Tutta la storia di Quito

Per molti è la metropoli più bella del Sudamerica ma in questo senso una vocina mi suggerisce Rio de Janeiro. Di sicuro dopo La Paz è la seconda capitale amministrativa più alta del mondo, trovandosi anch’essa quasi a 3.000 metri sul livello del mare. E’ sicuramente una città molto affascinante, nominata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco per la sua architettura coloniale a tratti decadente, per le sue piazze eleganti e luminose, le chiese bianche, ricche e pompose che ricordano la forza gesuitica.
Quito ha anche una parte vecchia dove i colori, i suoni, le sensazioni stesse che si vivono sono una mescolanza di echi spagnoli e andini: cortili ombreggiati da patios e flauta de pan a ogni angolo, cappelle cattoliche e mercati variopinti, balconcini di ferro battuto e scalinate che si arrampicano sulle colline o scendono verso il cuore della City, donne col bimbo nell’immancabile fagotto e botteghe artigiane che vendono tappeti e bombette, cucine che sanno di frittate, salumi, zuppe, legumi. E su tutto le montagne inca e le vette vulcaniche che fanno da cornice e da quinta teatrale. Col Teleferiqo si raggiunge il vulcano Pichincha e da lì il panorama domina tutta l’immensa vallata.


Dalla morte di Atehualpa all’indipendenza con Sucre Quito è stato il principale centro storico e artistico dell’Ecuador, il luogo dove gli spagnoli dal 1534 in poi hanno lasciato mille chiese barocche (quella di San Francisco per esempio è la più antica di tutta l’America Latina, quella di San Domenico, quella favolosa della Compagnia di Gesù), l’arte dell’intaglio, esempi di arte moresca come nella Chiesa de la Merced e vicoli pitturati di bianco e abbelliti da vasi di fiori, tra i quali ci si perde volentieri. Tanto prima o poi si sbuca nel cuore di Quito, la Piazza Grande, chiamata anche Piazza dell’Indipendenza, sulla quale si affacciano la Cattedrale, il Palazzo Arcivescovile, il Palazzo Municipale e il Palazzo di Carondelet, sede del governo della Repubblica dell’Ecuador. Fino a qui l’eredità spagnola, appunto.

L’anima india però è sempre sopravvissuta, per questo basta osservare le facce dei suoi abitanti, dei suoi mercanti, dei suoi mendicanti. Visitare i quartieri più poveri o anche solo osservare il movimento di una giornata alla stazione dei bus, quando arrivano le genti dai villaggi vicini come Otavalo, pronte ad aprire le coperte per schierarvi le loro merci in qualche via del centro.


Il destino di Quito ricorda quello della capitale gemella Cuzco, con cui nei tempi più prosperi rivaleggiava per splendore, cultura, architetture. E che oggi fatica a stare al passo del capitalismo moderno, lo capisci dalle numerose manifestazioni, dagli indios che si addormentano per strada, dagli sguardi rassegnati delle vecchiette che filano la lana o che vendono la frutta.

Il volto moderno
Quito da romantica diventa moderna nei quartieri in pianura dove i grattacieli di vetro e cemento, costruiti negli effimeri anni ’60 del boom petrolifero, si mangiano arroganti lo spazio dando vita a una sky line degna di una metropoli statunitense.
Nella zona di Centro Mundo dove per toglierci di dosso due mesi di fatiche, polvere, freddo, caldo, capanne, ostelli, pensioncine equivoche, ricordi di duri sedili di treno e di corriera, abbiamo scelto di passare le ultime notti di questo meraviglioso viaggio in un albergo moderno, pulito e pieno di comfort, sono numerosi e ricercati i ristoranti europei, le discoteche chiassose, le belle donne e le ville degli uomini d’affari che però sembrano quasi una nota stonata in un paese così dominato da montagne, vulcani, oceano e selva.
Belle le librerie e le gallerie d’arte per queste strade, curati i giardini, grandi le automobili, invidiate le case, ma tutto questo ti dà l’idea di un patrimonio per poche classi privilegiate, come accade alla Zona Rosa di Città del Messico o a Miraflores a Lima: un perimetro largo ma allo stesso tempo chiuso, opulento e borghese, mentre il popolo semplice si ammucchia, si arrangia e vivacchia nel centro coloniale e nelle periferie che a volte somigliano a favelas.

Centro Mundo per esempio ha un’aria sicuramente diversa rispetto a quella che ti aspetta sulla collina del Panechillo, meta preferita dei rapinatori osservati con pietà da una grande statua della Madonna! Più i quartieri diventano umili più spuntano sui muri screpolati i poster delle Miss Qualcosa sorridenti, degli eroi del calcio e ahimè dell’esercito che chiama i più poveri ad arruolarsi.
Le ultime visite del viaggio le dedichiamo al Museo di Archeologia pieno di ceramiche, ori e idoli dell’arte meticcia ma soprattutto al simbolico Monumento dell’Equatore, distante una trentina di km dalla capitale, dove ci ritroviamo con le gambe a cavallo di una linea che segna il confine dei due emisferi. Ma qui attenzione perché va svelato un piccolo grande segreto: moderni studi a base di GPS hanno dimostrato che il monumento è stato costruito 240 metri troppo a sud: non fa niente!
Scelgo il Sud
Eccolo qua il senso finale di due mesi di vagabondaggio tra almeno cinque ecosistemi (quei quattro presenti in Ecuador più il deserto, di sabbia in Perù e quello di sale in Bolivia): da una parte il mondo sgangherato, provvisorio, incompleto, allegro e disperato insieme, dall’altra comincia il nostro lato delle cose, il nostro punto di vista, quello a nord dell’America Latina, di tanta Africa, il nostro mondo più organizzato, sviluppato, fortunato, efficiente e razionale.
Nella foto che chiude il mio album indico con le mani il lato sud, perché sento che è rimasto più integro e più ingenuo e perché ha più bisogno di noi, del nostro aiuto, della nostra generosità. O forse perché sento naturalmente di appartenere di più al sud del mondo.
E’ qualcosa che assomiglia a un atto di partigianeria, un richiamo quasi sentimentale che mi si è ficcato sotto la pelle e tra la testa e il cuore.
Sud.
Definetely.

Il saluto a Quito, al viaggio, ai paesi andini, ai ricordi, alle donne, ai laghi, ai condor, ai lama, alle corriere, alle antiche pietre, alle musiche struggenti, alle selve umide, a tutte le cose viste e amate avviene una bella mattina di fine estate quando i campanili rintoccano sulla dignità e la penombra della città vecchia.
L’aereo di ritorno è sempre più veloce, dagli occhi mi scende qualcosa che luccica.
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