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Viaggio nel Baltico – seconda parte

Il villaggio delle streghe

Accanto al villaggio di Neringa sorge Kalnas Raganu, la collina delle streghe.
Si tratta di una grande duna dove artisti locali hanno impiantato un numero incredibile di sculture lignee che rappresentano le creature della mitologia locale, le protagoniste delle leggende popolari. Se ci arrivi come noi nella stagione sbagliata non vedi bambini ululanti, comitive di famiglie, ma neanche il fatato panorama del mare e della laguna dalla sua cima. Senti piuttosto il gracchiar dei corvi, odori il muschio, l’umidità che ti assedia, e se la tua fantasia galoppa sai che da un momento all’altro puoi sentirti circondato dalla nebbia e da creature demoniache, folletti, gnomi ed elfi, eroi e fanciulle, volti spaventati, ghigni di strega, artigli di arpie.
Ti sembra di far parte delle pagine delle stesse fiabe da cui le streghe lituane prendono vita. E anche l’ultima neve in riva al mare contribuisce a creare questa suggestione.

Accanto al villaggio di Neringa sorge Kalnas Raganu, la collina delle streghe.

Dove c’era Nagliai

Poco più a sud la strada si perde nella foresta, aspettiamo gli alci da un momento all’altro, ma non si faranno vedere. Al primo slargo inchiodo. Non c’è sole, ma la nebbia si è un po’ diradata e la visibilità è lievemente migliorata. E’ così che ci incamminiamo su un sentiero molle, erba cresciuta su tonnellate di sabbia, e arriviamo alle dune grigie. Si segue una passerella di legno, circondata da sabbia mista agli ultimi sprazzi di neve. Le dune mostrano gli stessi segni del vento che puoi vedere nel deserto, capisci che si muovono, che sono creature vive. Camminiamo sui resti dei villaggi abbandonati, Nagliai di sicuro è sotto i nostri piedi con le sue case in legno, sopraffatto da dune che si muovono da mezzo metro a quindici metri ogni anno. Ma accanto c’è la laguna, dall’altro lato il mare, e sembra di assistere alla lotta tra due titani, il grande mare e il grande deserto.
E poi c’è il senso di estraniamento, il cambiamento del punto di vista, il modo in cui cambia la linea dell’orizzonte. Passi, in pochi istanti, da una foresta fitta che sembra nascondere mille segreti e insidie, a una linea dell’orizzonte proiettata all’infinito sulle bionde dune.
Il villaggio sepolto dalla sabbia è stato ricostruito poco più a sud, sul lato della laguna ed è una via addormentata di splendide case di legno colorate di rosso e marrone con gli infissi delle finestre invariabilmente azzurri. E’ piccolo rispetto a Niva, centro principale della penisola dal lato lituano, appena a pochi chilometri dal confine con la Russia.

Niva, centro principale della penisola dal lato lituano, appena a pochi chilometri dal confine con la Russia

Qui trovi tutto insieme: la laguna, la foresta impenetrabile e una gigantesca duna alta sessanta metri. Che però se la gente continua a sceglierla per rotolarsi in cinquant’anni scompare.
L’equilibrio economico, turistico e naturalistico della zona è delicatissimo: se si pianta troppo sarebbe la foresta ad avere il sopravvento sulla sabbia, se si pianta poco sarebbe il vento, che farebbe scomparire la duna verso il mare. Se si chiude del tutto non arriverebbero più i soldi dei turisti, in continuo aumento. Per ora sono ancora trecento gradini per arrivare in cima, per ammirare un panorama bellissimo.
Poi ci dirigiamo, lentamente, verso il confine russo. Campi, nuvole e mulini a vento mezzi abbandonati. Per arrivare nel punto dove la strada finisce, altra mia fissa personale da patito di atlanti e cartografia. Confine duro stavolta, pesantemente sorvegliato, proibito da fotografare. Da avvicinarsi, fino a ottocento metri dalla dogana e da fare inversione ad U, giusto per il gusto di fare il pelo alla Russia.

Campi, nuvole e mulini a vento mezzi abbandonati

Centomila croci

Le strade della Lituania interna sono diritte e monotone, offrono un panorama rurale abbastanza banale. La stanchezza si fa sentire, guido solo io per tanti km, tranne una pausa di un paio d’ore che uso per leggermi la pazzesca storia di questo angolo d’Europa, passato per diverse dominazioni in pochissimo tempo. Arriviamo in uno dei posti che ho cercato con il lanternino, sul quale ho regolato la rotta del ritorno verso Riga. Siamo nella Lituania interna, di campagna, dalle parti di Siauliai.
Per la prima volta ne ho letto sul libro di Michael Palin “Viaggio nella nuova Europa”. Sembra proprio che nei paesi baltici dovunque ci sia una collina, anche di altezza minima, sia accaduto qualcosa di speciale o sia rappresentato qualcosa da non perdere. La collina delle croci, che la leggenda fa risalire al Medioevo e a una battaglia dei Cavalieri Portaspada, non nasce come reazione antisovietica, come in molti potrebbero raccontare. I bolscevichi ancora non esistevano a metà 1800, quando le prime croci iniziarono a essere piantate dai Lituani per ricordare i morti delle repressioni zariste.

La collina delle croci, che la leggenda fa risalire al Medioevo

L’atto di resistenza del piantare una croce, apparentemente religioso, celava una volontà politica, nazionalistica, affermava l’idea di patria. Qui bisogna pensare che i Lituani avevano alle spalle una storia importante, un impero medioevale gigantesco. Avevano ben chiaro il concetto di patria e di identità nazionale ed essere soggiogati dai Russi non era certo piacevole, soprattutto se memori della grandezza passata. Tuttavia, l’esplosione nel numero delle croci si ebbe sotto i Sovietici e la lotta del popolo lituano, che passò dall’opposizione alla religione ortodossa dello zar alla resistenza contro l’ateismo di stato comunista, si fece più dura.
Le croci rappresentavano i perseguitati, i caduti, gli imprigionati e gli esiliati. Qualcosa che i Sovietici non potevano tollerare. Nel 1961 distrussero le croci, bruciando quelle in legno e riutilizzando quelle in ferro e in pietra, o seppellendole. All’alba successiva ne spuntavano sempre nuove, come fiori. Quattro volte demolirono le croci con i bulldozer. Quattro volte le croci tornarono al loro posto, il più delle volte di notte, trascinate attraverso i campi.
Aumentarono la sorveglianza, pattugliarono le strade, registrarono le targhe delle automobili che passavano nei dintorni, pensarono di provocare un’inondazione nella zona per rendere irraggiungibile la collinetta di dieci metri. Niente da fare. Le croci tornavano sempre al loro posto.

Le croci tornavano sempre al loro posto

Dopo il raggiungimento dell’indipendenza di Vilnius il senso del luogo cambiò.
C’era ancora bisogno di rappresentare il proprio orgoglio e la propria resistenza contro un passato invasore che ormai era solo un cattivo ricordo, uno scomodo e ingombrante vicino? Prevalse la spiritualità lituana sulle faccende della politica e della storia, la religiosità sull’orgoglio nazionale e, nonostante le croci dedicate ai resistenti e ai partigiani siano ancora ben visibili, la collina si è trasformata in un luogo di pellegrinaggio religioso. Il papa polacco ci ha messo del suo, con una messa a inizio anni Novanta tenuta di fronte a centomila persone.
Oggi neanche si può parlare più di collina. Le croci sono talmente tante (impossibile contarle, ma si dice arrivino a centomila) che vanno oltre la collina stessa, la circondano, estendendosi alle sue pendici, e nuovi vialetti vengono costruiti alla sua base.
Ci sono croci di metallo, di pietra, legno, plastica; enormi e piccolissime, pretenziose ed umili, cattoliche e non. Rappresentano affermazioni di indipendenza, orgoglio della nazionalità, ex voto, preghiere, ringraziamenti, ricordi per combattenti, amici, per chi non c’è più. Sembra una foresta densissima di legno, pietra e metallo e molte delle croci più antiche e grandi sembrano soccombere, letteralmente sepolte da migliaia di croci più piccole e da rosari di ogni materiale che vengono portati da casa o acquistati nell’immancabile piazzale d’entrata che ospita negozi di souvenir. Il cielo basso e grigio e il tramonto, invisibile, che si avvicina, rendono il posto cupo e misterioso, eppure pervaso da una forte spiritualità. E ti viene spontaneo pensare a chi se ne è andato, da tanto o da pochissimo. Pensieri che mettiamo davanti alla visita di Vilnius, troppo fuori rotta.

Ci sono croci di metallo, di pietra, legno, plastica; enormi e piccolissime

Quaranta minuti e passo un confine deserto. Altri quaranta e sono a Riga.

Riga nella notte

Arrivo a Riga di notte, una finestra larghissima dell’albergo si apre sulla skyline del centro, appena oltre il fiume Daugava. La luna squarcia un cielo quasi tutto nero. Gli ultimi blocchi di ghiaccio navigano verso il Mar Baltico, il freddo però è ancora pungente.
Quel che vedo di Riga quindi, all’inizio sono le sue torri da lontano. Un paio di chiese, di cui una in restauro, i ponti illuminati che si riflettono nel fiume e, in lontananza, il quartiere moscovita, dominato da una di quelle torri immense e lugubri, costruita sullo stile delle sette sorelle di Mosca. E’ uno di quei posti dove ti fanno salire e ti dicono, con un ghigno, “da lassù si vedeva fino ai gulag della Siberia”.
Mangiamo a lume di candela in un ristorante medievale dai prezzi eccessivi, situato in una cantina, dove a malapena riesci a vedere il cibo nel piatto. I camerieri sono vestiti in abiti tipici, tre giovani suonano con un flauto, un liuto e una chitarrina una musica più rinascimentale che medievale. Al tavolo accanto siedono e urlano, per tutto il tempo, rumorosi giovani ubriachi. Una scena frequente a Riga.
Una rapida passeggiata per il centro mi porta sotto case dalle forme fantasiose e in un paio di piazze dove gli stili architettonici si mischiano: accanto al rococò puoi trovare il neoclassico, vicino al medievale il barocco. La neve è ancora accumulata in grossi mucchi agli angoli delle strade quando vedo un altro assaggio notturno di Riga, il monumento alla libertà, appena fuori dal centro storico.

Una rapida passeggiata per il centro mi porta sotto case dalle forme fantasiose e in un paio di piazze dove gli stili architettonici si mischiano: accanto al rococò puoi trovare il neoclassico, vicino al medievale il barocco

Milda

Simbolo del paese, la statua è stata costruita per onorare l’indipendenza della Lettonia raggiunta dopo la prima guerra mondiale (quando i bolscevichi tentarono la riconquista e furono sconfitti da lettoni e alleati) ed è posta su un’alta colonna. Sorregge sopra il capo tre stelle dorate che rappresentano le regioni da cui è formato il paese, Curlandia, Livonia e Latgallia. I Sovietici miracolosamente non abbatterono Milda, come la statua della libertà viene affettuosamente chiamata dai locali, la trasformarono semplicemente, come ricordano con ironia i Lettoni, in un’agenzia di viaggio: chiunque avesse provato a depositare dei fiori ai suoi piedi durante il periodo sovietico, avrebbe vinto rapidamente un biglietto gratis per la Siberia. Questa “flessibilità” dei Sovietici un po’ mi sorprende, anche perché Milda fu costruita nel 1935 nel posto dove si trovava in precedenza la statua equestre dello zar Pietro il grande, un vero e proprio affronto in epoca staliniana, quindi indago.

Simbolo del paese, la statua è stata costruita per onorare l’indipendenza della Lettonia raggiunta dopo la prima guerra mondiale

Leggo che i Sovietici pensarono che, da un lato, avrebbero fatto meglio a tenere un qualcosa che consideravano bello (e bello non è, se non per i canoni sovietici) e che abbattere il monumento avrebbe causato troppi problemi. Arrivarono a dire che era stata costruita in tempi sovietici e iniziarono ad attribuirgli un altro significato: dopotutto la statua della libertà poteva essere la grande Madre Russia e le tre stelle, le tre sorelle baltiche, appena entrate nella grande costellazione delle repubbliche socialiste dell’Unione Sovietica. E così restò lì, altissima, un punto di riferimento per la città intera, meta delle marce patriottiche che, dopo l’indipendenza, ancora causano non pochi malumori tra i lettoni di origine russa, che a Riga minoranza non sono. Lungo il piedistallo e ai piedi della colonna in travertino, Milda ospita bassorilievi che rappresentano fucilieri e cantanti, lavoratori e guerrieri, studenti e muscolosi uomini che spezzano le catene dalle quali sono imprigionati.
Nonostante i tentativi sovietici di mutarne il significato, piazzando anche una statua di Lenin, poi demolita, lì vicino, Milda è sempre rimasto il posto dell’orgoglio nazionale, da dove iniziò, nel 1987, la marcia verso la seconda, attuale indipendenza. I Sovietici si opposero in ogni modo. Una volta organizzarono una corsa ciclistica, casualmente nello stesso posto, per evitare una manifestazione di protesta; in altre occasioni, meno ipocritamente, dispersero la folla con gli idranti. Ma alla fine degli anni Ottanta, deporre fiori alla base di Milda era tornato ad essere un gesto naturale, e raramente punito. Fino a che il movimento per l’indipendenza crebbe in maniera esponenziale, la gente iniziò e non smise più di cantare, e Milda ricominciò a sorridere, circondata da fiori coloratissimi. Altre volte un po’ meno, perché vide sotto i suoi occhi, radunarsi anche sospetti nostalgici filonazisti che celebrarono i plotoni che combatterono contro l’Armata Rossa, al fianco delle SS.

Nel Club alternativo

Riga con la pioggerellina che lucida i ciottoli del centro

Le uscite serali successive ci regalano un po’ di atmosfera.
Riga con la pioggerellina che lucida i ciottoli del centro, Riga con un nebbione allucinante che rende i ponti delle apparizioni e i passanti dei fantasmi. Riga come una versione più povera di una Praga d’inverno. Riga genuina, quella che puoi trovare al Folkklubs Ala Pagrabs, pieno di giovani, birra, buon cibo, musica e allegria.
L’ingresso di questo Club alternativo è sotterraneo! Il locale si trova in uno scantinato. Non c’è molta gente ma noto che parecchi tavoli, specialmente nella sala principale, sono prenotati. C’è un piccolo palco per ospitare un complessino e un lungo bancone da pub che offre birre locali non pastorizzate. I tavoli sono rozze assi di legno senza tovaglie. Il menù è limitato ma buono e abbondante: tartine di funghi e formaggio, involtini di pollo avvolti nella pancetta e ripieni di frutta secca, assaggini di gulasch di alce e funghi, di maiale caramellato e di castoro coi frutti di bosco!!
Comincia la musica, un ragazzo suona un enorme tamburo medievale, un altro un basso elettrico, non mancano un violino e una fisarmonica. Sembra musica irlandese, reel melodici e ripetitivi che partono a un ritmo lentissimo. Poi, lentamente, come in un sirtaki, le battute aumentano e il ritmo raggiunge livelli da tarantolati. Cinquanta ventenni scatenati calpestano il pavimento del locale, ballando a coppie, in quattro, a gruppi, con energia incredibile. Sembrano banali balli di paese, ma sono tutti bravissimi, allegri e sudati. Battono due volte le mani, al tempo con il tamburo, sulle cosce, poi sulle mani degli altri, urlano un breve e incomprensibile ritornello ritmato, si girano, cambiano partner al volo, non si fermano un istante. Usciamo dal locale con il ritmo nel sangue, infondo abbiamo vissuto una tipica serata lettone, e ascoltato la loro musica in un posto dove eravamo gli unici stranieri.

Monumenti che parlano

Dopo la Milda un altro monumento racconta la storia di Riga. Fa pensare e discutere.
Parlo di un possente gruppo di tre statue in granito rosa che si danno le spalle, guardando l’orizzonte. Granitiche, come la pietra. Pugni chiusi distesi lungo i fianchi o braccia conserte, come gli incorruttibili. Stella a cinque punte sul berretto. Forme geometriche e fredde, come se la guerra avesse eliminato in loro la facoltà di provare emozioni.
Sono i fucilieri lettoni rossi e non è che siano amati proprio da tutti. Nella prima guerra mondiale diedero prova di coraggio contro i Tedeschi ma poi, con la guerra civile, si divisero in due gruppi. I rossi passarono dalla parte dei bolscevichi, tentando, senza successo, di instaurare il regime sovietico in Lettonia, mentre la minoranza combatté con le Armate Bianche.
Normale quindi che ci siano persone alle quali questo monumento non vada del tutto a genio, nonostante ci sia chi lo identifichi con il valore mostrato, da patrioti, nel primo conflitto mondiale.
Chiudo la giornata con la visita del Museo delle occupazioni naziste e sovietiche del paese. Osservo foto di deportazioni e bombardamenti, oggetti ritrovati nei lager, manufatti costruiti nei gulag siberiani, come un incredibile portasigarette nero, con inciso sopra un orso che non riesce a liberarsi dalle catene e la scritta “Siberia”. Leggo con attenzione tutti i pannelli, non vedo sbilanciamenti od omissioni, si parla dei deportati in Siberia ma anche degli ebrei morti nei campi di concentramento e dei 25.000 disgraziati quasi tutti provenienti dal ghetto di Riga, uccisi con un colpo alle spalle nella foresta di Rumbula, una pineta della capitale.

Il centro di Riga

Il centro di Riga è un piacevole miscuglio di case medievali, barocche, strade in ciottoli, chiese imponenti, tanti negozi di souvenir...

Il centro di Riga è un piacevole miscuglio di case medievali, barocche, strade in ciottoli, chiese imponenti, tanti negozi di souvenir che vendono matriosche, ambra e lino. Il duomo è bello, in mattoni rossi.
Altre piazze alternano casette colorate a mostri moderni in vetro e cemento. Una via lo taglia in due e conduce dal Monumento dei Fucilieri fino a quello della Milda. Oltre Milda, si innalza la mole di un’enorme cattedrale ortodossa dalle cupole a cipolla, una dorata, e dagli interni insospettabilmente azzurri, adibita a planetario durante l’era sovietica.
Prima di entrare nel dedalo di vicoli si incontra la famosa Casa delle Teste Nere.
Poi un canale lungo il quale sorgono negozi e ristoranti, che attraversa un parco e divide la parte vecchia di Riga da quella nuova. Da visitare anche il quartiere art noveau forse più bello d’Europa. Si cammina con il naso all’insù per osservare guglie e pinnacoli, bovinde e torri dalle forme fantasiose, facciate colorate dove si nascondono volti spaventati, occhi terrorizzati, figure mitologiche, eroi classici, chimere e sirene, leoni dalle fauci spalancate, gorgone, draghi, gatti neri dal pelo dritto in cima a torri e misteriose maschere maya. Solo le facciate sono così vive e varie, fino quasi a stancare, e le ambasciate se le litigano.
In diversi angoli Riga ti porta a pensare al passato.

In centro, di fronte a una chiesa, c’è una copia della statua dei musicanti di Brema. Uno sopra all’altro: dall’asino al gallo, come da tradizione, ma con un dettaglio in più. Ho sempre pensato che la favola sia un inno alla conquista della libertà e dell’emancipazione da un padrone tiranno.
Questa statua è stata eretta nel 1990, e il dettaglio che è stato aggiunto è che i quattro animali passano attraverso un muro di ferro. Ci si può leggere tranquillamente il Muro di Berlino o la Cortina di Ferro, tanto il senso è lo stesso. E’ l’affacciarsi sul mondo che era stato precluso. E poterselo godere, anche se, come gli animali della fabia, si è vecchi, provati dalle fatiche e sofferenti.

Russia, all’improvviso

Poco più in là, passata la ferrovia, si ritorna invece in piena Unione Sovietica. C’è un vivace e grandissimo mercato russo che si appoggia a grossi edifici in mattoni e anticipa la torre tetra e minacciosa voluta da Stalin, dalla cima della quale si vede tutta Riga.
La sera la città cambia. Sul fiume si riflettono le luci dei ponti, le strade sono piene di gente. Tanti giovani, musica che esce fuori da ogni porta, luci di ristoranti, locali, chi canta e chi urla. Gruppi di italiani, solo uomini per lo più, impegnati in addii al celibato selvaggi.
Ma dall’altra parte del fiume, appena alle spalle del nostro albergo, dalla parte opposta rispetto al centro storico, poche luci e parecchio silenzio. Ci andiamo nelle ultime ore di vagabondaggio. Una città non è solo luci e colori, non è solo dove arrivano i turisti. Ed è impressionante quanto un fiume possa, ancora una volta, esserne un elemento di demarcazione.
Alla fine di un lungo viale appare un’altissima ciminiera sormontata da stelle rosse. Ovviamente è un monumento di era sovietica, costruito nel 1985, e ancora in piedi, forse proprio perché siamo in zona russa. E’ qui che i russi si radunano per le loro manifestazioni e le loro rimostranze. Si chiama memoriale ai soldati dell’Armata Rossa…
Tira un vento di inferno e non piove, nevica.

Tira un vento di inferno e non piove, nevica

Taglia le orecchie in due, l’ombrello che ho prudentemente messo in tasca è inutile. Il cielo è grigio e aggiunge tristezza a quel che vediamo. La parte più operaia e meno nota di Riga alterna palazzoni di cemento a case di legno malridotte. Le strade sono piene di fango e buche, i rari passanti camminano guardando per terra, con il bavero alzato, e l’immancabile berretto. In questa zona c’è un mercato dove al piano inferiore si comprano i pochi ortaggi invernali adatti per le zuppe e la carne affumicata di ogni tipo che manda che manda un odore che si sente nel raggio di cento metri. Mentre il piano superiore è dedicato a ristorantini e caffetterie che però son chiusi, forse perché oggi è domenica.
La vista dell’isola fluviale quasi ci sfugge, il vento ora è gelido, meglio entrare a bere da qualche parte, dove le bionde ragazze lettoni di Riga si divertono perché l’estate in fondo è vicina.

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