Il ritorno e la luce
Il mio lavoro mi riporta in Estonia nel bel mese di giugno. Eccomi inondato stavolta della magnifica luce quella che ti regala un crepuscolo senza fine e che a volte non ti fa dormire. A Tartu la proprietaria della casa dove dormirò per due notti utilizza tende chiare. Questo vuol dire che all’una di notte arrivano le tenebre, che assomigliano più che altro a un eterno crepuscolo, e alle tre del mattino la luce ti acceca.
Affittando una macchina, andrò con un amico nell’Estonia più marginale e nascosta dove sopravvivono minoranze etniche e religiose, e dove raramente il turismo arriva. Intanto arriva un tramonto baltico da urlo. Sulle sponde dei laghi alcune case di legno sembrano capanne di caccia per trapper.
Tallin mi accoglie di nuovo, ha l’aria di una città in festa, i giovani che a novembre vedevo solo nelle cantine e nei cappotti ora sono usciti all’aperto con energia e voglia di vivere tutta la luce, dopo il lungo letargo e i silenzi dell’inverno.

Le strade non sono più lucide di pioggia e percorse da passanti frettolosi, ma invase da tavolini e spettacoli da strada. Questo causa certi inconvenienti, come i parecchi italiani sbarcati quassù esclusivamente per un turismo di tipo sessuale. Ma il pensiero per fortuna è già è altrove. A un viaggio che sto studiando da un mesetto e che sarà dedicato ad angoli di Europa lontana e a minoranze sconosciute ai più.
Verso Tartu
In “compagnia” di due autostoppiste silenziose, guidiamo per poco più di due ore in un panorama piatto e verde. Tartu, seconda città dell’Estonia e sua capitale culturale, è praticamente dietro l’angolo.

Un posto che non è bello ma vivo. Cosa può succedere a una città popolata per un quinto da studenti? Fine settimana selvaggi, d’estate ancor di più. Il sole non cala, loro si accalcano sulle pendici verdi della collina dove una volta si levava la fortezza. Sostano, parlano, bevono. Soprattutto bevono. A cena grande la soddisfazione in una taverna georgiana – quelle dove i brindisi sono infiniti – per una zuppa di montone e delle melanzane in salsa di noci, una focaccia morbida, calda, con sopra formaggio fuso: dividiamo il tutto per assaggiare più cose. Una leggenda narra che quando Dio distribuì le terre ai popoli i Georgiani rimasero fuori dalla spartizione perché erano troppo occupati a mangiare e brindare. Quando andarono da Dio gli dissero che erano in ritardo perché avevano brindato alla bellezza della sua creazione. Lui, commosso, gli donò il pezzo di terra più bello, quello che aveva conservato per se stesso.
Gli acchiappazanzare!
A Tartu c’è altro, non solo vita, musica e cultura. Zanzare per esempio… è il covo di milioni di enormi, fastidiosissime, aggressive e rumorose zanzare che non ti lasciano in pace per un istante. Le ragazze, in minigonna fuori ai locali si spruzzano intere bombolette di repellente addosso. Noi che non ne abbiamo neanche un millilitro siamo divorati dai morsi. Ci inseguono anche in macchina, ne uccidiamo a decine. Terrorizzati dal solo lasciare uno spiraglio aperto nella nostra stanzetta al secondo piano di una casa privata, dormiremo due brevi e caldissime notti con le finestre chiuse. Sudare di notte in Estonia: chi lo avrebbe mai detto?

La città, oltre che da migliaia di studenti, immortalati nel bacio di una coppia nella fontana della piazza centrale, è attraversata da un fiumiciattolo calmo e placido e circondata da paludi: ecco la sala parto dei simpaticissimi insetti.
Attenzione: questa è dura da credere. Nel 2010 Tartu ha organizzato il primo campionato estone di acchiappa-zanzare. Scovo su internet che tra i trentasette pazzi che hanno partecipato al campionato, individualmente o in piccoli team, su un prato diviso a mo’ di dama, alcuni sono andati sul campo di battaglia già sudati – tattico, molto tattico – per attirare più zanzare da sterminare. Leggo che il più bravo ne ha uccise 38 in dieci minuti, e che prima però è stato divorato dalle bolle!
Direi che è meglio dedicarsi all’osservazione delle libellule vicino agli stagni e ai boschi.

Rapporti complicati
Sul fiume di Tartu, l’Emajogi, si rispecchiano tre ponti.
Uno è decorato, alle estremità, da piccoli obelischi, simbolo di imprese belliche e di resistenza. Gli altri due sono moderni. Il più ardito fu semidistrutto dai sovietici in ritirata nel 1941, e completamente demolito dai nazisti in fuga nel 1944.
Ne hanno viste da queste parti: appena fuori città c’è un monumento dedicato a dodicimila vittime di un eccidio nazista. Ma, come in tutta l’Estonia, neanche con i Russi ci vanno leggeri, fece scalpore per esempio nel 2007 la demolizione del monumento di un soldato russo a Tallinn, una specie di milite ignoto locale. Ci furono due notti di scontri, tanti arresti, un morto, il centro di Tallinn messo a ferro e fuoco, l’ambasciata estone a Mosca tenuta sotto assedio.
E poi altri scherzetti, ripicche in continuazione: ad esempio, il presidente estone che snobba un invito di Mosca per celebrare l’anniversario della vittoria sul nazismo, i prodotti estoni che vengono boicottati, code interminabili ai confini con la Russia.
No, non si vogliono bene per niente.
In volo con le cicogne
E’ da Tartu che inizia la ricerca dei dimenticati d’Europa. Andando verso sud inizia un viaggio nel verde. E’ un verde brillante, perché il sole non smette un attimo di splendere, non il verde triste e grigio di qualche mese fa, appiattito dalle nuvole gonfie, che trasmetteva tristezza e appesantiva i pensieri.
Arriviamo a Mehikoorma, dove visitiamo le rovine di una chiesa di cui resta solo un imponente campanile di mattoni rossi, circondato da erbacce, una lapide ai caduti, cicogne e miliardi di aggressive zanzare. Le cicogne ci terranno compagnia per tutto il tragitto nei due giorni di viaggio. Il più delle volte le vedremo appollaiate sui loro fantastici nidi, con uno o due piccoli, in cima a ruderi, campanili di chiese in rovina, pali della luce, alberi morti. Curiose nel nido, a volte un po’ nascoste, ma onnipresenti. Goffe a terra, quando cercano un po’ di cibo tra l’erba alta, fantastiche in volo, uno spettacolo incredibile. Le avevo viste solo in Marocco, sopra muri di case diroccate. Bellissimo incontrarne così tante, così a nord.

Siamo sulle rive del grande lago Peipus, il quarto d’Europa per estensione, lì dove i confini tra Estonia e Russia seguono laghi e fiumi.
Il lago non si fa vedere nella sua grandezza, gioca a nascondino con le recinzioni, il porto, la linea del confine. Ne seguiamo la costa, verso sud, mentre ci perdiamo per strette vie di campagna.
La terra dei Seto
Ci stiamo recando nella Setomaa, la terra dei Seto: chi saranno mai? Sono una minoranza etnico-linguistica, dalla lingua ugrofinnica, che vive in un angolo sperduto dell’Estonia sudorientale. Sono il frutto di un flusso migratorio che ha dato vita secoli fa a un miscuglio slavo-finnico. Pagani quando gli Estoni si convertirono al cattolicesimo, divennero ortodossi, mantenendo però le loro credenze ancestrali, come l’uso di lasciare cibo sulle tombe dei parenti, quando gli Estoni passarono al luteranesimo, perché si trovarono sotto l’influenza russa e non, come il resto dell’Estonia, dei baroni tedeschi. Accadde a causa di una sconfitta subita dai cavalieri teutonici, nel 1240, durante la crociata del nord, in quella che venne definita la battaglia del ghiaccio: i Russi le suonarono sul lago ghiacciato ai Tedeschi, con l’ausilio di arcieri mongoli e di un ghiaccio sottile, che inghiottì i nemici in ritarata, appesantiti dalle armature di ferro.

I Seto rimasero uniti, sotto la prima brevissima repubblica estone a cavallo delle due guerre. Poi l’Estonia fu annessa all’Unione Sovietica e Stalin, tanto per cambiare, creò un confine che divise i Seto in due diverse repubbliche sovietiche, la Russia e l’Estonia. Dopo l’indipendenza dell’Estonia quei confini diabolici vennero mantenuti e i Seto scomparirono quasi del tutto perché divisi dai fratelli russi da una frontiera dura da varcare, ma anche a causa della politica di estonizzazione che estromise le minoranze linguistiche dalla vita sociale e politica. Oggi ne rimangono 4000 in territorio estone, solo 3000 in Russia. Le poche informazioni su di loro le trovo su Wiki, navigando un po’ e sulla Lonely Planet.
Vivono in gruppi di abitazioni costruite come nei villaggi africani: disposte in cerchio, in mezzo lo spazio comune per una vita sociale, quel poco che ancora gli resta per stare uniti. Le donne indossano vestiti da contadine, in genere bianchi e con foulard colorati e sono molto abili nei cori musicali, che danno vita a seguitissime gare estive.
Cerchiamo i villaggi dei Seto per chilometri. Uno è un fantasma, non si fa proprio trovare, neanche in fondo a lunghe e strette strade sterrate. Un altro ha una struttura diversa: case allineate, che guardano le acque del grande lago. Tutte in legno, alcune coloratissime e non sembra esserci povertà. Molte assomigliano a residenze estive, prato quasi all’inglese, spazio per il barbecue. Altre sono però abbandonate, come le barche al loro esterno. Legno marcio, buono per le tarme. Dall’altra parte del piccolo canale, sì, proprio quell’isola che è vicinissima, quella è Russia.
Varska è uno dei centri principali del Setomaa. L’immagine che ti rimane impressa del paesino è quella della chiesa di mattoni rossi, situata accanto al cimitero dall’entrata trionfale e poi sparpagliato su un prato. L’eroina dei Seto, la cantante instancabile, è sepolta proprio lì.
Il museo dei Seto non è altro che un’immensa fattoria, e sembra finto. Non c’è un filo d’erba in disordine, gli arnesi sono puliti, senza ruggine, messi al loro posto con una precisione quasi maniacale. Lo stesso per i vestiti tradizionali in vendita, per il mulino, la stalla, la sauna. Sembra non avere un’anima però.
Decidiamo allora di andare alla fine della strada, a caccia dell’orso russo.
Ne fiutiamo le tracce al sanatorio, edificio orripilante, che non può altro che essere frutto del periodo di occupazione sovietica. Lo avvistiamo oltre uno stretto braccio di mare, dopo l’ultimo villaggio, quando all’orizzonte, tra campi verdi e una postazione di avvistamento, svettano i campanili bianchi e le cipolle argentate della chiesa di Kul’e, appena oltreconfine.
Poi lo accarezziamo piano piano, quasi contro pelo, a provocarlo un po’. Infatti c’è una strada assurda che da Varska, costeggiando un paio di industrie in rovina, scivola verso sud. Si intreccia con il confine russo, tanto che, a un certo punto iniziano una serie di cartelli demenziali: “vietato camminare”, oppure “vietato sostare l’auto per 50 metri”. In pratica la Russia invade la strada ma c’è permesso di transito. Non a piedi però. Ci guardiamo attorno e un paio di foto scattano, furtive. Mi chiedo che cosa potrebbe accadere se mettessi il piede fuori dall’abitacolo. E se le sentinelle russe vigilano nascoste? Nel dubbio meglio non provare, la Lonely Planet scrive che se ti vedono è arresto sicuro.
Ci rifiutiamo per prudenza di aiutare un signore a varcare il confine, lo lasciamo solo a Varska. Ci guarda un po’ triste, ringrazia lo stesso. Quanto aveva bevuto? Dove voleva andare?
Ultima tappa nella terra dei Seto, fin sulla vetta più alta delle tre sorelle baltiche, che misura ben tre-cen-to-do-di-ci metri e si innalza sopra foreste e laghetti!
La leggenda narra che in quel posto Kalev, l’eroe nazionale, si fermò stanco, senza cuscino. Così, come si fa per fare una palla di sabbia, prese un po’ di terra e la ammucchiò per posarci la testa, riposare meglio. Ecco la genesi del Monte Bianco dei paesi baltici. Poi si alzò, fece un passo, e dove posò il piede nacque un lago. Creò il mondo camminando. Cantava? In quel caso avremmo avuto una pista del sogno, una via del canto, agli antipodi rispetto all’Australia.
La strada delle cipolle
Dopo un’altra notte insonne nella sauna di Tartu, lasciamo la cittadina universitaria di buon’ora, perdendoci presto nelle stradine di campagna, alla ricerca dei Vecchi Credenti. Questa congregazione religiosa vive lungo le rive nordoccidentali del lago Peipus. Il nostro sta diventando un tour mirato, a caccia di minoranze. Assomiglia molto al viaggio nord-sud di Rumiz lungo le frontiere dell’Unione Europea. E’ in questi posti che i dimenticati trovano asilo? Solo tra le pieghe di confini bizzarri riescono a vivere da esuli? Qui si parla di religione non di etnia, e quindi ne capisco ben poco. Devo informarmi, leggere, faticare un bel po’ per capirci qualcosa.

Leggo che si separarono dalla chiesa ortodossa russa, che voleva riavvicinarsi a quella greca nel 1666, perché non gradivano i cambiamenti nel rito. Sembrano modifiche secondarie a leggerle oggi: lo spelling in russo di Gesù, il modo in cui si effettua il segno della croce, il verso della processione (antiorario dopo la riforma, orario per i vecchi credenti), cantare la parola alleluia tre volte anziché due, vari cambiamenti nella terminologia usata nelle scritture. Per i vecchi credenti, infuriati, non erano affatto cambiamenti da poco: dissero che la chiesa era caduta nelle mani dell’Anticristo. Ma contro avevano lo zar, non una piccola confessione scismatica rivale…
Fu così scagliato un pesante anatema contro di loro, persero i diritti civili, furono arrestati, perseguitati, torturati, uccisi. In seguito, quando la situazione migliorò leggermente dovettero pagare più tasse, inclusa una, a parte, per portare la barba. Per loro era un peccato mortale tagliarla: Cristo la portava, e l’uomo deve imitarne l’aspetto. Molti fuggirono: una diaspora di vecchi barbuti vestiti di nero, ecco come la immagino, con le loro preziosissime antiche scritture sottobraccio. Alcuni si rifugiarono in luoghi remoti e inaccessibili alle persecuzioni, lungo il lago Peipus appunto, o nel Delta del Danubio, o ancora più lontano.
Mi fa strano tutto questo. Arrivo a capire le guerre di religione e gli scismi dalla chiesa cattolica accusata di ricchezza e poca spiritualità. Ma questo no, mi sembra troppo, è solo una separazione dovuta ai simboli. Ma, dopotutto, è vero che la religione, troppo spesso, proprio dietro una foresta di simboli, nasconde i suoi dogmi.
Gli anatemi furono revocati solo negli anni Settanta. Oggi rimangono nel mondo dieci milioni di Vecchi Credenti, mica pochi, ma da qui inizia il delirio: sono in troppi posti diversi, sono scappati per troppo tempo, e la loro stessa fede monolitica ha perso i caratteri originali per dividersi in decine di sette diverse, negli Stati Uniti, in Russia ed altrove. Rumiz racconta addirittura che i loro preti sono eletti dal popolo. E qui mi fermo, altrimenti ne esco pazzo, perché scopro che c’è chi si battezza da solo, chi rifiuta il denaro, chi prega verso oriente attraverso un buco nel muro, chi si rivolge allo zar nei loro inni, chi dice no a tutto, chiese, preti e sacramenti. E chi stop. Direi che so quel che basta per dare un’occhiata curiosa a come vivono di pesca quei diecimila testardi oggi, lungo the onion’s road, la strada delle cipolle.
Varnja, Kasepaa e Kolkja: sono loro, a mio avviso, i paesini dove si respira più atmosfera. Sono costruiti lungo una strada principale, con le case ammassate ai due lati, con poche varianti. Quasi tutte in legno, colori variopinti. Alcune cadenti, altre malandate, altre ancora distrutte. Come la vecchia chiesa di Varnja, buttata giù da chissà cosa, lì di fronte al porto, dove anche le imbarcazioni sono incagliate sulle sponde di un canale, tra le erbacce, ormai inutilizzabili. Più avanti c’è la chiesa nuova, in mezzo alla piazza. Sarà una delle due in cui riusciremo ad entrare. Niente foto per favore, ci fanno capire le signore foulardate dal viso rugoso che parlano solo in tedesco e pregano con litanie infinite, piegandosi in continuazione verso un altare corredato da coloratissime icone.

La nostra curiosità viene punita da un battaglione di zanzare che colpisce implacabile e silenzioso. Quasi senza lo zzzzzz, dritte al bersaglio, il collo martoriato. A Kasepaa c’è una chiesa di legno arancione dove non ci fermiamo, circondata da vasti campi di cipolle. I pochi uomini che sono per strada, a piccoli gruppi, non portano la barba. Eresia!! Si sono alleggeriti del peso di una tradizione o sono diventati peccatori mortali? A Kolkja proviamo ad entrare in chiesa ma un uomo corpulento ci blocca all’ingresso, con gesti inequivocabili. Perché il rito è in corso e non c’è niente da fare. Ci accontentiamo di fare foto al cimitero, anche questo di fronte a un campo di cipolle, dove il monumento dei caduti alla seconda guerra mondiale, corredato da stella a cinque punte e falce e martello, è affiancato dalle croci dei Vecchi Credenti.
Lasciamo le rive del lago, addentrandoci per pochi chilometri all’interno. A Raja l’incomunicabilità raggiunge il top, ma non per colpa nostra. Abbiamo fame e alla ragazza dell’unico ristorante dà quasi fastidio il vederci lì e il servirci una zuppa.
Arriviamo allora a Mustvee dove convivono quattro chiese: Vecchi Credenti, Luterani, Battisti e Russi Ortodossi non si danno fastidio. Dentro la prima ci sono solo donne, e parlano solo in tedesco. Impossibile scambiare due parole, anche con loro. Eppure questa terra ti potrebbe dare tanto dal punto di vista dei contatti umani. C’è gente diversa, di quella che dalle tue parti non incontri, neanche per caso. Segue l’addio al lago Peipus e la nostra zingarata nelle terre minori dell’Estonia finisce a Lahemaa, il parco nazionale vicino a Tallinn, sulle rive del Baltico. Passeggiamo su un paio di chilometri di passerelle di legno, tra muschi e laghetti dai mille riflessi. Si sente cantare un cucù, neanche troppo lontano. E’ in questo paradiso terrestre che le zanzare finalmente decidono di lasciarci in pace.

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