Spie, sultani e condottieri
Prepararsi a un viaggio così lontano, in un posto così mitico, significa come minimo riprendere in mano dei libri stipati con cura nello scaffale che preferisco, quello del giornalismo geografico. L’immenso Tiziano Terzani, alcuni trattati di geopolitica, altri libri di storia, dei diari di viaggio di curiosi col talento per la scrittura, fino all’inevitabile biografia di Gengis Khan. Libri che parlano dei potenti e della gente comune, del passato pazzesco e del futuro incerto di questo bizzarro paese, l’Uzbekistan, delle sue miserie e delle sue grandezze, di conquiste e massacri, di spie, condottieri e mercanti, di grandi imperi e piccoli khanati, di tutto ciò che, da un paio di secoli a oggi, in questa parte del mondo, si definisce il “Grande Gioco”.

L’Uzbekistan è sempre stato al centro degli intrighi dell’Asia Centrale, ne è sempre stata una pedina chiave lungo i millenni. Il primo ad arrivarvi da Occidente fu Alessandro il Grande, che rimase sconvolto dalla bellezza di Samarcanda, dove si sposò, fece ammogliare tanti dei suoi soldati ed uccise il suo migliore amico, colpevole di ricordagli la relatività della sua grandezza.
La furia di Gengis Khan
Le splendenti città uzbeche, che ereditarono il sapere persiano e arabo, nel 1200 furono rase al suolo dall’ira di Gengis Khan, dopo la vile uccisione dei suoi parlamentari. Il mongolo fece tabula rasa, esclamò, entrando a cavallo nella moschea di Bukhara, e scagliando a terra il Corano: “io sono il flagello di Allah. Se non aveste commesso grandi peccati, Allah non avrebbe inviato una punizione come me sopra di voi”. A Samarcanda eresse una piramide con i teschi degli uccisi… L’unica cosa che risparmiò fu il grande minareto di Bukhara, in piedi ancora oggi, troppo immenso anche di fronte ai suoi occhi sanguinari. Alzò lo sguardo per osservarne la cima, gli cadde il cappello, si chinò a raccoglierlo e disse “questo minareto è la prima cosa dinanzi alla quale io mi sia mai inchinato”.
Ancora oggi è lì.

Le devastazioni di Tamerlano
L’Uzbekistan è una terra che ha visto passare tanti grandi personaggi storici. Dopo Alessandro il Grande e il feroce guerriero delle steppe il terzo degno di nota fu Timur lo Zoppo, o Timur Leng, da noi più noto come Tamerlano. Un altro fulmine di guerra, nomade perché non sapeva essere altro. Delle sue campagne di guerra restano montagne di teschi, milioni di morti (cinque, solo in India, dove i suoi discendenti edificarono il Taj Mahal) e un impero immenso che, al contrario dei Romani, conquistava senza governare. Sembrava, come Gengis, che lo facesse per il gusto innato della razzia.
Dopo aver seminato terrore e distruzione, si appropriava del meglio che trovava nei territori conquistati: architetti, artisti, artigiani, poeti ed astronomi. Il tutto per rendere Samarcanda il paradiso in terra, vederla splendere sopra le altre. Ma non per viverci perché, da nomade nell’anima, preferiva accamparsi ai suoi sobborghi, in enormi campi tendati.
Con la sua fine terminarono i grandi imperi dell’Asia Centrale che, neanche troppo lentamente, iniziò a frazionarsi in entità molto più piccole e, al tempo stesso, a perdere importanza dal punto di vista commerciale in quanto con la “scoperta” dell’America l’interesse di mercanti, missionari e militari si spostò ad Occidente. Lo stesso interesse in questa parte dell’Asia Centrale riprese nel 1800, durante l’espansione a sud dell’impero zarista. I cosacchi dello zar si avvicinavano troppo pericolosamente ai possedimenti della Regina d’Inghilterra ed ingorghi di spie iniziarono ad affollare la vecchia Via della Seta.

Il sanguinario Nasrullah
Gli emiri che reggevano i khanati indipendenti di Khiva, Kokand e Bukhara dovevano la loro esistenza, e la loro resistenza, non tanto alla potenza militare, poca roba rispetto alle macchine da guerra e alle armi moderne dei grandi stati nazionali, ma all’isolamento geografico.
Si trovavano oltre le steppe più vaste del mondo, al di là dei deserti tra i più crudeli ed erano protetti dai monti più alti e da un clima invivibile, sia d’estate che d’inverno. Il solo arrivarvi inosservati era un successo e in molti ci rimisero le penne, dalle armate zariste decimate dal gelo alle ingenue spie inglesi lasciate marcire per mesi in fondo a tuguri infestati da parassiti.
Due inglesi furono le vittime più eccellenti, e mai vendicate, del Grande Gioco, Stoddard e Connelly, che commisero in tempi diversi la stessa dabbenaggine di entrare in città a cavallo, di salutare l’emiro senza smontarne, di non portare doni adeguati e di avere con sé una lettera di presentazione non firmata dalla Regina: figurarsi se il crudele Nasrullah poteva rispettarli e allearsi con quella che immaginava essere una piccola e lontana nazione. Piuttosto cacciò i due “diplomatici” in fondo a un pozzo dove si accedeva solo grazie a una fune e dove vivevano allegri e vivaci vermi carnivori. E alcuni anni dopo li decapitò in pubblica piazza.
Quella piazza gronda sangue.
Devo ricordarlo quando un giorno riuscirò ad andarci. E ricordiamoci anche di queste violenze, effettuate da un neanche tanto remoto antenato degli uzbechi, oggi considerato probabilmente un eroe nazionale, quando parleremo di quelle attuali e di diritti umani.
Tara genetica? Non di Gengis e Timur: per lo meno loro uzbechi non erano.
Il crollo di Tashkent
Bastò un po’ più di decisione da parte delle armate zariste per far crollare Tashkent, protetta da possenti mura, e i tre khanati, uno dopo l’altro, nonostante la resistenza accanita.
Gli Inglesi tramavano ed erano sulla difensiva per difendere la perla della Corona, l’India, mentre i Russi conquistavano terre su terre. Se non ci fosse stato l’Afghanistan di mezzo, conquistabile ma impossibile da tenere, sarebbero arrivati fino in India.
E probabilmente avremmo avuto una guerra mondiale con cinquant’anni di anticipo.
La carta di identità

Forse però sto andando un po’ troppo in fretta. E’ chiaro dove sto andando? In quanti sanno trovarlo in meno di dieci secondi su una carta geografica?
Carta di identità: Uzbekistan, 30 milioni di abitanti. Segni particolari: uno dei due paesi al mondo ad essere double land-locked cioè senza accesso al mare e circondato da paesi confinanti privi di accesso al mare (il secondo non ve lo dico neanche sotto tortura). Si tratta quasi di un’altra Mesopotamia, una terra più o meno delimitata da due fiumi celebri nell’antichità, l’Oxus e lo Jaxartes, oggi noti come Amu Darja e Syr Darja, ieri giganti lunghi migliaia di chilometri, oggi ridotti a rigagnoli dagli ingegneri sovietici, il cui essiccamento, causato dalla necessità d’acqua per l’irrigazione dei campi di cotone, è il maggior responsabile della morte del Mare d’Aral.
I confini dell’Uzbekistan: a ovest e a nord il Kazakhstan, ovvero deserti e steppe, cinquanta gradi d’estate e meno quaranta d’inverno; a est l’intricato gioco di confini voluto da Stalin: Kyrgyzstan e Tagikistan, ovvero una valle fertile, Fergana, di ortaggi ed estremisti islamici, e l’accesso ai monti più alti del globo, a un passo da India, Cina e Pakistan, a sud-ovest il Turkmenistan, conosciuto per i deserti e per i fanatici regimi dittatoriali che lo spingono ad occupare i ranghi più bassi di qualunque classifica analizzi corruzione, libertà di espressione, trasparenza e diritti umani; a sud, poco più di cento chilometri di confine con un certo Afghanistan, sempre fondamentale pedina strategica, almeno da centocinquanta anni a questa parte.

L’Uzbekistan una volta era il fulcro della Via della Seta, poi residenza di folli emiri, quindi arrivò lo Zar, infine l’impero sovietico. Oggi è il più popoloso e più forte dei cinque paesi centroasiatici, una polveriera strategica, desiderata da Americani, Russi, Cinesi e Islamici. Possiamo riparlare di un Grande Gioco che non è in realtà mai finito?
Da Stalin a Karimov
Cosa combinò Stalin da queste parti? Creò delle “repubbliche” secondo la logica del divide et impera, ogni repubblica specializzata nella produzione di qualcosa ma mai economicamente autonoma. Ai tempi dell’Indipendenza, raggiunta sul finire del ‘900, avviano un processo di derussificazione ma il vero potere resta nelle mani della solita classe dirigente comunista, che però si fa chiamare democratica, e causa col suo malgoverno crisi economica ed iperinflazione.
L’uomo che resta al potere in Uzbekistan si chiama Islam Karimov (in aereo ho cominciato a scrivere I.K. invece del nome completo, le microspie sono ovunque e non voglio fare la fine dei due inglesi!!!). Sfrutta favorevolmente il regalo di Stalin. Ha tra i suoi confini le due perle tagiche, Samarcanda e Bukhara, e gli introiti turistici che ne derivano: la sua terra ha cotone, oro, uranio, acqua, un esercito potente, una posizione strategica. Se economicamente non fosse stato dipendente dalle altre repubbliche sovietiche si sarebbe potuto sviluppare bene e in fretta.
Karimov è il perfetto esempio, un caso studio direi, di come dei suoi potenzialmente innocui, magari un po’ focosi nemici musulmani, si siano potuti trasformare nel braccio armato di Bin Laden.
La Valle di Fergana è sempre stata la culla dell’Islam in Asia Centrale. Gli abitanti della valle volevano solo il permesso di pregare, un ritorno graduale all’Islam, lì tradizionalmente radicato, che era stato proibito nel periodo sovietico, o almeno consentito solo nelle moschee statali.

L’opposizione di Karimov è però radicale, la sua intransigenza totale. Alla fine degli anni Novanta, timoroso della crescente influenza dell’Islam, Karimov indice leggi liberticide. Fa interrogare e imprigionare chiunque preghi nelle moschee non autorizzate, fa interrogare e imprigionare chiunque porti la barba, abbia più mogli, si rechi in Afghanistan o in Pakistan; le sparizioni e le torture sono frequenti, i genitori possono finire in carcere per i reati dei figli e le donne possono essere arrestate se portano il velo in testa. In più, la sua lotta è diretta particolarmente contro il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (il MIU) creato da Yuldushev, l’ideologo e Namangani, il combattente (che non erano certo due stinchi di santo e volevano l’instaurazione della sharia nella valle di Fergana) ma anche contro il molto più diffuso Hizb ut-Tahrir (il Partito della Libertà) che prevedeva il ritorno a un califfato con mezzi tecnologici e pacifici, propaganda e manifestazioni di piazza.
Un contesto esplosivo e infatti esplosioni ci furono.
Nel 1999 la repressione si inasprisce ancor di più, dopo sei autobombe piazzate a Tashkent, potenzialmente attribuibili non ai movimenti islamici ma ai suoi avversari politici. Gli islamisti vengono però accusati degli attentati. L’ideologo e il guerriero si danno alla macchia. Il secondo, in particolare fu considerato negli stati dell’Asia Centrale come un novello Che Guevara (con tutto il rispetto, Ernesto).
Narrano che avesse creato un suo angolo di paradiso tra le montagne del Tagikistan e che, come nei film di Rambo, fu contattato dai connazionali uzbechi perché li aiutasse contro il governo che rendeva agli islamici la vita sempre più impossibile. Accettò. Ad accrescere l’aura di figura mitica, il fatto che avesse molti seguaci, che non rilasciasse interviste, che non se ne conoscesse il volto, come con il Mullah Omar, che fosse imprendibile, perché dell’esercito sovietico, e quindi di quello uzbeco, conosceva tattiche e strategie. Detto ciò, uccideva, spargeva il terrore, decapitava. In più addestrava commandos, trafficava armi, creava cellule dormienti nella valle di Fergana e nelle enclavi del Kyrgyzstan, a due passi dal confine uzbeco, preparava la guerra di guerriglia.

Dal 1999 al 2001, partendo dai monti del Tagikistan, si rese protagonista di tre campagne estive di guerra contro l’Uzbekistan, effettuate con tattiche di guerriglia sempre diverse: assalti mordi e fuggi, panico tra i villeggianti, rapimenti di scalatori americani e di geologi giapponesi con richiesta di pesanti riscatti, uccisione di sindaci, di militari kirghisi e uzbechi. Scatenò il panico nelle repubbliche centroasiatiche, non pronte a reagire dal punto di vista militare, ancor meno da quello politico.
Odio e cecità causano altrettanto odio e cecità e così l’azione di Namangani provocò delle risposte militari particolarmente inadeguate e indiscriminate, inclusi frequenti bombardamenti in Tagikistan e Kyrgyzstan, accusati di ospitare le basi e i terroristi, e la trasformazione dei confini in campi minati. Tutte mosse che non fecero che incrementare le fila del MIU. Particolare interessante il fatto che alla fine di ogni campagna estiva i guerriglieri venissero “scortati” da elicotteri russi in Afghanistan, dove Namangani e compagnia venivano accolti da eroi. Lì svernavano, combattendo con i Talebani e Bin Laden, guidando la legione straniera islamica composta da uzbechi, uiguri, ceceni e arabi contro l’Alleanza del Nord del tagico Masur, ucciso poco prima dell’11 settembre da due finti giornalisti-kamikaze, che nascondevano una bomba nella loro telecamera.
Karimov chiedeva nel frattempo, invano, l’aiuto degli occidentali per combattere il fondamentalismo anche se per lui ogni musulmano era un fondamentalista. Sono gli eventi dell’11 settembre a venirgli incontro e a far cambiare tutto. L’Uzbekistan diventa improvvisamente importante nel gioco strategico, una pedina fondamentale per sferrare gli attacchi americani in Afghanistan. Dopo un lungo tira e molla, dopo insistenze russe affinché non accettasse l’”invito” statunitense e in cambio di valanghe di dollari, Karimov concede agli americani le basi aeree e il transito sul ponte dell’amicizia. Lo stesso ponte che, a Termez, i Sovietici usarono per invadere e ritirarsi dall’Afghanistan, è ora affollato di marines.
Karimov ha in mano il jolly, e lo sa: per anni è stato ignorato e ora, all’improvviso, sono gli altri, i più potenti, a lavorare per lui, a finire il lavoro che per anni lui aveva tentato di fare.
Namangani e Yuldishev si buttano tra le braccia di Bin Laden, combattendo in Afghanistan contro gli Statunitensi, trasformando il loro sogno di uno stato islamico nazionale nel contributo internazionale alla discutibile e assassina lotta mondiale di Al Qaeda contro il male. Il primo morirà, per la gioia di Karimov, in un bombardamento americano nella battaglia di Kindouz, il secondo sembra nel 2009, sempre per le conseguenze di un attacco aereo.
Dagli Statunitensi, oltre ai soldi, l’Uzbekistan riceve in cambio il silenzio totale sul suo mancato rispetto dei diritti umani, sia verso i potenziali estremisti islamici catturati nel fronte interno, sia per quelli spediti ai torturatori uzbechi, prelibatissimi e rinomati, per farli parlare. Guantanamo, al confronto, era una fiaba per educande. Chiamatele rendition: sono i moderni desaparecidos. Colpevoli o meno, se ne perdono le tracce. Consegnati ai carnefici, torturati, scomparsi nei sotterranei. E gli stessi metodi vengono applicati sui potenziali oppositori nel fronte interno.
Ancora negli anni 2000 in Uzbekistan non vi è obbligo di portare gli arrestati in giudizio e i rapporti sulle violazioni dei diritti umani si sprecano, parlano apertamente di torture, di unghie estirpate, di prigionieri politici e religiosi rapiti e massacrati di botte, di interrogatori medioevali, di uomini bolliti vivi. Tutto questo viene tollerato, o ignorato, in nome della lotta al terrorismo. E io mi chiedo: ma gli stati canaglia sono definiti tali solo quando fanno comodo?

I finanziamenti continuano arrivare, le torture a essere ignorate, e il potere nel frattempo si consolida, con referendum che allungano il mandato presidenziale ed elezioni politiche ridotte a farsa. Fino al massacro del paesino di Andijan.
La storia è un po’ lunga da raccontare, scrivo solo che nel 2005, in seguito ad un arresto ingiustificato di alcuni uomini di affari accusati di islamismo, alla loro liberazione da parte di un commando e ai loro discorsi in piazza davanti a una folla che protestava contro il governo, l’esercito uzbeco chiuse le vie di uscita e sparò indiscriminatamente sui manifestanti, solo in minima parte armati, causando il massacro di civili innocenti, donne e bambini inclusi. Le stime più alte parlano di ottocento vittime dei cecchini del governo e i feriti furono giustiziati dall’esercito. Ci fu un’ondata di sdegno internazionale, condanne da parte degli Stati Uniti, che furono cacciati e, in seguito, riammessi alla base militare, un embargo economico da parte dell’Unione Europea, levato pochi anni dopo senza che nulla cambiasse in termini di rispetto delle minime condizioni poste al paese sui diritti umani. Le ONG furono espulse dal paese, i giornalisti e attivisti per i diritti umani imprigionati. Il il Comitato della Croce Rossa Internazionale ha dichiarato di porre termine alle visite dei detenuti in Uzbekistan, perché non era possibile effettuarle secondo le procedure standard.
Un bel quadretto.
Bene, ora un po’ di distorsione professionale statistica, aggiornata con gli ultimi dati, freschi di internet.
Classifica worst of the worst, che analizza i paesi (o territori) violatori dei diritti umani: Uzbekistan all’ultimo posto al pari demerito di campioni di democrazia quali Guinea Equatoriale, Eritrea, Corea del Nord, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Siria, Turkmenistan, Tibet e Sahara Occidentale.
Indice di percezione della corruzione (calcola il livello di corruzione percepita tra pubblici uffici e politici): quintultimo. Classifica sulla libertà di stampa: terzultimo. Indice della democrazia (calcolato dall’Economist sulla base del processo elettorale, del pluralismo, delle libertà civili, della funzione del governo, della partecipazione politica e culturale): quartultimo al pari merito della Birmania e migliore solo di Corea del Nord (di nuovo), Turkmenistan (sic) e Ciad.
Karimov, inossidabile, anche se meno protetto, resta al potere fino all’anno della sua morte, il 2016.

(continua…)
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