Montagne russe
Sul finire degli anni ’90 per un lungo periodo questa giovane nazione ha avuto tassi di crescita vicini al 10%, anche perché erano ampi i margini di miglioramento, c’era molto movimento sotto il cielo, troppe cose da fare dopo quasi mezzo secolo di oppressione sovietica. L’energia di un paese giovane e libero usciva fuori dirompente, tutta insieme. Come un capriolo dai boschi.

Lo sviluppo dell’economia estone è stato veloce, a tratti vorace. Esempi telematici di oggi: tutte le scuole sono connesse in rete, si pagano le tasse via internet, il 70% della popolazione, compresi i settantenni, naviga, il’80% lo usa abitualmente per le proprie transazioni bancarie. Le spese dello stato possono essere seguite online ogni giorno e le riunioni del governo si effettuano senza usare alcun tipo di supporto cartaceo dal 2000.
Riusciamo a immaginare qualcosa del genere dalle nostre parti?
Problemi, anche, scivoloni, giravolte, come un percorso sulle montagne russe: un paio d’anni di caduta vertiginosa del pil, le alte differenze socio-economiche, la povertà concentrata nella minoranza russa che popola Narva, covo di contrabbandieri proprio sul confine, l’elevato numero di alcolizzati specie nella fredda stagione invernale.
E poi Tallinn moderna e brillante ma tante campagne rimaste indietro. I costi per l’entrata in Europa. In giro per il famoso centro storico di Tallinn algide bellezze dagli occhi di ghiaccio, gambe altissime, minigonne vertiginose, e vicini i villaggi delle pianure abitati da donne più grassotte, sincere e sorridenti. Intorno castelli, boschi, fiumi e laghi, una vita placida, un folklore autentico, tratti somatici e suoni linguistici del ceppo ugro-finnico.

La Singing Revolution
Ancora oggi in Estonia si parla della fine degli anni Ottanta come degli anni della “Singing Revolution”. Le sorelle baltiche si sostennero a vicenda. Fisicamente, non solo moralmente. Nell’agosto del 1989, in occasione del cinquantesimo anniversario del famigerato patto Ribbentrop-Molotov, che spartiva l’Europa in zone di influenza tedesche e sovietiche (e i Baltici ne facevano le spese, perdendo l’indipendenza) migliaia di persone si tennero per mano, formando una catena umana lunga 600 km, fino a collegare le tre capitali. Servirono altri due anni per ottenere l’indipendenza. Per costruirsi un futuro da soli, liberi dai vicini potenti e ingombranti, dal partito-apparato, al massimo in compagnia dell’Europa.
Passeggiate per Tallinn
La prima sera a Tallinn ho scelto un tavolo all’Olde Hansa perché nel contattarlo il titolare mi aveva scritto: “i vostri cavalli saranno così stanchi dopo un viaggio faticoso: fermatevi a riposare e a mangiare da noi”. Cosa può volere di più un viaggiatore che non sentirsi ripagato da una atmosfera e da una cortesia di stampo medievale? Ecco gli abiti tipici dei camerieri, la luce fioca delle candele, le brocchette di coccio piene di birra scura al miele, il piatto di carne che è un misto riuscito di alce, cinghiale, rape allo zenzero e frutti di bosco.

Un bel vento di mare accompagna i miei passi nelle vie buie di Tallinn, un po’ di musica esce dai locali, mentre chiunque potrebbe aspettarti sotto il municipio gotico della capitale, un angelo come un demone. Saliamo a Toompea per vedere la città vecchia dall’alto che però ha illuminati solo un paio di campanili. La collina che ospita la cattedrale ortodossa è il nucleo originario di Tallinn. Antiche leggende mormorano che lì sia sepolto Kalev, il fondatore del regno, portato in volo dalla grande aquila del nord, padre di colui che viene chiamato Kalevipoeg, il figlio di Kalev, l’eroe epico estone, di stirpe vichinga per alcuni, ungherese di altri.
Le lacrime della moglie di Kalev, Linda, secondo una leggenda formarono una pozzanghera, che si allargò in uno stagno e poi nel grosso lago dalla forma irregolare che è a nord-ovest di Toompea e dove si erge, solitaria, una statua della vedova inconsolabile, accanto al blocco di granito che non riuscì a portare in cima per ornare meglio la tomba del marito. Vista da qui la città sembra già dormire il lungo riposo invernale.

Le strade di ciottoli sono deserte e silenziose, giochi di luce e ombre si notano tra le case silenziose ed eleganti. Bellissime le Tre Sorelle, le case antiche con il tetto a punta, che ricordano i tempi della lega anseatica, quando Tallinn era un centro florido e importante di commerci navali nel Mar Baltico. Ultima tappa la Casa dell’aglio, con un menu basato tutto sul nostro amico bianco e dal profumo pungente. Proviamo solo il gelato e ha un sapore davvero curioso. Alle pareti solo corone d’aglio, a proteggerci dai pericolosissimi vampiri baltici!
Il giorno dopo finalmente riesco a entrare nella farmacia storica, la Raeapteegi hoone, fondata addirittura nel 1422. E’ nello stesso edificio della casa dell’aglio, ne occupa il primo piano. Mi diletto a fotografare i ritrovati medioevali, ancora conservati in deliziosi barattolini di vetro, che si riteneva avessero grandi proprietà curative: insetti giganti, lombrichi sott’olio, vespe arrostite, mani di mummia umana, zoccoli di cavallo, saliva di vipera, rospi e peni di daino essiccati, infuso di pidocchi del legno. Ci credo che dopo tutte queste delikatessen venissero offerti ai malcapitati malati anche confetti, vino speziato e marzapane.
Compro per gli amici dell’ufficio le deliziose mandorle tostate, servite dalle ragazze dell’Olde Hansa che sono lì dalle dieci della mattina, per dodici ore, con le immancabili cuffie e abiti medioevali. La ricetta ovviamente è segretissima, vecchia di seicento anni, dicono. Sono preparate con sedici spezie, quattro tipi di zucchero e – parola di un famoso cuoco – se ne mangi almeno cinque è impossibile ubriacarsi.
Infine arrivo alle mura.
Le torri svettano, illuminate di bianco e di verdastro, nel buio. Una magia che le rende fatate, tra alberi dai rami secchi e scuri che si protendono verso il cielo nuvoloso. Mi riscaldo in un vecchio pub, con un vin brulé e una zuppa di cervo dove intingo una super-ciambella di pane aromatico. Mi perdo volentieri tra stradine che ricordano il vicolo d’oro di Praga, prima che fosse preso d’assalto dal turismo di massa.

Vagabondaggio
Esco dalla città attraversando vialoni e periferie sovietiche. Campi ricoperti da nevischio. Gli estoni che si rifugiano in cappelli, sciarpe e guanti. Piove, pioggia d’autunno, sottile e continua, non smetterà fino a sera. Dopo un po’, al solito, per noia, lascio la superstrada, tanto ho la cartina, per infilarmi in stradine secondarie, circondate dalla brughiera piena di cervi e dai torrenti affollati di castori. Non vedo nulla, se non una chiesa bianca e spettrale, che si alza nella foschia. C’è nebbia, le balle di fieno sono marroni per tutta l’acqua che prendono, i campi neri iniziano il riposo invernale. Attraverso zone piene di fabbriche diroccate per ritrovarmi in campagna, in strade dissestate che inducono alla prudenza. Oltrepasso il fantasma di una cattedrale in pietra. Sono le tre e mezza del pomeriggio e il cielo è grigio, le nuvole basse. Sembra quasi che debba far buio da un momento all’altro.
Arrivo ad Haapsalu, ridente e fredda località termale sul Mar Baltico, che il sole sta tramontando: ore quattro. La stanza che pago pochissimo è deliziosa, così come il castello di pietra diroccato adiacente. Iniziarono a costruire il complesso fortificato nel 1200. Poi fu demolito durante quelle guerre che io non conosco, quel Medioevo che mi attira e mi spaventa. Chi ha mai sentito nominare l’ordine dei Portaspada e la crociata estone con cui gli ultimi pagani d’Europa furono cristianizzati?

Accanto al castello, una cattedrale in pietra. Sembra che ogni anno, nella notte di plenilunio di agosto, una dama bianca appaia sul muro della cappella e la leggenda narra che si tratta di una ragazza estone, amata segretamente da un canonico votato alla castità. Lei era travestita da ragazzo del coro per mantenere il segreto ma fu scoperta dal vescovo malvagio: lei murata viva, lui fatto morire di fame.
Dopo un po’ finì di urlare ma continuò ad apparire, a testimonianza del suo amore eterno. Non mi stupisce che una fiaba come Lady Hawke, così magica, fosse ambientata nel Medio Evo.
Al crepuscolo si intravede una fetta orientale di luna sul lungomare. Chissà, forse domani sarà “bello”. L’ultimo ostacolo, prima della spiaggia, piena di giochi per bambini malinconicamente deserti, è un campo di grano scosso dal vento. Ci può essere grano maturo a metà novembre in Estonia, sulle rive del Baltico? Sembra sogno più che realtà. Un regalo inatteso, fatto apposta per me. Perché, non appena mi avvicino, migliaia di corvi si alzano in volo verso il cielo scuro e i rami spogli e contorti degli alberi. E penso al quadro di Van Gogh, il mio preferito, quello appeso sopra al mio letto, quello che amo da anni, il “Volo di corvi sul campo di grano”. E mi sembra di viverlo, mi illudo che potrei quasi dipingerlo.
Continuo la camminata lungo il promenaad. Mangio al ristorantino della locanda un guazzabuglio di carne panata, patate, salse, barbabietole, più una seljianka, delizioso brodo con carne, cavolo, panna acida, funghi, limone e prezzemolo. Esco per la gelida passeggiatina serale, con il castello illuminato che domina sulle casette in legno e su strade silenziosissime, quasi deserte, dove solo pochissimi intrepidi passeggiano per portare a spasso i cani.
Prima di lasciare Haapsalu vado a visitare il museo della stazione. La linea ferroviaria, sui binari della quale riposano magnifici locomotori e vagoni del secolo scorso, era stata costruita per collegare la località termale con Pietroburgo, per consentire agli zar un facile accesso al mare: non la usarono mai.
Nessuna macchina andando verso sud. Il panorama è rurale, qualche casa, un po’ di mucche, campi neri a riposo, poche conifere. Frequenti segnali di attraversamento alci, ma come spesso accade restano nel fitto dei boschi. Faccio un paio di pause. La prima a Kirbla, dove c’è un piccolo paese, parecchia puzza di letame, una bella chiesa e un cimitero, con seppelliti tutto coloro che furono uccisi dall’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale, quando il paese fu bruciato.
La seconda alle rovine di un castello lasciato a marcire su una delle colline più alte d’Estonia, almeno duecento metri, a Lihula, dove un tempo c’era un monumento, rimosso solo nel 2007 per ordine del presidente della repubblica, che celebrava i soldati estoni che combatterono con i nazisti contro i sovietici.
L’isola lontana da tutto
Prendo il traghetto per Muhu attraverso un ventosissimo braccio di mare. Vago un po’ per l’isoletta di Muhu, fermandomi presso una bianca chiesa medievale dal tetto a punta e poi avvisto il primo dei mulini a vento. Sono diversi da quelli olandesi essendo interamente costruiti in legno e avendo il corpo che gira, per seguire meglio i capricci di Eolo. Poco più in là, a Korguva, se non ci fossero quintali di muschio sui bei muretti di pietre a secco, se tirasse meno vento e facesse meno freddo, sembrerebbe di stare nell’Irlanda rurale. Il villaggio, infatti, ha tutte le casette con i tetti in paglia. Sopra i muretti in pietra riposano, pancia in sotto, carcasse di barche in legno. Mi chiedo il perché. Superstizione, tradizione? Non ci arrivo, niente da fare.
L’apparente semplicità delle costruzioni nasconde un tenore di vita elevato. E’ stato sempre così su queste isole, salve dagli invasori e dalle epidemie, fino a quando l’emigrazione ha iniziato a colpire duro. Perché saranno posti belli e salutari, ma non c’è università e, alla lunga, poco lavoro, poche possibilità, pochi stimoli per i giovani. La solita vecchia storia del mondo a parte, del paradiso perduto.
Arrivo a Saaremaa attraverso un terrapieno di pochi chilometri che la collega a Muhu, lo stesso che fu distrutto dai tedeschi in ritirata nel 1944. La pioggia non mi abbandona un istante e tira un vento gelido che non mi permette di restare fuori più di dieci minuti senza intirizzirmi. Sosto a un laghetto, presso Kaali, creato 4000 anni fa dalla caduta di un meteorite di 10.000 tonnellate. Luogo poetico e lontano da tutto Saarema, probabilmente bello d’estate, con l’acqua che deve riflettere il verde degli alberi che lo circondano, conosciuto come la tomba del sole dalla mitologia scandinava.

Arrivo infine a Kuressaare, capoluogo dell’isola, dormo a casa di Heimar, omino che balbetta un simpatico inglese e affitta quattro stanze doppie al primo piano della sua abitazione. Non c’è nessuno: l’appartamento è tutto per me, a 40 euro a notte.
Rossi e Neri
Kuressaare… non si tratta certo di una metropoli. La periferia industriale nasconde un centro piccolino ma carino, con qualche vicolo medievale, alcune case neoclassiche e, soprattutto, un castello di tutto rilievo, circondato da un fossato e munito di un’alta torre di avvistamento, ricoperta di tegole rosse che sono davvero un canone stilistico da queste parti.

Dentro c’è un museo che mi chiarisce definitivamente quanto questo popolo possa aver sofferto. Saaremaa ospitava, costretta da un patto di assistenza e mutua difesa, basi sovietiche già nel 1939. Furono le teste di ponte all’invasione dell’Estonia neutrale ed indipendente, occupata dai russi l’anno successivo. Seguì un periodo di arresti, sparizioni e deportazioni di massa. Nel 1941 Hitler tradisce e invade la Russia. Da Saaremaa partono i raid sovietici su Berlino. Tutta l’Estonia cade in poche settimane, per la gioia dei baltici che vedono i tedeschi come liberatori. E combattono con loro.
Al museo c’è un cartello che dice che nonostante l’oppressione ideologica cui il regime tedesco obbligava gli estoni, esso era ritenuto migliore di quello sovietico. In realtà stava avanzando, lugubre, un’altra dittatura, che anche in questo angolo d’Europa diede la caccia agli ebrei.
Prima del ritorno dei sovietici, molti abitanti di Saaremaa di origine svedese si improvvisarono boat people, cercando rifugio in Svezia e molti di origine tedesca furono evacuati. E i sovietici non fecero prigionieri tra chi non fece in tempo. Tre invasioni in quattro anni per un totale di 280.000 morti, un quarto dell’intera popolazione. Chi non ha passato guai in Estonia in quel periodo? Chi non pensava? Chi non si schierava? Era possibile?
Mi alzo il mattino seguente ancora sotto la pioggia. Sosto al cimitero di guerra, appena fuori città. Rossi e neri riposano insieme, sotto a questa pioggerellina che mette malinconia. Poche le tombe russe, ancora con i simboli sovietici, tantissime quelle tedesche, tristemente allineate. Innumerevoli quelle senza nome. Diversi unknown soldiers sono sepolti nella stessa tomba, e su varie lapidi è riportata, fino a quattro volte la scritta unbekannter deutscher soldat, soldato tedesco sconosciuto. Nell’inverno che tra poco ghiaccerà il braccio di mare che collega queste isole queste tombe sembreranno ancora più tristi.
Storie di mulini, pescatori e fattorie
Guido verso nord, seguendo strade secondarie. Mi fermo ad Angla, dove cinque bei mulini a vento sfidano le raffiche violentissime.

E’ il sito più turistico di tutta l’isola ma a metà novembre non c’è nessuno. Seguo la costa per chilometri, ma c’è sempre una fila di betulle ad impedirmi la vista del Mar Baltico, sia che percorra le strade asfaltate o gli sterrati fangosi che riducono la macchina a un letamaio. Non mi preoccupo, tanto mancherà poco al successivo acquazzone.
Mi fermo ad ammirare una chiesa ortodossa dipinta di rosso, interamente in legno, che si staglia in mezzo a campi verdi, come una visione. Dopo tanto girovagare arrivo a Panga, alle scogliere più alte dell’isola, ben 21 metri a picco sul livello del mare. Panga è il posto dove pare, al largo, ogni anno, con il rito noto come mari kakk, si sacrificassero uomini o animali al volere del Dio del Mare, che poi veniva dissetato con birra e vodka versata in omaggio. Tira un vento indemoniato e godo di una lieta solitudine, sferzato dalla furia degli elementi. Continuo a vedere scheletri di barche che hanno navigato e pescato tanto, qui ed ora capisco grazie a qualche chiacchiera nei pub che sono l’omaggio dei pescatori alle proprie compagne fedeli: hanno preferito non bruciarle, quando troppo rovinate, e lasciarle a guardia delle proprie case. Un ringraziamento, un non volerle dimenticare. Mi sembra un gesto bellissimo.
Visito una fattoria, i suoi attrezzi tradizionali, macine, seghe, cantine, granai, l’orgoglio di un passato contadino e di un mondo che ancora c’è, ma che sta scomparendo. La signora che vende latte e formaggi mi indica l’enorme altalena in legno su cui i ragazzi, per farsi notare, fanno il giro intero, a 360 gradi rischiando l’osso del collo. Mi racconta del fuoco che, ogni 23 giugno, quando il giorno non ha fine, viene acceso, e tutto il paese è lì, e i bambini possono non andare a dormire presto. Il paese – Viki, si chiama – sono quattro case in croce, tutte in legno, la loro ancora più isolata e solitaria. E’ in legno, come le altre, dipinta di rosso. Vicino alla casa l’orto, scavato faticosamente per ricavarne carote e barbabietole buone per le zuppe e le insalate, in più la serra per i pomodori. Mi dicono in un mezzo inglese indurito dall’accento del baltico che in Estonia Tallinn cresce molto, ma che in campagna è un disastro, i prezzi sono aumentati molto e la gente scappa. Una classica economia a due velocità e la perdita quasi sicura delle tradizioni dei campi.
Arrivo a un mare freddo e ventoso, onde con schiuma prepotente, di fronte a un arcipelago sede di un parco naturale dove sostano svariati uccelli migratori del nord, che in estate deve essere sensazionale. Su queste coste gli abitanti accendevano fuochi che sembravano fari per attirare le navi in difficoltà, e poi le rapinavano.
Parto di consueto con la pioggia, più forte del solito. Dopo pochi metri, al lato della strada Anneli sporge il pollice. Sta diventando un’abitudine tirare su autostoppisti nell’uragano qui in Estonia. E’ un’adolescente, completamente zuppa, capelli neri lunghissimi, i bei vestiti del sabato sera ancora addosso. Non esito un attimo a raccoglierla mentre penso che in Italia, alle otto del mattino, sotto a un acquazzone, su una superstrada appena fuori città, neanche mi sarei fermato a guardare. E d’altra parte se una ragazza provasse a fare l’autostop in una situazione del genere, probabilmente finirebbe in qualche pagina di cronaca nera. Qui si fidano. E io pure. Saaremaa è un’oasi di pace. L’isola più a nord, Hiiumaa, sembra sia ancora più pacifica e silenziosa. Anneli mi racconta che ci sono cartelli, al di fuori dei negozi, che invitano i turisti a non mettere i lucchetti alle biciclette, perché tanto nessuno le potrà mai rubare. Non esiste proprio come concetto il furto, neanche come possibilità.
Anneli ammette che il tempo è orrendo ma che ancora non fa freddo, quello vero arriverà con la neve. Le evito cinque minuti di uragano, lasciandola a un incrocio vicino. Poi, d’incanto, forse per proteggere Anneli, si apre il cielo, le nuvole si alzano, si intravede il sole e uno splendido cielo azzurro.
Un saluto beffardo di Saaremaa e Muhu o un invito a tornare da queste parti, come a dire, “guarda, possiamo offrirti molto di più”?

Sotto il sole il verde è brillante, i prati vicino al faro si illuminano, il grano, altissimo, diventa giallo splendente da marroncino triste. Le alte spighe si riflettono nelle paludi ai lati della strada in bellissimi giochi di luce. Anche Anneli era bella.
(continua…)
Non ci sono Commenti