcomanni, quelli più piccoli, ma pur sempre ridicoli, degli uzbechi, i chapan decorati d’oro, i pazienti bevitori di tè, i venditori di fortuna e poi le donne, i vestiti delle donne, variopinti e bellissimi, che risplendono sotto il sole cocente, su donne affaticate, ragazze snelle, venditrici vivaci, bambine che non si fermano un attimo.
Mi aggiro poi per le vie dei turisti, una strada pedonale collega il Registan alla moschea di Bibi Khanim. I negozi sono puliti, asettici, tutti uguali. Oltre la moschea inizia Afrosiab, la città antica, con la città del Re vivente e il resto: dopotutto le cose da vedere sono vicine. Resta poco tempo per vivere un po’ la città.
Decido di tornare al Registan, ripago l’ingresso. Voglio andare via con le sue immagini negli occhi. Mi siedo all’ombra, di fronte alle due enormi tigri.
Si avvicinano due ragazze di Samarcanda e iniziano a chiacchierare. Un peccato che la meraviglia della città sia preclusa agli uzbechi. Anche se la loro “tassa di calpestio” è molto più bassa del biglietto di entrata per i turisti, all’incirca mezzo dollaro, il dover pagare ne ha fatto un luogo a loro alieno. E dispiace. Perché non è un posto da occidentali o da giapponesi di passaggio. E’ la loro storia, non la nostra. Loro ne erano gli abitanti, noi, a volte, i semplici mercanti che vi cercavano rifugio, sempre che riuscissimo ad arrivarci. Rifaccio il giro delle madrasse, memorizzo il turchese, l’azzurro, il verde, chiudo gli occhi, penso alla vita che vi scorreva una volta.
Poi torno lentamente in albergo, passando a salutare di nuovo la tomba di Timur lo Zoppo, colui che voleva conquistare il mondo, oscurare il cielo e, tuttavia, aveva il cuore aperto all’arte e alla bellezza.
Fermo un tassì al volo, è già occupato. Non mi preoccupo più di tanto, funziona così da queste parti. La donna del sedile di dietro parla un inglese decente, l’autista neanche una parola, gli dice che devo andare in stazione ed inizia a parlare. Ha studiato la lingua ma non ha l’occasione di esercitarsi e ha paura di dimenticare. Scende alla città del Re vivente, forse a far da guida a qualche turista. L’autista è un allegro tagico, che passa col rosso e insulta quelli che rispettano il semaforo. Mette musica tagika, un’inascoltabile e infinita cantilena. Eppure mi sorprendo a dire “dubro”, e lui sorride con tutti i denti. Il viaggio in treno è un po’ noioso ma c’è una presa elettrica, scrivo un po’. Arrivo a Tashkent alle sette di sera. Mangio degli spiedini, poi mi faccio portare in aeroporto. I guard-rail di accesso all’aeroporto di sera si illuminano e sono neon fosforescenti verdi e blu, i colori nazionali.
I colori dell’Uzbekistan, i colori di Samarcanda. E’ giunto il momento dei saluti.

“Corri cavallo, corri, ti prego
Fino a Samarcanda io ti guiderò
Non ti fermare, vola, ti prego
Corri come il vento che mi salverò”
(da “Samarcanda” di Roberto Vecchioni)
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